Koinonia Febbraio 2021


Dopo che sul numero di gennaio Daniele Garota ha ricordato Piergiorgio Cattani,

perché il suo ricordo rimanga vivo tra noi riportiamo

la “Lettera ventiquattresima” dal suo libro

“Cara Valeria - Lettere sulla fede”, Il margine, 2008, pp.199-203

 

TUTTO È BUONO!

Cara Valeria,

riprendo da dove avevo concluso la lettera precedente, secondo quanto mi chiedi di fare nella tua risposta. Ritorno sul senso della preghiera.

Nel nostro tempo pregare significa chiedere a Dio un qualcosa che non si è capaci di raggiungere con le proprie forze. Abbiamo già parlato di questo argomento. Molte persone si ricordano di Dio solo nel momento del bisogno. Si aspetta il «miracolo».

Esiste il concreto pericolo di cadere in una logica superstiziosa che non fa più differenza tra un genuino spirito religioso e un primitivo atteggiamento propiziatorio. Un modo di pensare che non distingue più la fiducia in un mago dal culto dei santi, una visita a un santuario da una sosta dalla cartomante.

Però anche in questo miscuglio di pagano e cristiano, di fede e irrazionalità, possiamo rintracciare qualcosa di autentico che ci rivela la profondità del nostro animo. La consapevolezza di non essere autosufficienti ci fa capire quanto, a livello umano, siamo dipendenti l’uno dall’altro. Quanto abbiamo bisogno di un rapporto vero con gli altri. Anche questo è l’inizio di un cammino di fede. Rimane però la questione fondamentale: che cosa succede se Dio non ci esaudisce? Se ciò che avevamo tanto sperato non accade? Nel Vangelo Gesù invita più volte a pregare, a domandare la vita, la salvezza, la guarigione dalle malattie, perché anche la più semplice richiesta verrà esaudita. Non solo: Dio ci darà quello che neppure chiediamo. Gesù stesso insegna a chiedere al «Padre nostro» il pane quotidiano, il perdono, la liberazione dal male, l’avvento del suo regno di giustizia. 

La nostra esperienza è ben diversa: perché le preghiere che innalziamo al cielo non vengono ascoltate? Perché anche i giusti e gli umili sembrano abbandonati da Dio? Resta lo scandalo, che poi è quello di sempre: sono vane le invocazioni che da millenni gli uomini rivolgono a Dio? Quante volte i nostri lamenti ritornano alla terra non diminuiti ma moltiplicati!

Per me sarebbe però impossibile negare che in certe occasioni gioiose e dolorose sento Dio vicino, concretamente accanto a me. Sento che le mie preghiere vengono esaudite. Come la mettiamo allora? Dio è capriccioso e incomprensibile, oppure siamo noi che ci costruiamo l’illusione sciocca di qualche presenza sovrannaturale al di là della materia? Sono domande complicate ma legittime. Sono le stesse brucianti questioni che ritroviamo nella Bibbia, soprattutto nel libro dei Salmi. Io ho imparato fin da adolescente, grazie all’insegnamento di mio padre, a recitare la «Liturgia delle ore», cioè l’insieme delle preghiere giornaliere che vengono dette in orari particolari, soprattutto la mattina e la sera.

La «Liturgia delle ore» comprende, tra l’altro, la lettura dei Salmi. Questi componimenti, di una forza e di una intensità incredibili, hanno accompagnato la mia crescita spirituale molto di più della recita del rosario che - con grande dispiacere di mia madre - trovo noiosa e ripetitiva. A leggere i Salmi ritrovo invece quelle domande, quelle sensazioni, quegli appelli a Dio che rendono la fede qualcosa di drammaticamente vitale. Sono le preghiere di uomini sofferenti che invocano aiuto, sono inni di gioia e di speranza, sono lodi di ringraziamento, sono grida senza risposta. Quante volte incontriamo le parole: perché il male, Signore? Perché non c’è giustizia? Ritorna lo scandalo che non può essere superato da una presunta ragionevolezza della fede, dalla superbia di comprendere tutto e di possedere la verità.

         Vedi, Valeria, in queste nostre lettere sono stato quasi sempre io a rispondere alle tue domande, a chiarire, per quanto potevo, i tuoi dubbi, a cercare di spiegarti ciò che per me significa credere. Ma anch’io ho le mie perplessità, i miei turbamenti... faccio fatica a capire perché Dio non riesca ancora a vincere il male, perché le incessanti preghiere dei bisognosi diventino echi ripetitivi, sempre più flebili.

Non metto in discussione l’esistenza di Dio, in quanto quasi visceralmente sento la sua presenza. Mi chiedo invece quando Cristo ritornerà, quando il Signore adempierà per davvero la sua promessa, quando le nostre lacrime verranno asciugate, quando il nostro desiderio d’amore e di vita sarà appagato.

Ma potrà Dio ancora salvarci quando sempre meno persone attendono questa salvezza? Non è forse troppo forte il male? Non so, non riesco a trovare risposte definitive. Forse il nostro unico punto di appoggio è la speranza. La preghiera può nutrire e affinare la speranza fino a renderla certa e inestinguibile.

Il Dio cristiano, però, non è una divinità violenta che deve essere placata con preghiere, sacrifici, riti strani. Non è neppure un idolo da invocare per accontentare i nostri desideri. Dio non sta tranquillo nel suo cielo, ma è entrato nella nostra storia, ha conosciuto la fragilità e la morte. Da allora le nostre preghiere diventano quasi le sue preghiere. In questo mondo anche lui ha bisogno di noi. Con la continua invocazione anticipiamo l’adempimento dei progetti di Dio. Lo aiutiamo a ricordarsi delle sue promesse. La sofferenza del mondo resta una ferita per i credenti. Ma in fondo la fede cristiana ci parla di qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo: Dio è capace di attraversare il male e la morte senza essere sconfitto, anzi proprio per questo immette una luce nelle tenebre, un seme di vita nella morte. Questa speranza non è un sogno. Perché uomini come noi hanno dimostrato di passare attraverso il male diventando anch’essi luce.

         Poco prima di essere impiccato dai nazisti, Dietrich Bonhoeffer si raccolse in preghiera. Questa la testimonianza del medico del lager: «Attraverso la porta semiaperta di una stanza delle baracche vidi che il pastore Bonhoeffer, prima di svestire gli abiti da prigioniero, si inginocchiò in profonda preghiera con il suo Signore. La preghiera così devota e fiduciosa di quell’uomo straordinariamente simpatico mi ha scosso profondamente. [... ] Nella mia attività medica di quasi cinquant’anni non ho mai visto un uomo morire con tanta fiducia in Dio». Concludere la propria vita in maniera buona: forse questo Bonhoeffer ha chiesto a Dio.

         Non bisogna pregare affinché si adempiano i nostri desideri, ma affinché la nostra vita sia orientata al bene. Nell’ingresso di casa, lo avrai visto, abbiamo appeso un quadretto sul quale è riportata la famosa Serenity prayer, composta da un pastore protestante americano durante la seconda guerra mondiale. Questa una traduzione in italiano: «Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quelle cose che posso e la saggezza di conoscerne la differenza». Mi è sempre piaciuta questa preghiera perché chiede a Dio forza, sapienza e serenità: dovremmo ricercare nella nostra vita di raggiungere queste tre decisive virtù. La preghiera tuttavia è soprattutto benedizione.

         Ci siamo abituati a parlare di benedizione solo in un contesto liturgico, quando il sacerdote conclude la messa, o in particolari momenti. La benedizione è un appello a Dio perché conceda la sua grazia, perché ci accompagni nella vita. Ma la benedizione è anche un atteggiamento con il quale possiamo relazionarci alle altre persone e al mondo. È la capacità di cogliere la nostra esistenza e la bellezza della creazione come un rendimento dì grazie, come una lode a Dio. Te l’avevo già detto in una lettera precedente: la nostra mentalità fatica sempre più a trovare con l’ambiente circostante, ma anche con tutte le realtà concrete della vita, un rapporto che vada al di là di un mero utilizzo di risorse o dì una egoistica soddisfazione dei propri desideri.

         È necessario imboccare un’altra strada instaurando con la realtà una relazione che chiamerei spirituale.  Scriveva san Paolo al termine della sua vita nella prima Lettera a Timoteo: «Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera».

E un’affermazione importantissima: tutto è buono! Ogni attimo della nostra esistenza può essere benedetto. All’opposto, come dice un detto ebraico, «resta vietato all’uomo godere qualcosa di questo mondo senza pronunciare una benedizione». Ogni azione fatta con questo spirito può trasformarsi in una benedizione per noi e per quanti ci circondano. La benedizione consiste nel comprendere che le cose intorno a noi sono un dono inestimabile ricevuto gratuitamente; che dobbiamo ringraziare Dio per il solo fatto di essere vivi.

I nostri giorni ci possono riservare grandi sofferenze, delusioni, vuoti e amarezze. Anche allora possiamo percepire di essere parte di qualcosa di più grande. Non siamo stati chiamati all’esistenza per morire dopo molti o pochi anni: il nostro destino è la vita. Un saluto dal cuore

 

Piergiorgio

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