Koinonia Agosto 2020


“CONVERSIONE PASTORALE”

o è di tutti o non è

 

Al n. 25 della Evangelii gaudium (EG) troviamo la fonte di questa espressione - “conversione pastorale” - passata ormai a modo di dire, che sembra ignorare completamente quanto viene detto in queste poche parole, tutte da soppesare e tenere presenti: “Non ignoro che oggi i documenti non destano lo stesso interesse che in altre epoche, e sono rapidamente dimenticati. Ciononostante, sottolineo che ciò che intendo qui esprimere ha un significato programmatico e dalle conseguenze importanti. Spero che tutte le comunità facciano in modo di porre in atto i mezzi necessari per avanzare nel cammino di una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno. Ora non ci serve una «semplice amministrazione». Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno «stato permanente di missione»”. Un invito rivolto a “tutte le comunità”, di ogni tipo!

Anche il documento che così si esprime, la EG, ha avuto molto successo mediatico ma poca fortuna ecclesiale, nel senso che nonostante le tante sollecitazioni del papa non è stato preso per quello che voleva essere nel suo “significato programmatico dalle conseguenze importanti”, per fare i passi necessari di una conversione pastorale e missionaria, che non solo non può lasciare le cose come stanno sul piano di una “semplice amministrazione”, ma si propone con questo grido rivoluzionario: “Costituiamoci in tutte le regioni della terra in uno stato permanente di missione”. Sembra di sentir dire: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16); “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). La missione dovrebbe tornare ad essere la “suprema lex” o regola d’oro per ogni altra dimensione di comunità cristiana!

In questo senso originario, saremmo portati a dire che una “conversione pastorale” o è compito e opera di tutti o non è; o è reale capovolgimento da chiesa-società perfetta a comunità, da gerarchia a Popolo di Dio, dalla dimensione giuridica a quella carismatica, dal magistero universale alla evangelizzazione delle genti: diversamente, tutti i discorsi innovativi risultano in funzione dello status quo. I termini della questione sono chiari e in conflitto ormai da tempo, ma quali sono le condizioni e la volontà di mettere in atto la necessaria dialettica per una soluzione non indolore? Perché non si tratta più di ulteriori dilucidazioni e approfondimenti, ma di intervenire sullo stato reale delle cose e creare equilibri nuovi nel modo di vivere da credenti nel mondo.

Credo si possa essere d’accordo nel dire che l’EG non propone un discorso interpretativo sul Vaticano II in termini di continuità o di rottura, a livello riflesso o - come dicevano gli antichi - “in actu signato”; ne è invece una traduzione pastorale, è cioè attuazione di una “riforma della chiesa in uscita missionaria” (n,17), a sua volta “paradigma di ogni opera della chiesa” (n.15), quindi “in actu exercito”, sempre come dicevano gli antichi. Siamo dunque davanti ad una vera e propria mobilitazione generale come presa di coscienza, ripensamento, revisione, inventiva, coraggio, per arrivare a ritrovare la propria identità di chiesa nella pura e semplice evangelizzazione prima che in altri aspetti.

Ma dopo che la risposta alla mobilitazione ha lasciato molto a desiderare fino a scemare del tutto, a qualcuno è sembrato che per una reale “conversione pastorale e missionaria” tutto questo non bastasse. Ed ecco allora l’ Istruzione La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa a cura della Congregazione per il Clero, 20/07/2020, arrivata all’opinione pubblica come passo avanti quanto a “tariffe” per servizi religiosi e compiti dei laici, ma in realtà segnale preoccupante e battuta d’arresto per la stessa EG, che dice di voler attuare ma che in realtà sterilizza. Invece che guardare ad una trasformazione reale, c’è una operazione di trasformismo nominale, che commisura tutto - in una sorta di imbottigliamento restrittivo - alla chiesa in forma-parrocchia e in ultima analisi allo stato giuridico del parroco, con apparenti concessioni ai “laici” come specchietti per le allodole.

Sono semplici valutazioni di una lettura rapida del documento - eventualmente da verificare insieme - che evito di riprendere in esame proprio per la sua natura ingannevole, per portare invece l’attenzione su quanto abbiamo a cuore da tempo riguardo appunto alla “conversione pastorale”. Rimanendo ancora per un attimo all’Istruzione, ci sarebbe da chiedersi, col linguaggio di papa Francesco, se la forma-parrocchia di chiesa, proposta quasi come esclusiva, non sia spazio occupato e chiuso piuttosto che processo in atto e aperto. La “conversione pastorale”, che non è intesa come dovrebbe essere esperienza vissuta di Popolo di Dio o di sinodalità (parole che non compaiono mai nel testo), è passata al setaccio del Diritto canonico, per “sistemarla” formalmente e per sottrarla ai soggetti di diritto, anche se non secondo il Diritto!

Se davvero si vuole una “conversione pastorale” a tutto campo, non è da pensare di operarla per via di indottrinamento ideologico o per vie di fatto e di autorità, senza una consultazione e maturazione dal basso. La stessa esortazione EG non si propone come soluzione dottrinale o giuridica, ma appunto come paradigma e campo di azione. Non è più tempo di cercare intese, convergenze, cooperazioni tutte improbabili e sempre a senso unico. Se mobilitazione deve essere, ciascuno si muova secondo propria decisione e con le proprie gambe, pronto a rendere ragione della speranza che porta. Del resto, i primi discepoli si sono mossi solo in forza di una chiamata, senza sapere di preciso per quale motivo e destino, e senza preoccuparsi di essere subito d’accordo tra di loro. Il primo passo per una “conversione pastorale” è la disponibilità di qualcuno a volerla e non la presunzione di sapere in partenza cosa deve essere secondo i canoni.

Quello che soprattutto c’è da fare è mantenere viva l’anima del problema, che si chiami conversione, aggiornamento, riforma, cambiamento d’epoca, insomma quella rivoluzione copernicana o fine del sistema tolemaico (o di cristianità) che il Vaticano II ha appena inaugurato: “Tantum aurora est”. Non possiamo dimenticare che l’istanza di una “conversione pastorale”  è posta come compito del Concilio da Giovanni XXIII nel suo Discorso di apertura e che questo processo non mira a definizioni su alcuni temi della dottrina ecclesiastica  - a questo scopo non era necessario indire un Concilio ecumenico -; c’è invece bisogno che l’insieme della dottrina sia esaminato più largamente e più a fondo e gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati; si dovrà cioè “adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale”.  Facendo ricorso ancora una volta ad una formula antica, si può dire che non è da considerare la dottrina della fede “quoad se” ma “quoad nos“: non tanto nella sua verità creduta, ma nella sua recezione storica dei credenti (la fides qua)!

Quindi, se un cambiamento ci deve essere, questo è interno allo stesso magistero, che invece d’essere dogmatico, definitorio, di condanna, di scomunica, e quindi di vertice,  deve diventare intrinsecamente pastorale dal basso: e cioè fare in modo che la stessa dottrina sia ripensata in modo che “gli animi ne siano più pienamente imbevuti e informati”. E quindi il terreno di un cambiamento reale sono “gli animi”, sono le persone, i soggetti: perciò non è tanto questione di merito - di temi, di tesi, di discorsi, di linguaggi, di prassi varie - quanto piuttosto di metodo: non di affermazioni ma di relazioni, e cioè di impostazione, di attitudine, di comportamento, di sensibilità, di partecipazione ecc.; non è questione di materie da trattare quanto invece di soggetti da coordinare e far interagire. È questione della chiesa in quanto Popolo di Dio e non in quanto Gerarchia, non solo a parole ma come processo ed evento da produrre!

Il primo documento emanato dal Concilio, la costituzione Sacrosanctum concilium sulla liturgia fa suo questo intento e nel  proemio in qualche modo enuncia tutto il programma dei lavori conciliari: “Il sacro concilio, proponendosi di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli, di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti, di favorire ciò che può contribuire all’ unione di tutti i credenti in Cristo, e di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della chiesa, ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma e dell’incremento della liturgia”. Mentre al n.11 mette i Pastori della chiesa davanti a questo compito: “Perciò i sacri pastori devono vigilare affinché nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente”.

Per la verità, su questa linea, le sorti del Concilio sono state giocate in campo liturgico prima ancora che su altri terreni, e fino a quando ci sono stati coinvolgimento, iniziativa, partecipazione in questo senso, anche il Concilio sembrava fiorire. Quando questa corrente dal basso è stata arrestata ed è scemata, è cominciato anche il tramonto del Vaticano II, ridotto ad una variante dell’impianto tridentino della chiesa. l’Istruzione della Congregazione del clero ne è un’ulteriore prova. Di tutto questo bisognerebbe che qualcuno scrivesse la storia, imperniandola sulla celebrazione eucaristica, perché è lì che i cambiamenti, le polemiche, i dissensi e le repressioni hanno avuto luogo. È il movimento che si è manifestato e sviluppato con le “comunità di base”, che invece d’essere guidato dai Pastori, è stato da essi sconfessato, emarginato, isolato, soffocato, per privilegiare l’esistente e salvare le parrocchie entrate in crisi.

Se oggi c’è necessità di riprendere questa “rivoluzione copernicana”, è possibile farlo solo ritrovando questo filo conduttore sul piano liturgico e in chiave eucaristica, senza facili cedimenti davanti a muri di gomma respingenti e a fortini cultuali inaccessibili. A spingere in questa direzione c’è la segnalazione di un fatto: che le varie innovazioni ed esperienze delle comunità di base che hanno avuto luogo nel dopo-concilio in questo campo, sono state assunte via via nella prassi liturgica ufficiale, per quanto spesso in maniera superficiale. Ma soprattutto - per quanto tardivamente - hanno ispirato e sostanziato un documento dell’episcopato italiano  -  “Eucarestia, comunione e comunità” del 1983 - in cui le istanze profonde di innovazione conciliare venivano accolte, ma fuori tempo: se da una parte i movimenti dal basso che ne erano portatori venivano debellati, dall’altra i quadri tradizionali dell’assetto ecclesiale non avevano lo spirito e la forza di farsene interpreti, Per cui anche questo documento-guida rimaneva nel cassetto.

Di qui un rispettoso pro-memoria per i nostri Vescovi, perché lo ritirino fuori e se ne facciano interpreti e sostenitori come attuazione convinta di quella “conversione pastorale” che la EG si aspetta soprattutto da loro con l’intero Popolo di Dio. Una sola osservazione: mentre nella Istruzione di qualche giorno fa non si fa parola di Popolo di Dio o di sinodalità, nel documento del 1983 non figura mai la parola “parrocchia”, ma si parla unicamente di comunità! Vuol dire qualcosa tutto questo?

 

Alberto B.Simoni op

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