Koinonia Agosto 2020


EMERGENZE PLANETARIE

tra fede ed etica (II)

 

Parte seconda: Creatore e Redentore

 

Partiamo da questo pensiero di Adorno: “La conoscenza non ha altra luce che non sia quella che emana dalla redenzione del mondo: tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo… riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica” (Minima Moralia, 304). Cosa significa questa intuizione? Cerchiamo di capire.

Se guardiamo le cose alla sola luce delle nostre conoscenze tecnico scientifiche, non possiamo che vederle a posteriori, alla luce cioè di un passato che conosciamo accogliendone tutti i limiti, che sono poi i limiti della ragione umana. Una conoscenza tuttavia che proprio a causa di questi limiti cerchiamo ogni volta di potenziare attraverso nuove scoperte per affrontare, in fondo, la potenza del male che costantemente ci aggredisce in tutte le sue forme, dai terremoti, all’inquinamento, alle malattie e alle guerre. E questo per guarire, per vivere nella pace e il più a lungo possibile.

Se invece le si guarda in prospettiva messianica al credente è dato di vederle a priori, cioè alla luce della Parola di Dio che rivela la natura in quanto creazione prima della caduta e il mondo che abitiamo come sarà nel futuro della redenzione promessa da Dio.

Ed è proprio alla luce di questa seconda prospettiva, la prospettiva della redenzione, che il male e la morte ci appaiono inesorabilmente ingiusti e scandalosi. Se a illuminarci è solamente l’ovvia luce del passato che da sempre conosciamo, nessuno alla fine davvero si scandalizza se ci si ammala, si invecchia e si muore. A vincere è la rassegnazione che considera tutto ciò che succede come se dovesse succedere per una ragione del tutto naturale, per una necessità così intrinseca alle cose da rendere inutile in partenza ogni opposizione. Non portavano forse ragioni come queste gli amici accorsi a consolare Giobbe sofferente e disperato che gridava dal suo letto di dolore?

Ma Giobbe non la pensava come loro e non cedette di un millimetro dalle sue posizioni di protesta, posizioni che, paradossalmente, Dio stesso dirà essere “rette” (Gb 42,7). E a muovere Giobbe nella sua ardita protesta altro non è che la “luce messianica” che ci hanno messo nel cuore e nella mente la fede e la speranza ebraico-cristiane. È soltanto nel raggio di tale potentissima luce che possiamo cogliere ancora oggi le “fratture” e le “crepe” di un mondo “deformato” e “manchevole”, là dove altri non percepiscono che il tranquillo girare del pianetino in cui siamo in mezzo ai miliardi di anni delle galassie in evoluzione.

Il credente, grazie alla fede e alla speranza che lo abitano, si scandalizza e per nessun motivo s’arrende, continuando a confidare nella bontà e nella potenza del suo Dio che un giorno verrà a salvarci. Nulla di meno che questo egli attende, anche se tarda, perché egli continua a credere nel suo Dio che ha parlato “di una scadenza e non mentisce”, di una salvezza che va attesa anche se indugia, “perché certo verrà e non tarderà” (Ab 2,3).

È del resto la stessa prospettiva intesa da Gesù quando, di fronte alla necessità della Legge, disse: è vero, la Legge va rispettata ma non assolutizzata, infatti è per “la durezza” del cuore umano che Dio ha dovuto darla a Israele per mezzo di Mosè, “all’inizio però non fu così” (Mt 19,8). Perché?, perché in principio non c’erano ancora il peccato, il male e la morte che stavano per infilarsi nel mondo attraverso la fessura della libertà umana. È dunque alla luce della redenzione e di quel “molto buono” voluto da Dio all’inizio (Gen 1,31), che possiamo ancora riuscire a scandalizzarci di fronte al male e alla morte anziché considerarli parte del gioco della natura.

E però, non siamo proprio noi moderni a essere mossi più che mai da questa luce anche se non lo sappiamo? Cos’altro è la tecnica se non il tentativo disperato di una umanità che, confidando nelle proprie ragioni e conoscenze, continua a volere e desiderare l’uscita dalle grinfie del male e della morte? E da dove viene questa ostinazione soprattutto moderna se non dai racconti di fede trasmessi da quegli antichi pecorai in mezzo al deserto?

Ma torniamoci per un attimo a riflettere su quel “giardino” buono delle origini, all’interno del quale Dio aveva posto l’uomo affinché lo coltivasse e lo custodisse, e soprattutto su quell’albero posto lì in mezzo e i cui frutti mai avrebbero dovuti essere mangiati: “l’albero della conoscenza del bene e del male” (Gen 2,9). Ed è interessante vedere la dinamica di quanto accaduto per capire chi siamo noi e, soprattutto, chi è Dio, il Dio in cui crediamo, il Dio che ci ama da morire e che ha promesso di salvarci.

Il “giardino” era il luogo in cui Dio e l’uomo si muovevano alla luce della libertà e dell’amore. Anche l’albero e l’animale vivevano in uno stato di perfezione: nessuno si cibava di carne e gli animali non temevano l’uomo. E se cominceranno a soffrire e sbranarsi non sarà per una loro colpa, ma a causa della colpa e della caduta dell’uomo, questo è il punto, e non saranno liberati in futuro se non dopo che l’uomo stesso sia stato liberato: “La stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,21). Si notino i due termini: liberazione e libertà, cos’altro è infatti la salvezza se non liberazione dal male (come del resto chiediamo nel Padrenostro), se non un ricongiungersi dell’uomo, di Dio e della creazione nel Regno tanto atteso? Cos’altro è se non vittoria sull’“ultimo nemico”, la morte, affinché “Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,26,28)? Poco capiremmo di queste dinamiche senza la poderosa riflessione di san Paolo che fece certamente propria, da buon ebreo, la “luce messianica” di Israele, quella di cui ha fatto cenno Adorno e che improvvisamente “avvolse” Paolo “dal cielo” accecandolo, quando lo stesso “Gesù” risorto, che egli stava perseguitando, gli parlò sulla via di Damasco (At 9,3-6). 

L’uomo è fin dall’inizio il centro della creazione, con una responsabilità enorme davanti a Dio e davanti alle creature. Noi oggi, con la fede ormai andata a rotoli o quasi, abbiamo finito per tornare alla natura come se fosse da sempre in nostro possesso, mentre del Creatore da tempo nulla più ci interessa. E invece è di Dio che dovremmo prima di tutto occuparci, amandolo “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,6; cfr. Mt 22,37), e soltanto dopo delle creature che ci sono sorelle, bisognose di noi quanto di Dio. Certo, il leone può sbranare il bambino e la vipera morderlo, ma non doveva essere così in Eden e non sarà così dopo la liberazione messianica promessa. Il terremoto e lo tsunami è natura cieca e senza colpa che terribilmente fa tremare tutto e massacra, ma non doveva essere così in principio e non dovrà essere così alla fine. Di questo nulla sanno coloro che guardano la natura senza fede e per i quali anche vipera, terremoto e morte altro non sono che quel che deve secondo necessità essere. Questo è il punto decisivo se vogliamo comprendere il Dio della Bibbia ed essere alla sequela del Cristo che annunciava “il regno di Dio e la sua giustizia” dichiarando tutto il resto nient’altro che “aggiunta” (Mt 6,25-34). “La fede” per chi crede non è un optional, ma il “fondamento” e la “prova” di ciò che ancora “non si vede” (Eb 11,1), il punto di vista da cui guardare ogni cosa, riuscendo solo così a sperare “contro ogni speranza”, proprio come Abramo, il padre della fede (Rm 4,18).

La prospettiva del credente non è pertanto la prospettiva etica ed ecologica di chi ha molto a cuore se stesso, l’umanità e la natura. È invece una prospettiva escatologica e di fede, attenta ai bisogni del Creatore, prima e più che ai bisogni delle creature, noi compresi, per attendere dalle sue santissime mani i “nuovi cieli” e la “nuova terra” promessi (Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1). Ed è chiaro che la prospettiva dell’uomo moderno, sebbene del tutto stravolta da atteggiamenti fortemente anticristici, è una prospettiva che ha preso avvio dalle promesse escatologiche della fede, senza più tuttavia riuscire a credere nel Dio che ci si è rivelato come Creatore, e come Redentore. E dunque senza più credere nella sua salvezza.

È un po’ come se ci fossimo ridotti a dire: è giusto contrastare la natura che ci fa ammalare, invecchiare e morire, è giusto contrastare la minaccia dei terremoti e dello tsunami, ma questo solo l’uomo con la sua intelligenza può farlo ormai, solo gli ingegneri e la tecnica possono offrirci abitazioni antisismiche, solo la chemioterapia può salvarci dal cancro che ci aggredisce, solo la ricerca scientifica può liberarci dai virus letali che improvvisamente e inaspettatamente arrivano a contagiarci e ucciderci, solo i medicinali ci possono allungare la vita eccetera. Insomma, Dio non c’è più, Dio è morto e siamo rimasti soli ad occuparci della nostra salvezza. E più grave ancora della sua morte, come ha detto Nietzsche, è il fatto che siamo stati noi a ucciderlo, e che a causa di questo non sappiamo più che pesci pigliare avvolti come siamo da una notte in cui “è sempre più notte” e si è costretti ad “accendere lanterne” fin dal mattino (La gaia scienza). Il vero nostro grande problema è così alla fine quello di ritrovarci in un mondo senza più Dio, non riuscendo tuttavia a scordare quello che la “luce messianica” ci ha mostrato, quello che Dio ci ha promesso e che da soli ci accorgiamo di non poter realizzare. Se Heidegger dice che “ormai solo un Dio ci può salvare” (Intervista con lo ‘Spiegel’ del 1976), lo dice da ateo, questo è il tragico dell’uomo d’oggi. È insomma in qualche modo accaduto quello che Ivan Illich ha chiamato: “pervertimento del cristianesimo” (Intervista a una radio canadese registrata tra il 1997 e il 1999); è accaduto cioè che l’ottimo della fede cristiana si sia sempre più pervertito in quanto di peggio potesse accadere al mondo e alla fede. “L’anticristo” non sarebbe tanto pericoloso se non assomigliasse molto al Cristo, se i “molti anticristi” che si manifestano nell’ “ultima ora”, non uscissero “da noi” dopo essere a lungo “stati dei nostri”(1Gv 2, 18-19).

 Di qui l’orizzonte della scienza e della tecnica, un orizzonte all’interno del quale l’umanità cerca di salire molto in alto fino a occupare il posto di Dio credendosi dio egli stesso. Mentre Dio non riesce certo a restarsene lassù impassibile sulle nubi: Dio trema, Dio soffre, dicendo tra sé, come all’inizio: “Quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile” (Gen 11,6). Sì, l’uomo ha potenza di diventare dio di uccidere Dio, e proprio grazie a quel dono della libertà che da Dio ha ricevuto per amore. Fino a questo punto ci ha trascinati e fatti cadere il peccato d’origine, la gran tracotanza umana da esso scaturita. Costringendo nel frattempo persino Dio a precipitare nella nostra fogna, ad abbassarsi, svuotarsi, “fino alla morte” (Fil 2,8), fino a portare “i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1Pt 2,24).

 Questo è il prezzo pagato da Dio per salvarci, ma anche per metterci ancora in guardia, un po’ come all’inizio, avendo molto a cuore la sorte del mondo e dell’umanità, dunque per riuscire a salvare noi e la creazione nell’ultimo giorno. E questo perché il crocifisso Gesù è da duemila anni alle nostre spalle e nel frattempo in troppi tra noi si è finiti per guardarlo con indifferenza o per considerarlo gingillo da ostentare sul petto per farci belli e tracotanti.

Tutto il Nuovo Testamento ci parla di una nuova attesa, a cominciare da quella del Crocifisso che è risorto e che “di nuovo verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti”, come diciamo nel Credo. È scritto che alla fine accadrà qualcosa di simile a quanto accaduto all’inizio: “Come furono i giorni di Noè così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’Arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,37-39). Al di là di ogni idea evoluzionistica, la fede cristiana attende la venuta del Signore che verrà all’improvviso, come il “ladro” nella notte (Mt 24,43), come un avvoltoio che scenderà in picchiata a dividere due che “si troveranno nello stesso letto” (Lc 17,30-37).

E la fede non solo crede ma persino aspetta tali terribili cose, insieme alla  “risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, come diciamo ancora nel Credo. È vero, c’è poco da stare allegri, è stata la stessa bocca del Signore a metterci in guardia anche su questo: “Saranno giorni di tribolazione quale non vi è mai stata dall’inizio della creazione (ktisis), fatta da Dio, fino ad ora, e mai più vi sarà. E se il Signore non abbreviasse quei giorni, nessuno si salverebbe”. E però ci ha anche detto che “grazie agli eletti che egli si è scelto, ha abbreviato quei giorni” (Mc 13,19-20), e questo, nonostante tutto, ci dona molta speranza.

Dall’energia nucleare alla genetica o l’umanità riscopre il senso del limite e il senso di questa fede che sta alle origini del suo pensiero e delle sue potenze più avanzate, oppure rischierà di autodistruggersi anziché accogliere la salvezza che viene da Dio. La visione apocalittica della storia del mondo che ci viene dalla Bibbia non ha nulla a che vedere col catastrofismo delle sette che parlano di un Dio arcigno e vendicativo che decide arbitrariamente di salvare qualche eletto abbandonando cinicamente alla distruzione tutto il resto. No, la visione apocalittica che ci viene dalla tradizione ebraica e dal Nuovo Testamento, ci parla invece di un Dio che viene aggredito da una potenza umana che gli fa paura, proprio come accadde in Eden, e di seguito col diluvio e la torre di Babele; simbologie che ci rivelano il cuore del Dio in cui crediamo e il significato degli eventi della storia. Noi non solo possiamo uccidere Dio, come abbiamo già fatto del resto, ma possiamo uccidere anche la possibilità che ha Dio con tutto il suo amore di salvarci. Noi viviamo su un terreno minato sul quale in ogni momento potremmo saltare tutti in aria e le mine le stiamo posizionando noi non Dio. Al punto che se dovesse accadere - e Gesù ha temuto che possa accadere poco prima del suo ritorno, esattamente come la scomparsa della “fede sulla terra”  (Lc 18,8) - Dio ne soffrirebbe infinitamente più di noi.

 Due generi di armi con potenza mai vista prima caratterizzano le nostre società. Primo genere: le armi di distruzione di massa, armi che perennemente sonnecchiano nei nascosti arsenali e della cui presenza nemmeno ci rendiamo più conto. Secondo genere: le armi di distrazione di massa, armi che ognuno di noi ha finito per tenere a portata d’occhi e d’orecchio in ogni istante, impedendoci di pensare e discernere, di non ricordarci nemmeno più del nostro bambino seduto accanto a noi in auto. Ma soprattutto impedendoci di restare svegli in un momento in cui è quanto mai necessario esserlo di fronte alle emergenze planetarie che incombono: devastazione delle foreste, mancanza d’acqua, inquinamento dell’aria, effetto serra, dilagare dell’ingiustizia, continuo accendersi di guerre, terrorismo internazionale, masse di profughi in fuga, mancanza di sicurezza, angoscia e confusione sempre più diffuse, e chi più ne ha più ne metta.

Ma il credente sa bene che quel “Vegliate! (Mt 24,42)”, più che attraverso queste emergenze, Gesù continua a rivolgercelo attraverso lo “Spirito”, che ancora “soffia dove vuole” e del quale, se da lui si è nati, se ne può sentire “la voce” (Gv 3,6-8). Ma soprattutto ci consoli il fatto che, lo “Spirito” - il “Paràclito” in grado di insegnarci e ricordarci “ogni cosa” (Gv 14,26) - per noi “intercede con gemiti inesprimibili” (Rm 8,26), non lasciandoci “orfani” (Gv 14,18). E tutto ciò affinché non ci dimenticassimo di lui, del suo dolore, delle sue sconfitte, della sua venuta e del Regno che ci ha promesso.

 

Daniele Garota

(2.fine)

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