Koinonia Agosto 2020


Giovanni Franzoni per una riappropriazione sacramentale

 

L’EUCARESTIA

 

Gesù ci ha detto: “Questo è il mio corpo”, noi lo rendiamo un attimo di intimismo, di spiritualità con Lui; il Signore è qui vicino, gli facciamo le nostre piccole confidenze, Lui ascolta li preghiere. Non è questo il discorso. Quando Cristo spezza il pane e dice: “Questo è il mio corpo”, parla del corpo nel linguaggio semitico che è la vita, è tutta la Sua persona, non è il corpo separato dalla vita. Questo la Chiesa lo ha sempre detto, e giustamente. Eresie non ne sono mai state dette, soltanto che la dottrina è sempre stata fasciata da ideologie strane. Quando Cristo quindi ha detto: “Questo è il mio corpo”, ha espresso il fatto che la sua vita era stata spesa, era stata spezzata e data fino in fondo. Quindi nel momento in cui Cristo sta per siglare la sua testimonianza alla volontà del Padre con l’ultimo atto, l’ultimo momento di obbedienza - si trattava di pagare l’ultimo prezzo e subire la condanna a morte - in quel momento Gesù lascia questo gesto per la comunità dei suoi discepoli. Tutte le volte che si riunirà, spezzerà questo pane e dirà: “Questo è il mio corpo”, la comunità si interrogherà sulla propria concreta disponibilità a spezzare la vita e a condividerla con gli altri. Quindi, dei cristiani che si riunissero in una chiesa a spezzare il pane, poi se ne andassero ciascuno per i fatti propri senza interrogarsi sulla propria disponibilità a condividere il diritto alla dimora, a spezzare la cultura con tutti gli altri uomini (e non farne uno strumento di potere), a spezzare con gli uomini l’accesso alla dirigenza, una comunità che non si interrogasse su questa contraddizione e non vivesse questo rapporto tra l’Eucarestia e la vita sarebbe una comunità che ha privato, ha castrato questo gesto del suo potenziale di provocazione alla propria coscienza. Anzi, al limite, diventa un gesto alienante, perché noi ci riuniamo tutti in una chiesa, abbiamo mangiato tutti lo stesso pane, abbiamo bevuto tutti lo stesso vino, ci siamo dati la mano, ci siamo abbracciati (“la pace sia con te” e così via), poi ce ne andiamo: chi a banchettare, chi a tirare la cinghia, chi nel suo palazzo, chi nel suo tugurio, chi con la sua cultura, e chi invece con il suo analfabetismo. A questo punto l’illusione di avere spezzato lo stesso pane è una falsa predicazione, ci dà una falsa immagine della fraternità.

La fraternità Cristo non l’ha costruita nell’ultima cena ma nei tre anni che ha spezzato la sua vita e l’ha condivisa  con gli apostoli, coi discepoli, con tutta la gente, spezzando con loro il pane giorno per giorno, spezzando con loro il suo messaggio: “Ecco, io vi ho detto tutto, perciò non vi chiamo più servi, ma amici”, quindi non lasciandosi qualcosa per se stesso; questa è stata la misura che Lui ci ha dato. Invece sotto questo profilo nella Chiesa il rapporto tra comunione reale - condividere la vita - e gesto liturgico è invertito; cioè è successo che, meno era reale la comunione fra i discepoli del Signore, e più si è ripetuto il gesto. Cristo ha fatto l’Eucarestia una, due volte nella Sua vita; in compenso ha vissuto una comunione reale con i discepoli per tre anni. Invece noi in sostituzione di una comunione reale con gli uomini sul pane, sul vestito, sulla cultura, casa e sul potere, celebriamo l’Eucarestia tutte le domeniche, magari tutti i giorni, magari più volte al giorno. Spezziamo continuamente, mangiamo lo stesso pane, ma continuamente non succede nulla, continuamente non avviene la verifica sul nostro essere discepoli di quel Cristo che ha spezzato la Sua vita e l’ha condivisa con gli altri.

 

 

Giovanni Franzoni

In La chiesa dei poveri, Edizioni originali, pp.177-79

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