Koinonia Agosto 2020


LEGGENDO “EUCARESTIA  RACCONTATA” (I)

 

Le comunità di base nascono da o, per lo meno, con l’eucarestia. La bibliografia sul rapporto tra le CdB e l’eucarestia è ricchissima e, almeno fino alla fine degli anni ‘80, è ben sintetizzata dal testo di Martino Morganti L’eucarestia raccontata.

 

Così don Mazzi: “I primi passi del rinnovamento ecclesiale sfociato nel Vaticano II sono stati fatti sul terreno della liturgia... in cui l’obiettivo, prima inconscio poi sempre più consapevole, era quello di ricercare una sintesi vitale. Ben presto l’eucarestia si trovò al centro di questa ricerca”. Le comunità non nascono e non vivono intorno a dei principi, ma intorno a una prassi, quello del confronto libero sulla Parola all’interno della messa, in diretto rapporto con lo spezzare il pane, e questa scelta è legata solo alla sua “constatata fecondità”. Attraverso una partecipazione attiva si voleva realizzare nella liturgia e mediante la liturgia un diverso modo di essere Chiesa.

 

Le comunità erano, in generale, ben coscienti che la memoria della morte e resurrezione del Signore si faceva non solo attraverso il segno del pane e del vino, ma anche attraverso altri segni: quello della Parola ascoltata, comunicata e condivisa e quello dello stare insieme come fratelli e sorelle, dopo una settimana di lavoro e di lotte per i fratelli più bisognosi.  Nonostante questo e “nonostante l’importante lezione giovannea della Lavanda dei piedi per cui il cristiano sarà ‘segno’ non per i suoi riti, ma per l’amore con cui sarà capace di servire gli ultimi”, sembrava loro che il comando del Signore di mangiare la sua carne e bere il suo sangue dovesse essere preso alla lettera, perché questo era il segno attraverso cui la comunità si specificava e si verificava continuamente come tale.  La caratteristica conviviale dell’eucarestia chiedeva la revisione dei simboli e dei riti, faceva crescere la coscienza dell’intera comunità come soggetto celebrante, provocava il credente a sentirsi cittadino del mondo. Era infatti convinzione comune che l’uomo non poteva essere pensato se non nel mondo.

 

La prima caratteristica delle CdB è quella di fare a meno del ‘tempio’, in quanto in generale, ne vengono estromesse. Di conseguenza l’eucarestia, insieme alla comunità, esce dal tempio e approda in altri luoghi, ma “è una perdita che si trasforma in una conquista...una liberazione di grande potenzialità...la piazza, la strada, il garage sono luoghi privilegiati per la celebrazione di un’eucarestia incarnata nel mondo dei poveri”.  Ci si ricorda come la comunità primitiva, per circa tre secoli, fosse orgogliosa di non avere chiese.  Si radunava infatti con semplicità nelle case e così “la lode celebrata nella la vita, con le opere, proseguiva nel pasto comune della parola e del Pane di vita”. Le comunità vogliono significare con questo che il loro tempio è il mondo in cui Dio li chiama ad operare. Ricordano che Gesù aveva voluto superare il tempio come centro di discriminazione religiosa e sociale, sostituendo al tempio il suo corpo spezzato, la sua vita data per tutti (“Distruggete questo tempio e io lo riedificherò in tre giorni”). Il vero tempio da costruire è quello del Corpo di Cristo che s’incarna nella storia!  A questo proposito, viene criticato il riformismo liturgico del dopo-concilio. Sorge il dubbio che non sia stato che “un sottile, intelligente, moderno sistema per abbellire e ingrandire il tempio... Tali riforme non sono riuscite a spezzare l’interclassismo...in assemblee liturgiche dove l’oppressore continua ancora a stare a fianco dell’oppresso. Anzi, di più: si è riusciti a far stringere loro la mano, se non a scambiarsi il bacio della pace!”.

 

Fuori dal tempio la piazza sembra essere il primo approdo perché è il luogo privilegiato dell’incontro umano e quindi dell’incontro con Dio; spesso si tratta della piazza del mercato “per lasciarsi evangelizzare dai problemi del lavoro”. L’esperienza diventa così accessibile al passante, che può essere anche uno che non va mai in chiesa, e porta alla scoperta delle nuove dimensioni del popolo di Dio. L’assenza fisica dei muri è assenza di confini, nel senso di una chiesa aperta, Francesco direbbe di una chiesa ‘in uscita’, in cui non c’è chi è ‘dentro’ e chi è ‘fuori’. Ci si richiama così alla prassi di Gesù “che ha piantato il problema della fede nella profondità del quotidiano e nell’allegria della convivialità”.

 

La maggioranza delle CdB però non celebra in piazza, ma in un luogo qualsiasi “fra quattro pareti...per ritrovarsi famiglia di fratelli”. Si nota in questo il richiamo del cenacolo e dell’ultima cena, come delle tante cene di Gesù nei Vangeli e dell’esperienza delle prime comunità cristiane. Collocare la cena del Signore in uno scenario di gloria e di trionfo, pensiamo alle chiese barocche per esempio, poteva significare operare su di essa una violenza, uno sconvolgimento. Riportarla fuori dal tempio, “nella piazza o nella domus, fa entrare in crisi tutto ciò che non abbia la misura della familiarità, della spontaneità: vesti, gesti, tono, linguaggio, fino al ruolo del ‘cerimoniere’. L’abbandono, volontario o forzato, delle strutture sacrali cambia la stessa comunità.”

 

Il primo problema che si presenta alle CdB, per quel che riguarda la celebrazione dell’eucarestia, è se mantenere o no il rito canonico. La spinta a rinnovare è frenata da due motivi: non esporsi agli attacchi della gerarchia e non essere di ostacolo a un cammino con tutti i fratelli. Si fanno strada due tendenze  contraddittorie: non essere additati come ribelli, o addirittura scismatici, ma nel contempo essere creativi nella gestione del rito per renderlo al meglio espressione della prassi che nasce dal confronto con la Parola nel contesto eucaristico. Contraddizione che si risolve, in genere, nel cercare di immettere contenuti nuovi negli schemi tradizionali.

 

La preoccupazione di fondo è “ricomporre in profonda unità l’intero momento rituale, collegandolo con la vita”. Le comunità sentono la necessità di ritrovare l’unità non tanto cercando di ‘rivitalizzare’ il rito, ma prima di tutto coinvolgendosi con “i fatti di donazione, di comunione e di resurrezione presenti nella storia”, vedendo in questi la presenza della morte e resurrezione di Cristo e restituendo così al rito la sua caratteristica di ‘segno’.  Ancora don Mazzi in un seminario del 1981: “Si è capito che la celebrazione eucaristica aveva bisogno di ritrovare l’unità di tutte le sue parti, facendo centro su una realtà che stava prima del rito, e cioè la presenza di Cristo nella comunità viva. La comunità è, per così dire, ‘l’eucarestia primordiale’, secondo le parole di Gesù: Dove due o tre sono riunite nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. E concludeva: “La Chiesa intera, e le comunità di base con essa, hanno ancora molto cammino da fare per raggiungere una tale unificazione...La rivoluzione copernicana che ha posto al centro della Chiesa il popolo di Dio ha molte ricchezze ancora da sviluppare, se nel frattempo non verrà completamente bloccata”.

 

Donatella Coppi

(1.continua)

.

.