Koinonia Agosto 2020


La parola al P.Yves Congar

 

PER UN RINNOVAMENTO DELLA PASTORALE:

la comunità madre dei credenti

 

La Chiesa si ama definirla Madre. Si tratta di un’attività di reale generazione spirituale, non di un titolo di prestigio o di autorità, come avverrà nel Medioevo. Si tratta dell’attività attraverso la quale l’ecclesia fa dei cristiani. L’ecclesia, diciamo: la parola “Chiesa” è senz’altro una tradizione filologicamente corretta, ma, nell’uso che se ne fa oggi abbastanza comunemente, richiama alla mente qualcosa di diverso da quello che allora significava il termine greco. Nel nostro vocabolario attuale, il reale significato di ecclesia si dovrebbe rendere, piuttosto, con l’espressione la comunità cristiana. L’importanza del concetto dipende da questa realtà fondamentale. Ne deriva che la maternità della Chiesa, l’attività attraverso la quale essa genera dei cristiani, è esercitata da tutti i fedeli, non solamente dal clero. È in questo che risiede il germe del rinnovamento pastorale. La Chiesa antica vede l’esercizio dell’attività pastorale principalmente attraverso i tre atti classici, corrispondenti alle tre funzioni del Cristo e della Chiesa: proposta della Parola, celebrazione dei sacramenti, cammino spirituale verso il  bene e la perfezione. Per i Padri antichi la stessa ecclesia, è il soggetto di questi atti è, cioè, la persona che compie l’atto e ne porta la responsabilità. Certamente non tutti ne partecipano allo stesso modo. La Chiesa antica conosce e afferma l’esistenza di un ministero istituzionale: chi lo ha fatto con più forza di Ignazio o di Cipriano, i due vescovi martiri? L’ecclesia è un corpo organico e strutturato, ha degli organi qualificati da un’istituzione che viene dall’alto ma è un corpo interamente vivo, le cui membra compiono, ciascuno a suo modo, gli atti attraverso i quali il corpo si forma, vive e cresce.

È urgente restaurare una sana considerazione della totalità. È tutto l’insieme della liturgia che è la celebrazione della Chiesa nella quale il Cristo agisce per la nostra salvezza. È tutto l’insieme della vita di fedeltà e di pensiero dei Cristiani che nutre di verità la Chiesa. In ogni cosa la Chiesa intera è all’opera e lo è per tutta la sua vita. Bisogna riconoscere questa specie di socializzazione delle attività attraverso le quali si comunica la salvezza. Nell’azione pastorale della Chiesa, al di là di un atto delimitato e isolato, al di là di un momento particolare, è tutta la vita ecclesiale  che costituisce nello  stesso tempo l’ambiente e il mezzo nel quale il Cristo opera. Occorre riscoprire un senso della diffusione della mediazione ecclesiale, che le restituisca così le sue vere dimensioni. Si tratta, oltretutto, di ciò che ci può salvare da un certo scoraggiamento quando constatiamo la poca efficacia di questo o quell’atto presi separatamente: una predica, una confessione, o anche una comunione. È l’insieme, è il tutto che agisce. La nostra azione: prolungata da quella delle famiglie, da quella di tanti altri preti, dalle numerose occasioni che esistono nella trama di tutta la vita ecclesiale. Questo. corrisponde ai fatti. Questo è vero. Allora, perché lasciare questa `verità fuori dall’ecclesiologia dottrinale o dalla teoria pastorale?

Alle origini della Chiesa, i capi delle comunità non sono separati da queste comunità: lo si potrebbe dimostrare facilmente considerando successivamente i tre campi dell’insegnamento, del sacerdozio, del governo. Molte delle lettere che abbiamo conservato dei primi secoli sono nell’insieme e inseparabilmente scritti della comunità e del capo di questa comunità: tale è il caso della lettera della Chiesa romana (Clemente) ai Corinti; Eusebio ci dice che una lettera di Dionigi di Corinto sul battesimo, è “indirizzata da lui e dalla cristianità che egli governava, a Sisto e alla Chiesa”. Se si tratta della celebrazione liturgica, essa è compiuta essenzialmente dal presidente della comunità in questa qualità; l’antica liturgia non conosce un  io  separato da un noi  comunitario; è l’atto dell’ecclesia nel senso che abbiamo ricordato più sopra. Infine il governo stesso è inseparabilmente gerarchico e comunitario: San Cipriano, nel quale si può vedere un esempio di autorità episcopale, dichiara “di essersi creato una regola, sin dal principio del suo episcopato, di non decidere niente senza il consiglio dei presbiteri e dei diaconi e; senza il consiglio del popolo, insieme alla sua opinione personale”.

Ci resta dunque da dire come concepiamo questo possibile rinnovamento. Non si tratta di un programma pratico di azione. Tanto meno di ricette. Si tratta di un rinnovamento della visione che, dall’interno e dal profondo, forma, a livello delle sue radici e dei suoi orientamenti fondamentali, la nostra concezione della vita pastorale della Chiesa: partendo da ciò, per mezzo di una logica profonda, la stessa logica delle idee e della vita, che va oltre ogni programma formulato e formulabile, i nostri modi di fare ciò che magari facciamo - predicazione, celebrazioni liturgiche, guida delle anime, amministrazione della parrocchia o direzione dei gruppi - si chiariranno e si orienteranno in una maniera nuova. È così che opera una conversione: non per via di programmi, ma per via di irradiamento insensibile e progressivo, che parte da una nuova visione interiore.

Gli uomini d’oggi, trascinati dal ritmo tormentoso della concorrenza, in balìa dei mezzi meccanici, non hanno più il tempo e rischiano di perdere il gusto di “ritornare al cuore”, come dice la Sacra Scrittura. È pertanto la condizione di una reale vita con Dio. I preti stessi devono “ritornare al cuore”, non solo per essere essi stessi cristiani e quindi salvati, ma per condurre un’azione pastorale realmente religiosa e cristiana, che aiuti gli altri a raggiungere la salvezza. È a questo livello, il meno “pratico”  e tuttavia il più efficace, che si pone o deve cominciare il rinnovamento pastorale che qui è trattato.

Esso deve cominciare con una presa di coscienza rinnovata, nello stesso tempo critica e costruttiva, di ciò che è la Chiesa. Cosa vogliamo intendere quando pronunciamo questa parola? Semplicemente la realtà sovrapersonale, l’istituzione nella quale metteremo in opera dei mezzi di salvezza esistenti come al di fuori di noi  - dottrina, sacramenti, disciplina della vita cristiana e regole ecclesiastiche - o meglio la comunità dei cristiani, composta di uomini che si convertono al Vangelo e che trascinano altri, con loro, su questa via? -

Da più di dieci anni studiamo la storia delle dottrine ecclesiologiche. Questo studio ci ha portati alla convinzione che tutto ruota intorno ai tre punti seguenti:

1. Porsi il problema di sapere quello che si intende esattamente con la parola “Chiesa”. In latino scolastico si direbbe: “Pro quo supponit Ecclesia?”. La parola, presso i Padri e nella liturgia designa la comunità dei cristiani, il “noi” dei battezzati. L’ecclesiologia è una soteriologia e un’antropologia cristiane: è per questo che se ne trova la massima espressione nei tipi dei personaggi biblici che hanno vissuto il mistero della fede e della salvezza. Si tratta di una soteriologia imperniata tutta sul battesimo e sulla qualifica “fedele” che esso dà, o, ed è lo stesso, che da esso deriva, la qualifica di membro dell’intero popolo sacerdotale, profetico e regale: il Corpo del Cristo. I termini nei quali la Sacra Scrittura parla del sacerdozio regale, sono termini “corporativi”: esprimono una qualifica o una dignità che convengono al corpo dei cristiani come tale e che sono la qualifica e la dignità di un popolo consacrato all’opera di Dio. Questa dottrina del valore sacerdotale e consacrato di tutto il Corpo dei fedeli, oggi ormai abbastanza diffusamente riabilitata a livello delle idee teoriche, è il reale fondamento di tutto ciò che abbiamo da dire e che si può riassumere così: tutti i fedeli formano “corporativamente”, con i loro preti, un unico soggetto dell’azione attraverso la quale si edifica il Corpo del Cristo.

2. Si è passati soprattutto in seguito alla riforma gregoriana (ultimo terzo dell’undicesimo secolo), dopo alcune ostilità tra il papato e i re o gli imperatori, da una ecclesiologia di antropologia cristiana a una ecclesiologi dei poteri, delle prerogative e dei diritti della “Chiesa”, cioè del sacerdozio o della gerarchia. I trattati moderni De Ecclesia, sviluppati a parte e per se stessi, non sono niente di più che trattati di diritto pubblico ecclesiastico. Senza negare la validità di ciò che si è acquisito, occorre passare in qualche modo sopra quattro secoli di controversie e quasi nove secoli di giuridismo, per ritrovare l’ispirazione più cattolica e più cristiana dei Padri, della liturgia, dei concili e dei grandi scolastici.

3. Non si tratta, evidentemente, di negare o disconoscere né la struttura gerarchica della Chiesa, né il carattere oggettivo dei mezzi di grazia dei quali le è stato affidato il ministero. Si tratta di collocarli esattamente. Bisogna semplicemente, per questo motivo, invece di porre prima e per se stessa la struttura gerarchica, considerare in primo luogo l’esistenza cristiana, ciò che si potrebbe chiamare sia l’ontologia, sia l’antropologia cristiana.

In seguito situare la struttura gerarchica in questa ontologia o antropologia cristiana, come un servizio di quest’ultima. Non è questo che  fa San Paolo? Secondo lui, l’istituzione di apostoli, profeti, evangelisti, pastori o dottori ha come scopo quello di “organizzare i santi - cioè i cristiani  - per l’opera del ministero” (Ef 4,12). Quest’opera del ministero o della diaconia, che San Paolo con una sua espressione definisce l’edificazione del corpo del Cristo, viene attribuita a tutti i “santi”. Non è riservata al ministero istituzionale, che ha come compito, più specifico, quello di strutturarla o di organizzarla. Ci troviamo nel punto focale dell’argomento del presente studio. Vale quindi la pena di studiare con attenzione e di riflettere. È semplice, ma estremamente profondo e ricco di applicazioni o di conseguenze. In un simile cammino, si comincia ma non si finisce mai. Man mano che si procede e secondo le occasioni o le possibilità, come pure attraverso il progredire in uno sforzo metodico, tutto il paesaggio si schiarisce con un nuovo giorno. È proprio in questo che consiste il rinnovamento pastorale: se non altro in germe. Ripetiamolo: non si tratta di proporre un programma, ma di incitare a una nuova visione.

Anche questo appartiene a una pastorale rinnovata alle fonti di una ecclesiologia della ecclesia e della sua maternità. Basterebbe chiarirne il significato e svilupparne la coscienza come una comunità di testimoni. I valori essenziali, che negli Atti appaiono caratterizzare la Chiesa apostolica sono: comunità (koinonía), servizio (diakonia), testimonianza (martyría), infine rendimento di gloria (doxàzein). Tutto il popolo che Dio si è acquistato e consacrato è chiamato a essere testimone (1Pt 2, 9-10). Lo deve essere, lo è attraverso il suo stesso esistere, attraverso il volto che mostra al mondo. Esso è segno contrario a ciò che dovrebbe designare e a ciò a cui dovrebbe condurre. Malgrado tutto, il popolo di Dio, nelle sue realizzazioni comunitarie o individuali, è il segno che invita a entrare in un altro mondo, attraverso una seconda nascita.

Questa nascita è quella della fede, che si consuma nel battesimo. I Padri non cessano di dire che noi siamo tutti figli della Chiesa e fratelli per mezzo della fede, credendo, e che, nello stesso atto siamo la Chiesa che partorisce con la parola, predicando. È chiaro che coloro che sono demandati formalmente alla predicazione esercitano questa maternità con pienezza, ma esistono molte forme della parola: la vita ad esempio, l’azione dei genitori cristiani, e ancora, la parola detta col cuore a un amico addolorato, il consiglio dato a ragion veduta. Anche qui ci sarebbe da rinnovare il nostro sentire la comunità cristiana come catecumenato e insegnamento, come scuola di fede, come il luogo dove si impara senza sosta, non solo dalle labbra del prete, ma dalla comunità come tale e attraverso la vita.

Si è abituati a dire che il prete è un intermediario. A volte si è introdotta questa nozione di mediazione persino nella definizione del sacerdozio. Essa è certamente valida. C’è tuttavia modo di completarla considerando le cose sotto un altro aspetto. L’idea del prete intermediario suppone in effetti che la comunità dei fedeli sia beneficiaria della sua azione piuttosto che essere attiva con lui. Se si vuol vederla cooperare con lui nell’opera del ministero, bisogna considerare il prete, non più soltanto come intermediario, ma anche come “mezzo” o “ambiente”, come colui nel quale e grazie al quale si collega tutta questa azione dei fedeli. Non è questa l’immagine che ci danno gli scritti apostolici? Paolo, che ci mostra i ministeri “che organizzano i santi”, cioè i cristiani, per l’opera comune della edificazione del Corpo di Cristo (cfr. Ef 4,11sgg.); gli Atti, che ci presentano, nella Chiesa apostolica, una comunità fraterna che si forma attorno agli apostoli, al loro insegnamento, alla loro celebrazione della frazione del pane (cfr. 2, 42 etc.).

Così il ruolo del prete, sia a livello di comunità parrocchiale sia a quello di più piccole comunità parziali, è di collegare, di confermare, di rifinire, dopo averla sovente suscitata, l’unità dei fedeli nel Cristo. Egli avvia e rifinisce il loro sacrificio spirituale nella celebrazione della Eucaristia, che deve suggellare l’unità della comunità e senza la quale - l’esperienza lo dimostra - questa unità è impossibile. Egli collega, controllando, completando, confermando, correggendo se ce n’è bisogno, l’unità del pensiero cristiano: il suo magistero, subordinato a quello del vescovo, non è un puro insegnamento d’autorità, si esercita anche nel dialogo e nei molteplici scambi. Egli infine collega, controlla, armonizza le iniziative o le azioni dei fedeli, nello stesso tempo senza soffocarle e senza lasciarle progredire in modo anarchico e oltremodo individuale.

Ciò che il prete è in questo modo a livello delle comunità particolari, il vescovo lo è a livello più  elevato della Chiesa che presiede, e lo è, collegialmente, in unione con il primo dei vescovi per la Chiesa universale. Anche il vescovo non è soltanto intermediario, ma “mezzo” e “ambiente” nel quale e grazie al quale si collega la comunità di fede, di culto e di azione di tutta la ecclesia: è la sua funzione ed è il suo ruolo.

Con questo, vescovo e prete non esercitano soltanto un’attività generatrice della  Chiesa, a guisa di una causa efficiente: sono come un’anima che, dal di dentro, fa l’unità di un organismo e gli dà l’animazione. I Padri hanno voluto formulare il loro ruolo in questi termini: il prete, dice Gregorio di Nazianzo, è nel corpo ciò che è lo spirito per il nostro corpo, ciò che è l’anima per il nostro spirito,  e Basilio, scrivendo una lettera di consolazione alla Chiesa di Ancira per la morte del suo vescovo, mostra “i membri di questa Chiesa uniti e legati, fra loro come da un’anima, uniti sotto la sua direzione in un senso di unanimità e di comunione“. I migliori, tra i nostri pastori e i nostri parroci non concepiscono altrimenti la loro funzione in mezzo alle loro pecorelle.

La vera natura della paternità spirituale si è così ben precisata. È senz’altro reale, ma, non essendo corporale, ignora le servitù della paternità naturale. Se ne dubita già quando si sente il Signore dirci: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? [...] Chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è  per me mio fratello, una sorella, una madre” (Mt 12, 48-50; Mc 3, 33-35; Lc 8, 21). La paternità o la maternità spirituale generano alla fede animata dalla carità: essa porta a partecipare agli stessi beni di cui si è goduto e allo stesso titolo di figlio di Dio: essa termina così in una piena fraternità. C’è già qualcosa di simile nella parentela umana ed è ciò che rende vero il proverbio arabo, più difficile da realizzare, d’altronde, che da enunciare: “Quando tuo figlio si è fatto grande, fanne tuo fratello”. Ma qui l’urgenza è molto più grande, la verità più profonda: il popolo di Dio è un popolo di fratelli sotto lo stesso Padre, nel quale quelli che sono stati stabiliti guide degli altri comunicano loro tutto ciò che costituisce la loro vita e il loro tesoro, conservando soltanto una dignità e una funzione che non li rende se non più intensamente servitori.

Una certa conversione intellettuale e spirituale sarebbe richiesta dal prete che volesse entrare nelle prospettive pastorali da noi tracciate, ma un’esigenza analoga atterrebbe anche ai laici. Spesso, infatti, questi non sono consci che a loro appartiene, anche a loro, il compito di trasmettere la fede - cosa che non impedisce loro di riconoscere che anch’essi, dal punto di vista della loro vita religiosa devono molto a questo o a quel laico, a questo o a quel gruppo di laici. Ciò non è contraddittorio? Se i sentimenti e le abitudini tendono a mantenere un complesso di timidezza o di eccessiva discrezione, i fatti parlano in un senso più positivo. Non si potrà fare se non con il tempo e le vie della vita.

 

Yves M.- J. Congar op

 

Dalla Prefazione al libro di Karl Delahaye Per un rinnovamento della Pastorale: la comunità, madre dei credenti, Ecumenica Editrice, 1974

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