Koinonia Febbraio 2020


EPPURE IL VENTO SOFFIA ANCORA…

 

La Comunità dell’Isolotto, dopo aver organizzato una “due giorni” per i 50 anni della sua nascita il 27-28 ottobre 2018, ha provveduto alla pubblicazione degli Atti nella propria collana (“Libriliberi” 2020, pp. 144, €14,00) a cura di Claudia Daurù e Paola Ricciardi: tutt’altro che semplice rievocazione, ma memoria viva e scottante. Non solo perché la comunità è sempre sulla breccia, ma anche nel senso che le sfide di allora sono tutte all’ordine del giorno anche oggi, con l’aggravante che tutto sembra tranquillo e risolto e viviamo nella incomunicabilità totale tra le diverse componenti ed espressioni di chiesa! Viviamo in un’epoca di assestamento e di accomodamento, di illusorio ristagno, e tornare a guardare in faccia la realtà delle cose. come succedeva a quel tempo, non sarebbe male.

Appunto gli Atti di questo cinquantenario ci consentono di ripensare cosa c’era e cosa c’è sempre in gioco, per imparare a risolvere conflittualità irrisolte e sepolte. Non sarebbe male se una rivisitazione critica e non faziosa di questo e eventi analoghi portasse tutti ad un discernimento e ad un confronto aperto a tutto campo. Come è dato vedere nel sottotitolo del volume - fare comunità: pratiche e ricerche a confronto, incontro, testimonianze -   è la “comunità” la chiave di lettura e il filo conduttore di tutta la riflessione e del processo in atto. Perché è chiaro che non si è voluto fare una commemorazione, ma ravvivare una memoria prospettica.

A ben guardare, l’aspetto emblematico di tutta la vicenda Isolotto è il passaggio traumatico da parrocchia tradizionale a comunità in senso conciliare, e quindi - in senso più ampio - da chiesa società perfetta a Popolo di Dio, dal modello di chiesa tridentino a quello del Vaticano II, dove si parla di partecipazione, di riappropriazione, di auto-determinazione. Se è lecito portare acqua al proprio mulino, dal nostro punto di vista potremmo dire che si è trattato di un caso concreto di uscita dalla “chiesa-cristianità” verso una “chiesa delle genti”, da una chiesa di potere ad una chiesa di servizio, da una chiesa gerarchica ad una chiesa di comunione, da una chiesa di vertice ad una chiesa di base. Ecco perché il caso Isolotto è assurto poi a simbolo per tante vicende analoghe, che hanno caratterizzato un periodo tormentato nella storia della chiesa post-conciliare e che sono un nodo da sciogliere ancora oggi. Pecore perdute della casa di Israele, comunque da ricercare, o gregge di Cristo a tutti gli effetti?

In realtà, fino a quando la chiesa-cristianità ha mantenuto la sua centralità di riferimento unico, di modello esclusivo - una sorta di centralismo gerarchico - tutti quelli che hanno tentato di differenziarsi sono stati ridotti al rango di fuoriusciti e sono diventati una diaspora senza diritto di cittadinanza ufficiale dentro una chiesa unica ma non “una”. Se ora siamo autorizzati a far valere autorevolmente una distinzione reale tra chiesa e cristianità, possiamo chiederci legittimamente se questi fuoriusciti siano poi quei disertori che si è voluto far credere o non siano invece i pionieri di quel cambiamento d’epoca che si invoca ma che è stato frenato comprensibilmente da chi ha continuato a bere il vino vecchio senza desiderare il nuovo, “perché dice: Il vecchio è buono” (Lc 5,39).

In effetti è successo che quanto questi fuoriusciti dal sistema cristianità hanno esplorato e sperimentato è stato poi incamerato e riassorbito dall’apparato, che lo ha metabolizzato devitalizzandolo e formalizzandolo, al tempo stesso in cui ha buttato via il bambino con l’acqua sporca, e ha impedito quella rinascita globale inutilmente perseguita a parole. Se oggi si facesse un elenco delle parole d’ordine delle formule in voga o ormai sulla bocca di tutti - chiesa in uscita, comunità missionaria, conversione pastorale, sinodalità ecc.  -  sarebbe facile rendersi conto che è come voler ridare vita a quanto si è lasciato abortire.

Se questa è la situazione, è chiaro che c’è una chiamata alla responsabilità per tutti, per metterci alla prova e vedere di ritrovare un terreno comune in cui incontrarsi e ritrovarsi senza troppe pregiudiziali e preclusioni, ma nell’unico intento di fare “verità nella carità” (Ef 4,15), senza timori e senza infingimenti. A questo scopo prenderei sul serio le parole di Simeone a Maria, per dirci quale dovrebbe essere in punto di riferimento e il banco di prova da accettare in partenza: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,34-35).

È tutt’altro che spiritualismo evasivo, ma richiamo a misurarci tutti col mistero dell’“uomo, Cristo Gesù”, per dirci se è stoltezza e scandalo o è invece per noi “potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,24). Perché è proprio qui il punto: se ad una fede svilita, contraffatta, compromessa, convenzionale e vana sappiamo rispondere con una fede evangelica con la semplicità dei colombi e con l’accortezza di serpenti, con una fede laica, disarmata, condivisa, quella che “vince il mondo” (1Gv 5,4) perché nasce da Dio! Ed è forse qui il discrimine e il nodo da sciogliere per ritrovarsi nella chiesa come liberi cittadini con la libertà dei figli di Dio.

Rimanendo sempre sul crinale dei due versanti - o per meglio dire ”sulla corda” - ho potuto verificare  che il punto di frattura era ed è nel fatto che da una parte si rivendica e di salvaguarda religiosamente il “senso del mistero” come essenza della fede (ortodossia formale e rituale), dall’altra si fa leva sull’impegno, sul coinvolgimento, sulla solidarietà (ortoprassi come regola d’oro). Se uno sbaglio c’è stato, da parte della linea conciliare spontanea,  è stato quello di aver svenduto la primogenitura del credere alla chiesa di cristianità, quasi che il “mistero della fede” fosse sua esclusiva, per contentarsi della briciole che cadono dalla tavola del padrone, senza però la fede di quella donna impertinente. In modo da rilanciare la sfida della lettera di Giacomo 2,18: “Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”. 

Naturalmente non opere dimostrative o surrogato della fede - alla pari della pura religiosità senza le opere - ma la fede come “opera di Dio”, stando a quanto si legge in Giovanni 6,28-29: “«Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?». Gesù rispose: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato»”. Ecco davvero il punto: la fede del cuore, non in una sua versione religiosa o attivista, ma come conversione che porti a credere al vangelo, qualcosa di inedito e di irriducibile, il vero fatto nuovo a cui dar vita “in timore e tremore”. La fede, come la coscienza, non è materia e oggetto di scontri, ma di umiltà e di rispetto!

Se il libro sull’Isolotto è stato l’occasione, a suggerire queste considerazioni è il momento che viviamo, di distacco dal passato e senza agganci col futuro: sotto il dominio di un presenzialismo divorante che omologa e dissolve tutto in spettacolarità! Quello che possiamo dire o possiamo fare in contrario è vanificato da questa legge inesorabile di immediatezza, per cui diventa sempre più evidente che a contare non è quello che si pensa o che si fa, ma come ci si pone: l’unica risposta è fare verità, smascherare l’inganno e dissociarsi; è il rapporto reale con le cose e con gli altri a tu per tu, prima che attraverso parole e azioni. È la solitudine solidale.

Sul piano ecclesiale è tutto un dire e un fare, senza troppo costrutto, ma con tanta retorica di autoesaltazione. In realtà “non abbiamo portato salvezza al paese e non sono nati abitanti nel mondo” (Is 26,18). E questo forse perché il seme della Parola - il vangelo - cade su terreni già compromessi, inquinati e improduttivi, e non arriva perciò a maturazione.  Bisognerebbe che il residuo terreno vergine recepisse la Parola del vangelo con cuore buono e perfetto in tutta la sua originaria fecondità ed efficacia, per custodirla e farla fruttificare con la perseveranza.

Sì, siamo in una vera e propria giungla religiosa, e nel tempio del mercato del tempio per tutti i gusti, è necessario che qualcuno prenda il vangelo nella sua asciuttezza e realtà, bisogna che qualcuno cerchi soltanto il regno di Dio e la sua giustizia - poiché questo è il vangelo - lasciando che il resto venga di conseguenza. Se è possibile farlo nella condivisione tanto meglio, ma se ci ritroviamo a farlo da soli, non per questo dobbiamo nasconderci o rinunciare. L’importante è sincerarsi di conservare “il mistero della fede in una coscienza pura” (1Tm 3,9). Poi vengano pure i confronti, i contrasti, i conflitti, perché: o li risolviamo sulla base e alla luce di quella verità verso cui lo Spirito porta, o si rimane al di fuori di qualunque possibile conciliazione, perché ad essere compromesso e contraffatto è il principio stesso di comunione, strumentalizzato in funzione dello status quo piuttosto che come fonte di novità.

È chiaro che possiamo tornare a considerare fatti simili solo nella prospettiva di uno sbocco in un senso o nell’altro, altrimenti tutto diventa autoassolutorio o autocelebrativo. In questo senso arriviamo a dire che se nessuno può ritenersi il modello unico ed esclusivo di chiesa, quanti si sono impegnati a trovarne altri non devono arretrare davanti a questa pretesa, semmai pretendere che il confronto avvenga alla pari sul piano delle forme storiche, lasciando che l’ago della bilancia rimanga la sostanza unica della fede. Ne saremo capaci?

 

Alberto Bruno Simoni op

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