Koinonia Febbraio 2020


IL MATRIMONIO DEI PRETI È GIÀ UNA REALTÀ


La pubblicazione del libro Dal profondo dei nostri cuori (Fayard) con, in copertina, le foto di Benedetto XVI e del cardinale Robert Sarah, provoca minisisma mediatico. Rompendo il patto di non interferenza a cui si era impegnato dimettendosi nel 2013, Joseph Ratzinger, con il suo contributo a questo lavoro, avrebbe inviato un drone mortale nella direzione del suo successore sottolineando la questione del celibato dei sacerdoti, mentre il sinodo dedicato lo scorso ottobre all’Amazzonia ha messo in luce la carenza ecclesiastica in questa regione e ha suggerito, attraverso la voce di alcuni vescovi, che l’ordinazione dei viri probati, degli uomini sposati, potesse alleviarla.

In attesa delle conclusioni che ancora deve trarre  papa Francesco, l’unico a decidere, non ci vuole altro per scatenare il panico che il blocco dei conservatori contrari a qualsiasi riforma. Ai loro occhi, come a quelli di Papa Benedetto XVI, che dice “non si può tacere”, l’ordinazione di uomini sposati nella lontana Amazzonia costituirebbe una marcata deriva protestante. Volendo riconnettersi con la Scrittura, la Riforma in particolare non aveva forse avviato la declericalizzazione con l’abolizione del celibato del clero?

Ma questa eccitazione intorno alla (presunta) guerra tra due papi, uno che tende alla Riforma, l’altro che assicura che il celibato sia un criterio essenziale del ministero sacerdotale, è davvero giustificata?

Alcuni richiami necessari, storici e teologici ci consentono di dubitarne seriamente. Riservare l’ordinazione dei sacerdoti ai soli uomini non corrisponde solo a una legge divina, ma a una legge ecclesiastica medievale adottata per garantire il sistema dei benefici: il matrimonio dei sacerdoti, fino ad allora in vigore, fu reso invalido nel 1139 (canone 7 di Laterano II, COD 198), seguendo una disciplina del tutto economica e sociale, che è stata successivamente sostenuta da un’evoluzione dottrinale sulla consacrazione del corpo eucaristico, funzione principale ed esclusiva dei sacerdoti, e si è allineata alle regole del monachesimo.

Prova ne è che questa legge del celibato non è affatto divina, che né le Chiese ortodosse, né le Chiese protestanti, né la stessa Chiesa cattolica romana la rispettano: i preti ortodossi come i pastori protestanti si sposano, così come i sacerdoti delle chiese orientali in comunione con Roma, come i greco-cattolici ucraini, i maroniti, i caldei, i melchiti e gli altri ruhteniani. Questa stessa apertura è stata riconosciuta da Papa Francesco nel 2014 ai chierici orientali nella diaspora nell’ambito delle chiese latine. La disciplina del celibato non si applica più al clero anglicano che si è unito alla Chiesa cattolica romana, nell’ambito di ordinariati personali creati nel 2009 sul modello di ordinariati militari. L’ordinazione anglicana non è riconosciuta da Roma, ma l’ordinazione cattolica è ammessa per i sacerdoti anglicani e i vescovi sposati che lo richiedono, ed è lo stesso Papa Benedetto XVI che ha concesso questa eccezione al celibato attraverso una costituzione che ha firmato il 4 novembre 2009. In relazione alla relazione estremamente complessa e ambigua tra sesso e sacro, la questione del celibato è sempre stata delicata. Il Concilio Vaticano II fece così quando votò, finalmente in modo schiacciante, in modo che gli uomini sposati potessero essere ordinati diaconi.

Questa è stata una grande novità dopo sedici secoli di tradizione secondo la quale i diaconi, come tutti i ministri, dovevano essere celibi. A quel tempo, gli oppositori avevano predetto che i sacerdoti avrebbero potuto seguirli, ma cinquant’anni dopo non è affatto così. Un’ulteriore eccezione al celibato sacerdotale sarebbe quindi aggiunta alla già lunga lista di ministri cattolici sposati e non aprirebbe in alcun modo la porta all’ordinazione degli uomini sposati al presbiterato, come temono Joseph Ratzinger, Robert Sarah ed altri dignitari reazionari. La Chiesa cattolica ha tutte le capacità per cambiare e adattare la legge ecclesiastica senza alcun riavvicinamento al protestantesimo che incombe in questo lontano orizzonte amazzonico. È addirittura il contrario. Questa misura locale dovrebbe rispondere alla carenza ecclesiastica, un fenomeno ancora più palese in Amazzonia che in altre regioni del mondo, in particolare in Europa, che sono in fase di declericalizzazione, a causa della mancanza di sacerdoti. Per far fronte a questo, avremmo avuto il diritto di sperare in un decentramento del sacerdozio clericale, un’evoluzione dal sacerdozio ministeriale al sacerdozio comune dei fedeli.

Fu, del resto, uno dei principali progressi del Vaticano II, che aveva riscoperto che il popolo cristiano è un popolo sacerdotale, nella diversità di carismi, funzioni e vocazioni. A questo proposito, il concilio si era unito a uno dei fondamenti della Riforma che professa che tutte le persone, piene di Spirito, sono chiamate alla predicazione profetica del prossimo Regno, abolendo la separazione tra il popolo e il sacerdote, il pastore non avere alcun potere che lo distingua dai laici. Ora, è esattamente la strada opposta che i padri sinodali dell’Amazzonia hanno scelto, focalizzando tutta l’attenzione su questa nozione sconosciuta del Nuovo Testamento che è il sacerdozio ministeriale. Come se il sacro potere del sacerdote, single o eccezionalmente sposato, in un’istituzione sacerdotale esclusivamente gerarchica e monarchica, da solo consentisse di guardare al futuro cattolico.

In una Chiesa in crisi aperta, scossa dagli scandali e priva di sacerdoti, questa opzione clericale interrompe qualsiasi avanzamento nelle missioni delle donne e dei laici, nella diversità dei carismi e nella forza dello Spirito. È una sistole (contrazione)  catolicocentrica e non una diastole (espansione o deriva) verso una nuova era nella libertà del Vangelo, per rendere la Chiesa diversa.

 

Christian Delahaye 

Giornalista e teologo cattolico, specializzato nei dialoghi interreligiosi

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