Koinonia Febbraio 2020


Per ricordare Angela Crucitti D’Avanzo riproponiamo queste sue

 

PROPOSTE DIDATTICHE (I)

 

In questo incontro mi riferirò a quanto è stato detto nelle lezioni precedenti e, seguendo il filo conduttore che è emerso dal corso, ne illustrerò alcune possibili applicazioni didattiche.

Vorrei partire da una premessa sull’importanza del tempo nella scuola. Come dicono i sociologi e come ha dimostrato Mons. Marconcini in una delle prime lezioni di questo corso, nella nostra società c’è come una patologia del tempo: si corre sempre, in maniera frenetica, dietro ai vari impegni. Nessuno ha mai tempo. La tecnologia, che sempre più entra nella sfera del lavoro e del privato, rischia di determinare una mutazione antropologica: l’uomo si adegua alla macchina e tende ad ottenere il risultato nel minor tempo possibile, senza guardare ad altro: tutto deve essere funzionale.

Nel mondo del lavoro le macchine in molti casi hanno già sostituito l’uomo: e vediamo come questo abbia determinato, a livello mondiale, una forte e drammatica disoccupazione. Le conoscenze tecnologiche, nel volgere di pochi anni, diventano superate. E allora, come si eliminano le macchine vecchie, così si tende a sostituire i manager e gli impiegati (i “quadri”) ritenuti anziani con altre forze più fresche e preparate. Chi non è aggiornato non vale. Questa concezione della vita determina crisi ulteriore, angoscia, disagio sociale e tende a produrre una lotta spietata tra generazioni.

La cultura dell’efficientismo entra anche nella trasmissione del sapere e nella modalità di apprendimento: il modello che si sta affermando tende alla velocità, a non lasciare spazio alla riflessione, alla pausa, al dubbio, all’attesa. Si eliminano le sfumature, si tende a rispondere, come il computer, in termini di “sì” e di “no”. Il tempo che non è funzionale a “fare” qualcosa, viene ritenuto sprecato. Non c’è, come ha detto Mons. Marconcini, “il tempo per la relazione, per l’incontro con l’altro, per la costruzione di ciò che dura”.

È importante tener presente questa situazione quando ci si occupa di scuola. I bambini e i giovani, come gli adulti, sono pieni di impegni: piscina, palestra, corsi di musica, di lingua, di teatro. Anche nell’orario scolastico aumentano le “occasioni didattiche” offerte da enti culturali o da enti pubblici; sono iniziative da guardare con molta attenzione, come segno di un rinnovamento che collega la scuola all’extra-scuola; ma spesso si accumulano disordinatamente, senza inquadrarsi in un progetto organico di programmazione.       

Bambini e giovani corrono, corrono anche loro. Ma dove? Rischiano di essere prigionieri del non senso. Come conseguenza dei ritmi accelerati, delle nuove tecnologie, del tempo passato davanti alla televisione, ecco che si manifesta in loro un’altra dimensione: la tendenza, come dice la sociologa Paola Di Donato, a vivere “a onde corte”: la tendenza, cioè, a vivere nel presente senza altre coordinate temporali, senza un progetto, senza un continuum su cui collocare le proprie esperienze.

I giovani di oggi non hanno il senso della storia. È un po’ la caratteristica, come si è visto, della nostra epoca, che è un’epoca senza memoria, in cui una persona anziana col suo bagaglio di ricordi è considerata inutile; in cui non è ritenuto importante il passaggio di esperienze personali da una generazione all’altra. Ne deriva che anche quando studiano la storia, questi ragazzi spesso non ne capiscono lo spessore, le prospettive, anche se acquisiscono le nozioni.      

È importante, invece, coltivare il senso della memoria: conoscere il passato aiuta a guardare e a progettare il futuro. Questi ragazzi di oggi sembrano liberi, più di quanto noi lo fossimo alla loro età, liberi dalle catene (di un’educazione a volte rigida; ma in realtà rassomigliano (non tutti ovviamente, ma nella media) a quegli astronauti che nella navicella spaziale non sono legati dalla forza di gravita: dovrebbero essere più liberi di muoversi, ma non trovano la direzione, perché non riescono a poggiarsi su una base da cui prendere lo slancio.        

La memoria è questa forza che tiene ancorati al passato per muoversi consapevolmente nel presente e proiettarsi verso il futuro. Anche a causa di questa mancanza dì memoria è difficile oggi trasmettere la fede (e la cultura) cristiana, che si basa sulla consapevolezza che “tempo e storia sono il luogo teologico della salvezza”, come ha detto il Card. Piovanelli nell’incontro della settimana passata.

Come insegnare il Giubileo? Come far capire ai ragazzi, ai giovani, il significato di questo evento? Mons. Marconcini ci ha fatto vedere che per i cristiani il tempo è un processo lineare, continuo, a cui dà pienezza e senso Gesù Cristo, che è entrato nella nostra storia; e che questa linearità ha dei momenti forti. Nel corso della storia il Giubileo è un tempo forte, che illumina la quotidianità, è un anno eccezionale in cui si fa festa, un anno del Signore in cui più intensamente “si fa memoria dell’irruzione dell’Eterno nella nostra secolarità”, in cui si celebra il Dio che è con noi, che ci chiama alla fede, alla riconciliazione, alla solidarietà.

Sulla base di questa considerazione e tenendo presenti le lezioni di questo corso, si potrebbero suggerire indicazioni di lavoro che sviluppino diverse tematiche connesse al giubileo (arte, religiosità, solidarietà, storia del passato o contemporanea); ad esempio:

a) Differenza tra viaggio (di vacanza o di studio) e pellegrinaggio. Esperienze di viaggi fatti con la famiglia o con amici o in gruppi organizzati da agenzie turistiche; e confronto con gii aspetti essenziali del pellegrinaggio cristiano o, comunque, religioso. Visita a un luogo giubilare.

b) Il viaggio, come metafora della vita, come ricerca di senso, nel cinema (ad esempio La Via Lattea, Il settimo sigillo, La strada, Thelma e Louise) e nella letteratura (ad esempio Odissea, La Divina Commedia, I viaggi di Gulliver, Ulisse); confronto col pellegrinaggio religioso.

c) II pellegrinaggio nel Medio Evo: grandi santuari e vie di comunicazione. Studio storico e realizzazione pratica (viaggio d’istruzione o gita di un giorno su un tratto della Francigena).

d) Sulla base della  Lettera Apostolica Tertio millennio adveniente di Giovanni Paolo II e di passi biblici relativi al Giubileo (come Lv 25 e Lc 4, 14-22) si può affrontare la questione della pace, della giustizia, della salvaguardia del creato, che sta al centro dell’anno giubilare; e fare una ricerca sui problemi del Sud del mondo, realizzando attraverso lo studio quel “pellegrinaggio verso i poveri” di cui ha parlato il Card. Piovanelli. Un lavoro scolastico molto interessante potrebbe essere svolto (in collaborazione con il Centro Missionario Diocesano) sul Brasile e particolarmente su Salvador Bahia, visto che in questa città è attivo da molto tempo un nucleo di missionari fiorentini e che il comune di Firenze è gemellato con la città brasiliana, significativa anche per le splendide opere di arte sacra.

Dato che il tempo è limitato, sulla base di quanto ho già detto, presenterò soltanto due proposte didattiche:

1) Scoperta di un aspetto significativo del territorio, alla luce della fede e della cultura cristiana e in continuità con la storia di generazioni di credenti che ci hanno preceduto. Sotto questo punto di vista sarà brevemente esaminata l’esperienza didattica realizzata in una classe della scuola media di Bagno a Ripoli-Antella, che ha preparato una visita guidata della cattedrale di Santa Maria del Fiore.

2) Pellegrinaggio. In questo corso sono stati illustrati i caratteri generali del pellegrinaggio cristiano e i pellegrinaggi a Roma e a Santiago di Compostela. Io presenterò la storia della “Gerusalemme sostitutiva” di San Vivaldo in Valdelsa.

 

*** *** *** ***

 

UNA VISITA GUIDATA DI SANTA MARIA DEL FIORE

 

Si tratta di un’esperienza didattica realizzata nel marzo di quest’anno scolastico 1999/2000, dopo un lavoro di preparazione durato cinque mesi. Per una mattinata gli studenti della II A della scuola media “Redi” di Bagno a Ripoli hanno interpretato il ruolo di guide volontarie della Cattedrale per turisti e visitatori di Firenze e di altre parti d’Italia.

È importante il fatto che il monumento scelto sia la nostra Cattedrale, un luogo di memorie, in cui generazioni e generazioni di fiorentini hanno vissuto la loro fede. Studiare un luogo che per ogni fiorentino è denso di ricordi e che è stato per secoli al centro della storia cittadina è di importanza fondamentale per quell’aspetto di cui ho parlato prima, a proposito del “tempo”: per abituare, cioè, i ragazzi a percepire la storia nel suo spessore, non come successione di eventi stampati nei libri, ma come un vissuto che si snoda nel tempo e che consente il passaggio di esperienze e di ricordi da una generazione all’altra. Questi giovanissimi studenti si sono sentiti come il punto di arrivo di un lungo cammino che nei secoli tante persone (artisti, artigiani, operai, teologi, fedeli) avevano percorso prima di loro. L’hanno capito, se ne sono fatti carico. E questo è stato ed è, per tutti, fonte di fiducia e di speranza.

Non parlerò qui della Cattedrale, perché è notissima. Vorrei illustrare rapidamente come si è svolto il lavoro. Il progetto, disegnato nelle linee generali già a giugno del precedente anno scolastico durante un incontro tra me e alcune insegnanti della scuola, prevedeva la collaborazione di volontari dell’ufficio della Catechesi attraverso l’arte (oltre a me, Paolo Lippi) e di alcune insegnanti della classe: Paola Barbagli (italiano), Laura Giglioni (religione), Manuela Masi (educazione artistica).

La finalità generale era quella di far sì che i ragazzi si rendessero conto del rapporto che il presente ha col passato e che imparassero a “leggere” una chiesa. L’obiettivo specifico era che, studiando il significato religioso, culturale, artistico della Cattedrale, riuscissero a illustrare con disinvoltura questo monumento non solo alla classe ma a un pubblico esterno, trasformandosi per l’occasione in piccole guide. Qualcosa del genere era stato già realizzato dal F.A.I. sul Teatro alla Pergola e su altri monumenti. Ma, scegliendo la Cattedrale, l’Ufficio della Catechesi attraverso l’Arte ha voluto sottolineare il rapporto tra arte e fede.

Come strumenti di lavoro sono stati utilizzati libri, guide, diapositive, vario materiale illustrato e fotografie talvolta scattate dai ragazzi stessi o dai loro genitori. Abbiamo lavorato in maniera interdisciplinare, ed è stato un lavoro lungo e complesso più del previsto, perché i ragazzi dovevano acquisire conoscenze su campi e su epoche che non avevano ancora studiato e dovevano appropriarsi di una terminologia tecnica che non possedevano. Non è affatto facile far capire a studenti di dodici anni il passaggio da Santa Reparata a Santa Maria del Fiore (condensando in pochi mesi circa un millennio di storia), parlare dell’economia mercantile del Due-Trecento, degli stili architettonici, di questioni teologiche e del percorso simbolico dal Battistero all’altare del Duomo. È stato molto positivo che i ragazzi fin dall’inizio siano stati coinvolti dalle loro insegnanti in questa impresa, abbiano capito e abbiano accettato l’impegno. Altrimenti il lavoro non sarebbe giunto a termine.

Dopo un’introduzione generale di Mons. Timothy Verdon, Paolo Lippi ed io abbiamo illustrato i vari aspetti della Cattedrale in numerosi incontri in classe e attraverso due visite al Duomo. Tra un incontro e l’altro le insegnanti appianavano le difficoltà, insegnavano a stendere i testi, a memorizzare, a esporre.

A metà del lavoro la classe (di ventiquattro studenti) si è divisa in gruppi di tre, perché ogni gruppo approfondisse e illustrasse un aspetto specifico del percorso da seguire nella Cattedrale, che è stato scandito in otto tappe. Sono state fatte prove in classe e di fronte ad altre classi e, verso la fine, quattro prove in Duomo di visite guidate dai ragazzi stessi, che pian piano hanno superato le loro incertezze di fronte a situazioni nuove, acquisendo progressivamente scioltezza e disinvoltura nell’esposizione e nel contatto con gli altri.

Significativa è stata la collaborazione dei genitori, che nelle prove in Duomo hanno interpretato la parte di “pubblico”. Questa partecipazione è stata anche per loro un’esperienza interessante, che ha consolidato il rapporto con la scuola.

Abbiamo constatato tra i ragazzi un forte spirito di solidarietà: i più bravi hanno dato una mano ai più deboli (“l’attesa dei tempi dell’altro”, di cui ha parlato Mons. Marconcini).

Alla fine c’è stata la visita, che ha avuto un grande successo: turisti e visitatori erano incantati di fronte a questi ragazzini che esponevano con tanta facilità concetti così difficili. Non sapevano la fatica che avevamo sostenuto, tutti.

Questo metodo può essere applicato allo studio di altre chiese o monumenti. L’importante è questo: quando si attua un progetto del genere, che dura diversi mesi (ad es. una rappresentazione teatrale) è importante programmare bene: il programma normale non deve svolgersi parallelamente, ma deve confluire nel lavoro progettato, in modo da non creare problemi di tempo per gli insegnanti e superlavoro per i ragazzi.

 

*** *** *** ***

 

A SAN VIVALDO IN VALDELSA UNA

“GERUSALEMME SOSTITUTIVA”

 

Quando a scuola si parla di pellegrinaggio, bisogna farne vedere agli studenti la differenza rispetto al viaggio di piacere o di cultura. Che senso ha oggi il pellegrinaggio, quando i viaggi sono tanto inflazionati, quando si conoscono (salvo imprevisti) orario di arrivo e di ritorno, quando la televisione ci informa su ciò che avviene in tutto il mondo? Per ritrovare lo spirito del pellegrinaggio bisogna riscoprire il senso della precarietà, del mistero. Come è stato detto, il pellegrinaggio può essere considerato una metafora della vita dell’uomo: in tutte le culture gli uomini ricorrono all’immagine del cammino per indicare la vita; cammino che può essere incerto, pericoloso, ma che per il pellegrino ha un punto d’arrivo. Non si tratta del girovagare senza meta di chi vuole passare il tempo; e nemmeno di un viaggio di studio. Il pellegrinaggio, come hanno messo in evidenza i relatori precedenti, è caratterizzato da una tensione religiosa, è ricerca di Dio. Richiede anche ora, in tempi di spostamenti molto facilitati, un distacco dalle proprie abitudini, da un mondo noto, per andare altrove, all’incontro che da senso alla vita.

Il teologo Bruno Maggioni dice che “biblicamente parlando, il pellegrinaggio è anzitutto un esodo: dalla schiavitù alla libertà, dagli idoli a Dio, dall’egoismo e dalla solitudine a una nuova fraternità” (Jesus, 1997, 4, p.17). Quindi presuppone un riesame della propria esistenza e una ricerca di purificazione. Nel Nuovo Testamento il popolo di Dio è visto come un popolo in cammino; i cristiani non sono erranti senza meta, ma pellegrini sulla via del santuario dove Cristo li ha preceduti (Eb 9,8).

Questa premessa è necessaria per capire l’importanza del pellegrinaggio a Gerusalemme, che, fin dai primi secoli del cristianesimo, anche in continuazione con la tradizione ebraica, fu il luogo a cui si rivolse l’attenzione e il pellegrinaggio dei cristiani. E se ne comprendono facilmente le ragioni: era la città santa degli ebrei, la città in cui Gesù era andato a concludere la sua vita terrena, in cui aveva istituito l’Eucaristia, in cui era avvenuta la sua Passione, Morte e Risurrezione. Perciò era un luogo unico per chi voleva percorrere il cammino della fede, rivivendo nel proprio cuore, attraverso i luoghi evangelici, la vita di Gesù e la sua promessa di redenzione.

Si può vedere una raffigurazione di Gerusalemme nel celebre Mosaico di Madaba. Questo mosaico fu scoperto nel 1884, quando una chiesa greco-ortodossa fu eretta sulle rovine di un’antica chiesa del VI secolo, a Madaba, nell’attuale Giordania. Sono riconoscibili la via centrale della città adrianea, segnata da colonne (è il romano cardo) e gli edifici costantiniani eretti sul Golgota, di cui parlerò tra poco.

Esporrò nelle linee essenziali come la città di Gerusalemme fu percepita e conosciuta nel mondo occidentale cristiano. Dopo la distruzione da parte di Tito (70 d.C.) e di Adriano, che sulle rovine della città costruì nel 135 Aelia Capitolina, Costantino avviò un grande lavoro di recupero, ricostruzione e sacralizzazione di Gerusalemme. Sant’Ambrogio (nel De obitu Theodosi) e, molti secoli dopo, Jacopo da Varagine nella sua Legenda aurea raccontano che Sant’Elena, madre di Costantino, invitata dal vescovo Macario, durante il Concilio di Nicea, a visitare la città di Gerusalemme, vi si recò l’anno successivo (326) e nei lavori di scavo e di ricostruzione trovò la vera croce su cui era stato crocifisso Gesù. Su quest’episodio sorse il ciclo medievale della Leggenda del ritrovamento della vera Croce, che troviamo frequentemente raffigurato nelle nostre chiese, soprattutto in quelle francescane.

A Firenze Agnolo Gaddi, alla fine del Trecento, affrescò su questo tema la cappella centrale di Santa Croce, con una serie di scene che riproducono vari episodi del ciclo. La leggenda è questa: il legno della croce sulla quale morì Gesù deriva dall’albero del bene e del male del Paradiso Terrestre e questo legno è visto al centro di tutta la storia sacra, che culmina nella crocifissione di Gesù. Nella scena del Ritrovamento della vera Croce si può vedere che l’imperatrice madre Elena trova, nel luogo del Calvario, tre croci; per vedere allora quale è quella su cui fu crocifisso Gesù, viene fatto un esperimento: un morto è portato alla sepoltura e il corteo funebre passa davanti alle tre croci. Davanti a due delle croci (quelle dei ladroni) non succede nulla, ma quando il corteo arriva alla vera croce di Cristo, ecco che il morto resuscita. Si può osservare, nell’affresco del Gaddi, il ritmo narrativo piano e attento ai particolari, all’abbigliamento dei personaggi, alle curiosità, alle fisionomie. La vicenda era ben conosciuta dai fedeli e il pittore li invitava a leggerla alla luce del loro vissuto quotidiano.

La stessa leggenda fu rappresentata da Piero della Francesca ad Arezzo, nella cappella centrale della Chiesa di San Francesco. Gli affreschi, per molto tempo mutili e rovinati, sono stati recentemente restaurati. Se mettiamo a confronto, nei due pittori, la stessa scena del ritrovamento della vera Croce, notiamo come Piero della Francesca non si soffermi sui particolari alla ricerca dell’aneddoto e della narrazione piacevole ma, attraverso la rigorosa rappresentazione prospettica, i giochi di simmetrie e la solennità dei personaggi, voglia passare dal contingente all’eterno e trasmettere un messaggio che sottolinei il valore simbolico del fatto rappresentato.

Quindi due importanti cicli pittorici si ispirano alla croce “ritrovata” a Gerusalemme. Un’altra interessante raffigurazione della Leggenda si trova a Volterra (Cappella della Croce in San Francesco) e altre si possono vedere in varie località toscane. Si tratta infatti, come ho già detto, di una leggenda molto conosciuta e amata nel basso Medioevo, che dimostra quanto forte sia stato per secoli l’interesse per le storie sacre ambientate a Gerusalemme.

Nell’occasione della scoperta dell’imperatrice madre Elena, ci sarebbe stata la fondazione dell’edicola dell’Anastasis (Resurrezione), sul luogo del Calvario e della grotta del S. Sepolcro, sa cui Adriano aveva fatto costruire un tempio a Venere. Fu allora che si fondò il culto della Passione, Morte e Resurrezione di Cristo incentrato appunto sulla basilica dell’Anastasis. Come è noto, quest’edificio, che comprendeva in un unico spazio il Calvario e il S. Sepolcro, subì nei secoli molte trasformazioni, distruzioni e successive ricostruzioni. Dopo la distruzione nel 1009 ad opera del califfo Al-Hakim, l’edificio fu subito ricostruito e successivamente modificato e completato dai Crociati. La nuova chiesa, consacrata nel 1149, rimase sostanzialmente inalterata fino al 1808, quando fu distrutta da un incendio. I lavori di ricostruzione del 1808 e i rifacimenti del 1927 portarono ancora rilevanti cambiamenti.

In una scena della decorazione musiva nella parete di destra di S. Apollinare Nuovo a Ravenna (la scena raffigurata è quella delle Marie al sepolcro) si può vedere il S. Sepolcro come era nel VI secolo. Dopo la ricostruzione costantiniana, negli ambienti della corte di Bisanzio, soprattutto tra le donne della famiglia imperiale, furono frequenti i viaggi di devozione a Gerusalemme; e anche dall’occidente, soprattutto tra i ceti aristocratici e intellettuali, molti pellegrini raggiungevano la Terra Santa per passarvi il resto dei loro giorni. Tra questi San Girolamo, che verso la fine del IV secolo vi si recò due volte: la prima volta a Gerusalemme (372), la seconda a Betlemme, dove fece vita eremitica con due discepole che lo avevano seguito da Roma, Paola ed Eustochio. La vita nei luoghi santi fu per loro l’attesa della patria celeste. Potete vedere una raffigurazione del viaggio di S.Girolamo, Paola ed Eustochio in una miniatura tratta dalla Bibbia di Carlo il Calvo, del IX secolo.

In questo periodo sono forse da collocare i viaggi della monaca Egeria o Eteria, la quale descrisse minutamente le sue esperienze di viaggio in uno scritto, Peregrinatio ad loca sancta, ricco di curiosità e di notizie preziose per la conoscenza dei luoghi santi, che ebbe ampia circolazione in tutto il Medioevo e fu il capostipite di un genere letterario molto amato in quest’epoca (gli Itineraria).

Da allora fu tutto un fiorire di pellegrinaggi in Terra Santa, dal IV al XIII secolo. I pellegrini riportavano dai viaggi reliquie e ricordi e al loro ritorno raccontavano, spesso in maniera fantasiosa, quello che avevano visto, suscitando in Occidente il desiderio di possedere qualche cosa che fosse stata a contatto coi luoghi del Santo Sepolcro o che li richiamasse alla memoria.

Questo era un itinerario-tipo dall’occidente alla Terra Santa attraverso la Via Francigena: i pellegrini partivano dall’Europa del Nord o dall’Europa occidentale, arrivavano alla pianura padana (Vercelli), attraversavano l’Italia lungo la Francigena, giungendo a Roma; tagliavano orizzontalmente la penisola verso Bari, Brindisi, Taranto e, attraverso la penisola balcanica, raggiungevano Tessalonica e Bisanzio; di qua, dopo aver percorso l’Asia Minore e la Siria, giungevano finalmente a Gerusalemme. Successivamente si affermò il viaggio per mare dalla Puglia alla Terra Santa.

Come conseguenza dei viaggi sorsero allora in tutto il Medioevo, soprattutto lungo le grandi vie di comunicazione per l’Oriente, chiese che si richiamavano al Santo Sepolcro. Interessante è, a questo riguardo, la cripta della Chiesa del S. Sepolcro ad Acquapendente (IX sec.) che nella struttura sì ispirava al sacello dell’Anastasis.

Una città o una chiesa diventavano più importanti se custodivano qualche reliquia (per esempio a Colle Val d’Elsa c’è la Cappella del Sacro Chiodo, che conserva un chiodo ritenuto appartenente alla Croce) oppure se custodiva statue miracolose di provenienza orientale: notissimo è il Volto Santo, scultura romanica ora esposta in un tempietto all’interno della Cattedrale di Lucca. Nel basso Medioevo, considerata opera miracolosa di mano celeste, era meta di intenso pellegrinaggio e viene ricordata anche da Dante (I,21,48). Si diceva che la statua lignea fosse stata miracolosamente trovata sulla spiaggia di Luni, portata dal mare.

Una città intera, Sansepolcro, fu costruita con un nome che si rifaceva al S. Sepolcro di Gerusalemme. E molte parti d’Europa e tutta l’Italia fino alla Puglia furono segnate da chiese che nella struttura o nelle decorazioni richiamavano esplicitamente i luoghi santi di Gerusalemme.

Anche successivamente, in pieno Umanesimo, fu edificata, su progetto di Leon Battista Alberti nel 1467 una cappella per Giovanni Rucellai, nella chiesa (ora ex-chiesa) di San Pancrazio. Il committente ricorda di aver fatto costruire l’edicola “simile” al sacello del sepolcro di Cristo. E nello Sposalizio della Vergine di Raffaello, dipinto nel 1504 (Milano, Pinacoteca di Brera) Maria e Giuseppe sì sposano con lo sfondo del Tempio di Gerusalemme, che può ricordare l’Anastasis.

Quindi i luoghi santi vennero riprodotti per tutto il Medioevo, nel Quattrocento, nel Cinquecentò, come vengono tuttora riprodotti in fotografie e poster.

I pellegrini andavano (e vanno) a Gerusalemme per vedere i luoghi fisici dove Gesù aveva concluso la sua vita terrena, per camminare sulle strade su cui Lui è passato, per toccare quegli oggetti che nella memoria collettiva ricordano la Sua Passione e Morte, perché, come ha detto nella sua ultima lezione Mons. Verdon, l’essere umano ha gli occhi, ha le mani e ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti e la fede anche attraverso il corpo che Dio gli ha dato, guardando, toccando, movendosi, cantando, danzando. Questa, che è punto di arrivo di un viaggio reale, è la Gerusalemme “terrena”.

Ma il pellegrinaggio fisico, reale, è il segno di un altro pellegrinaggio che si compie all’interno dell’anima, è il percorso verso la purezza della fede custodita nel cuore, verso la pace dello spirito, è il segno della metanoia (conversione), è il cammino verso la destinazione ultima, non solo verso la Gerusalemme storica, terrena. Il pellegrinaggio è rivolto verso la Gerusalemme celeste, la città santa, la città di Dio, di cui parla l’Apocalisse.

In una miniatura su pergamena, della prima metà del sec. IX, S.Giovanni e un angelo sono davanti alla Gerusalemme celeste, che l’angelo si accinge a misurare con una canna (Ap 21,15). L’Apostolo tiene nella sinistra un rotolo (Ap 1,3). La città, di forma circolare, è composta di 12 torri terminanti a cupola. È stato segnalato il rapporto tra la raffigurazione della Gerusalemme celeste e la contemporanea architettura delle chiese a portico dell’età carolingia. (cfr. Catalogo, n.25, p.162, in AA.VV., La Gerusalemme celeste, Vita e Pensiero, Milano 1993).

L’autore dell’Apocalisse scrive: “E mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scendeva dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. La città è cinta da un grande e alto muro con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele” (21,10-12). Commenta il Card. Martini: “Gerusalemme è terrestre e celeste al tempo stesso, è la chiesa e il cuore di ogni fedele. È per questo che in Gerusalemme l’arte cristiana ha rintracciato tutti i segni e gli atti della salvezza” (La Gerusalemme celeste, cit., Prefazione. p.5).

Di questa città di Dio sono simbolo tutte le chiese cristiane: nella struttura architettonica, nell’orientamento (questo soprattutto durante i primi secoli), nelle decorazioni. Come esempio, si può vedere il mosaico, del V secolo, nell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore a Roma, che raffigura la Gerusalemme celeste; o il catino absidale della chiesa di Santa Pudenziana a Roma (sempre del V secolo) che raffigura Cristo e gli apostoli nella Gerusalemme celeste; o l’arco absidale della Basilica di San Vitale a Ravenna (VI secolo). Venivano spesso affiancate o messe a fronte Gerusalemme e Betlemme, come nel mosaico di Santa Maria Maggiore che abbiamo appena visto, in cui ai due lati dell’arco trionfale sono raffigurate le due città, ognuna con sei pecorelle davanti alle mura, che rappresentano gli apostoli.

Sono frequentissimi non solo i riferimenti generali, ma anche le citazioni precise dell’Apocalisse: nei mosaici, nei reliquiari, nelle miniature, negli affreschi, nelle pale d’altare viene spesso rappresentata la città di pietre preziose, circondata da mura quadrate, con dodici porte, con l’Agnello. E spesso in una stessa raffigurazione sono rappresentati i caratteri e i simboli della città dell’Apocalisse e il ricordo storico dell’edicola dell’Anastasis.

In varie mappe del XIII secolo si può vedere raffigurata Gerusalemme come umbilicus. Gerusalemme è vista come centro del mondo: il segno di centro, di “Paradiso”, di “ombelico” cosmico è fondamentale nella rappresentazione di questa città. La circonferenza che racchiude la città è letta metaforicamente come un segno protettivo, che indica un hortus conclusus verso cui si orienta tutta la realtà fisica e spirituale (cfr.G.Ravasi, La città si chiamerà JHWH shammah, là è il Signore, in La Gerusalemme celeste, cit., p.40). Anche Dante nella Divina Commedia considera Gerusalemme come il centro del mondo abitato.

Ho parlato della “Gerusalemme terrena” e della “Gerusalemme celeste”. Adesso vi parlerò della “Gerusalemme traslata” o “sostitutiva”. Come nelle chiese la “Biblia pauperum” costituita dagli affreschi, serviva agli analfabeti perché attraverso la pittura potessero leggere le storie bibliche, così per chi non poteva, per ragioni varie, andare fisicamente a Gerusalemme, c’era la possibilità di vedere, in sostituzione, qualcosa che ricordasse i luoghi santi: potevano essere chiese intere costruite a imitazione del Santo Sepolcro, oppure pitture, disegni, capitelli, reliquiari, reliquie, come abbiamo visto.

Nel corso del Tre-Quattrocento, in seguito all’avanzata dei Turchi nell’Europa centrale, i viaggi verso Gerusalemme diventarono sempre meno frequenti, perché si dovevano compiere per mare ed erano dispendiosi. Roma, con i giubilei, aveva poco a poco acquistato una posizione di primo piano come meta di pellegrinaggi. E cominciò ad affermarsi l’idea che, senza affrontare i pericoli del viaggio si poteva trovare Gerusalemme (oltre che all’interno della propria anima, come dicevano i mistici) anche in luoghi sostitutivi, dove si potevano venerare reliquie che dalla Terra Santa erano state portate in Occidente o vedere oggetti e visitare santuari che si ispiravano alla Gerusalemme terrena o celeste. Si tratta di una Gerusalemme sostitutiva, che venne definita Hierusalem traslata.

Come ci ha fatto vedere Mons. Verdon nella sua ultima lezione sui Giubilei e l’arte, nel 1550 fu pubblicata, a cura di un frate cappuccino di Catania, Matteo Selvaggio, una guida al Giubileo. Questo frate distingueva tra Gerusalemme “terrena” e “mistica”. Parlava anche di Hierusalem traslata, cioè trasferita, sostitutiva, riferendosi a un dato di fatto ormai evidente a tutti: Roma era una Gerusalemme sostitutiva, per la Scala Santa, per le reliquie degli apostoli, per i tanti monumenti che si ispiravano a Gerusalemme e per essere la meta del Giubileo. Ma anche altre località potevano avere il carattere di “Gerusalemme sostitutiva”. E qui parliamo del Sacro Monte di San Vivaldo.

 

Angela Crucitti D’Avanzo

(1. continua)

.

.