Koinonia Ottobre 2019


COSA CI HA DAVVERO PROMESSO IL SIGNORE?

 

In mezzo allo sterminato numero di opinioni e interpretazioni - rese ancor più confuse e indigeste dalla rete mediatica che ci costringe a distorsioni quotidiane su tutto ormai, dunque anche sulla figura e le parole di Gesù - al credente appare doveroso chiedersi: ma dov’è l’essenziale in quell’uomo di Nazaret, lo specifico del suo messaggio, dal quale la fede non può prescindere, mai, se vuol rimanere tale? C’è tanto bisogno di ritrovare un respiro di serietà e di autentico pensiero per salvaguardare qualcosa, un rimasuglio di speranza viva non corrotta dal tempo e dalle chiacchiere.

La fede riguarda la vita, è qualcosa che ci afferra nel profondo fino a inquietarci: gente che metteva il mondo in agitazione erano “quei tali” che annunciavano le promesse cristiane durante la prima ora (At 17,6). Mentre a caratterizzarci ormai, nell’era delle imprese tecniche e della fretta, è la superficialità, il vuoto delle parole, la debolezza del pensiero, la mancanza di convincimento e passione.

Non si vuole qui essere fondamentalisti - Dio ce ne liberi - ma semplicemente dare un fondamento al nostro credere. Stancò di brutto ad un certo punto Ignazio Silone quello stare con gente che diceva di attendere la venuta del loro Signore e la risurrezione dei morti con la stessa indifferenza con cui si attende il tram. Ignoranza e banalità nella fede sgomentano, soprattutto quando serpeggiano in chi si sente militante e religioso con diritto d’imporsi alzando i toni, dimenticando quell’umile anelito senza il quale non si può essere capaci di pescare nel fondo delle proprie convinzioni di fede con timore e tremore, fino a considerare gli altri superiori a se stessi, come insegnava Paolo invitando tutti ad abbandonare ogni interesse di bottega per seguire invece l’esempio dell’umile Messia di Nazaret, colui che è sprofondato negli abissi dell’impotenza e della sconfitta guardandoci con volto insanguinato dal basso, schiacciato dal peso della croce.

Lì è perciò il “fondamento”, in una fede viva e pensosa, non altrove, è da lì che si deve spiccare il salto, se si vuol intravedere qualcosa di ciò che ci è stato promesso da millenni e che non ha mai ancora visto la faccia della terra; lì è la “prova” di ciò che ancora non si vede, e che pure chi crede desidera, con tutte le forze, di vedere (Eb 11,1). Desiderio sempre più difficile da coltivare per i credenti del tempo ultimo i quali, proprio come gli operai della parabola reclutati alla fine del giorno, lungi dal ricevere ricompensa per il lavoro svolto, è paga di misericordia che riceveranno per il peso della lunga attesa, quello di chi si trova costretto ogni volta a dire al suo Dio: “Credo, aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24). Questo dev’essere il motivo per cui Gesù dubitò, ad un certo punto, di trovare ancora fede sulla terra al suo ritorno.

Ma cosa il credente è chiamato a credere - sebbene andando come a tentoni - di cosa deve essere assolutamente convinto, su cosa deve puntare e scommettere tutto, persino la vita se necessario? Poiché senza profonda convinzione, senza un punto solido sul quale fare leva (un “fulcro” direbbe Kafka), nulla si potrebbe degnamente sperare, e tutti prima o poi si entrerebbe in quel pacifico vivacchiare di chi si riserva un posticino tranquillo per sé soltanto, con ‘pace e sicurezza”, e mettiamoci pure anche benessere e figli ben sistemati.

Ma se con colpo deciso di reni riuscissimo a volgere, da credenti – barcollanti quanto si vuole, ma credenti – il cuore a ciò che generazioni di testimoni ci hanno tramandato, a ciò che la rivelazione continua a suggerire come verità che viene da fuori di noi, dal Dio che manda profeti e infine il Figlio stesso ad annunciarla, allora noi potremmo, forse, ancora volgere il cuore e lo sguardo a ciò che il Signore Gesù ci ha promesso, ai bisogni veri dei milioni di bambini che in ogni istante soffrono muti sulla faccia della terra, desiderosi che il loro “Amico” si faccia vivo con la sua giustizia una buona volta. Una questione delicatissima quella delle cose ultime, che subito sfuggono se seppellite sotto troppe altre cose, o se ridotte alle categorie del mondo, dello sviluppo autonomo e tracotante dell’uomo che progredisce e dimentica la chiamata che viene da Dio. Una chiamata simile a quella che il padre della fede ebbe l’ardire di ascoltare così seriamente da condurre sul Moria il figlio Isacco pronto a scannarlo. È proprio “mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra” che quanti hanno a cuore la promessa delle cose ultime si risollevano e alzano “il capo” percependo come sia proprio quello il tempo in cui la loro “liberazione è vicina” (Lc 21,26-28).

Ecco cosa Gesù invitava a cercare prima di tutto, considerando il resto semplice aggiunta, ecco cosa aveva in cuore, sempre, durante il suo parlare ai discepoli e alle folle: le cose ultime. Soprattutto durante l’ultima cena, quella che richiamava con forza la Pasqua, la festa in cui Israele da sempre celebra promessa e liberazione, ma anche il momento in cui tutti dovevano sapere come quella fosse, appunto, l’ultima cena.

Aveva il cuore in subbuglio quella sera Gesù, quando il buio fitto e il Getsèmani lo aspettavano, quando in ogni istante su di lui cadeva il presentimento di quello che stava per accadergli. Un presentimento che soltanto chi suda sangue e sa di essere abbandonato da tutti riesce a provare, quando si trema di paura, il dolore spacca il cuore e gli amici sono là che dormono beati anziché vegliare per farci compagnia: chi ne ha provato anche soltanto po’, magari in un letto d’ospedale, sa quanto è terribile una solitudine come quella. Gesù stava per entrare nel vortice dell’infelicità e della sventura e, come ben sapeva la Weil, “eccetto coloro nella cui anima Cristo trionfa completamente, tutti gli uomini disprezzano più o meno gli infelici, benché quasi nessuno abbia coscienza di questo disprezzo” che, insieme all’odio e allo schifo, alla fine “si ritorcono contro lo stesso infelice, penetrando nel cuore della sua anima” (L’amore di Dio).

A pochissimi è dato di toccare quel che Gesù ha patito sprofondando nell’abisso chenotico, e certo lontana anni luce ne è la massa dei praticanti che assiste indifferente alle celebrazioni del Venerdì santo, senza più nulla percepire di quel grido che Gesù ha lanciato verso il cielo prima di morire, di quella domanda urlata alla meno peggio in lingua aramaica dal patibolo a Dio. Sì, gli uomini avrebbe potuto capirli Gesù - egli ben conosce quel che fin dal principio alberga nei nostri cuori sfuggenti e ottusi - ma Dio, perché anche Dio aveva abbandonato il Figlio appeso al “legno” in quell’ora maledetta (Gal 3,13)? Perché non gli ha risposto in qualche modo?

Cosa dunque ancora sperare sulle orme di un uomo morto così, solo, fallito e senza risposte? Dove trovare qualcosa di quel che fece muovere le viscere al centurione che proprio di fronte a un modo così disperato di morire disse: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!” (Mc 15,39)?

L’evangelista Giovanni si decise da parte sua per un audacissimo appiglio teologico, mettendo in bocca a Gesù quel “Prima che Abramo fosse Io Sono” (8,58), oppure: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo allora saprete che Io Sono” (8,28); agganciandosi così all’indicibile Nome che il Dio della promessa e della liberazione rivelò a Mosè dalle spine che ardevano senza consumarsi, segno dell’amore che egli nutre per le sue creature, un amore che arde e non si consuma, un amore che resterà in eterno, accada quel che accada. Non apparve forse per questo YHWH tra i rovi, per mostrare che anch’egli soffre col suo popolo in esilio, come dice un famoso midrash? Sempre una scheggia di fuoco tra le spine è l’amore, in lotta con le forze della gelosia e della morte. È il Cantico soprattutto a dirci questo.

Ed è proprio lì, nell’ora del commiato, mentre cenava coi suoi amici, che possiamo trovare tracce di speranza duratura, la nostalgia che stringeva il cuore del Messia quando, dopo avere spezzato il pane e offerto il vino, quale suo corpo e suo sangue, disse: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (Mt 26,29). Questa, non altra è la promessa: rivedersi, ritrovarsi di nuovo attorno a un bicchier di vino tra amici, compresi noi che non lo abbiamo mai ancora visto, pur avendo magari qualche volta desiderato di toccarne, come Tommaso, le piaghe, quei segni che dicono il prezzo che egli ha pagato per averci amato in questo modo.

“Guardate, frati, l’umiltà di Dio”, diceva Francesco di fronte al pane eucaristico (Fonti francescane, 221). Cristianesimo è far stare insieme piccolezza e grandezza, gloria e umiltà, potenza e impotenza di Dio: mai, come nel Cristo, Dio si fece così umile, umiliato e inerme - agnello mansueto condotto al macello - e mai ha promesso cose tanto grandi, impossibili, ultime, quelle che solo la follia della fede può continuare a credere: la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà, cieli nuovi e terra nuova, leone e capretto che pascolano assieme.

Di questa promessa va atteso il compimento, giorno dopo giorno: là rivedremo i nostri cari che la “nemica” ci ha strappato via a tradimento, là il Signore ci asciugherà le lacrime dagli occhi, consolandoci con gesti di inimmaginabile tenerezza, come quello di mettersi il grembiule per servirci a tavola (Lc 12,37).

 

Daniele Garota

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