Koinonia Ottobre 2019


Un racconto di Lino Addis*

IL DONO

 

Quel turno rimase per sempre nella memoria di Anna finché visse. La vecchietta che era sdraiata nella lettiga dell’ambulanza, sembrava un uccellino bagnato nel nido e quella mano ossuta dalle dita sottili e fredde come ghiaccioli che si protendeva dalle coperte, sembrava proprio volesse rappresentare una richiesta d’aiuto o di conforto. Anna faceva volentieri i turni d’urgenza come barelliera sulle ambulanze della Misericordia, da quando si era iscritta al sodalizio. Erano già due anni che partecipava regolarmente alle attività sia di volontariato nell’ambito dei servizi di pronto soccorso che estemporanee, specie quelle in favore di  bambini ed anziani. Quella volta però qualcosa si era mossa “dentro”, qualcosa di rilevante, molto più importante. Non era solo compassione, non era “fare ciò che è giusto”  né  semplicemente  “fare del bene”, era qualcosa di molto più grande di lei che se prima la sovrastava, tutto sommato da una certa distanza, adesso era entrata in lei. Mentre l’ambulanza procedeva verso l’ospedale, Anna fece una cosa che non aveva mai fatto. Prese delicatamente quella mano le cui dita altrettanto delicatamente si chiusero mentre l’anziana sembrava assopita,  anche se si capiva bene che non lo era. Quel flusso benefico che Anna aveva sentito, era passato fra le loro mani. Anna continuò a tenere la mano dell’anziana camminando accanto alla barella anche quando fu scaricata dall’ambulanza con poche e sicure manovre dall’autista e spinta nei corridoi del pronto soccorso fino ad un box dove fu sistemata accanto ad un’altra lettiga sulla quale c’era un altro anziano, con un piede fasciato. Prima di lasciare la mano della donna la accarezzò lievemente con l’altra e dalle coltri ove era seminascosta la donna si udì un flebile “grazie”. Quando la paziente fu affidata ai sanitari, Anna si voltò per l’ultima volta a guardarla e si accorse che due occhi come punte di spillo la osservavano dal lettino,  senza perderla di vista  un solo attimo. Alzò una mano in un breve cenno di saluto e insieme ai compagni si avviò fuori del pronto soccorso per risalire sulla grande ambulanza nuova fiammante del sodalizio. Sentiva che da quel momento in poi il servizio  sarebbe stato svolto da un’Anna diversa. Nel turno successivo il suo equipaggio intervenne per soccorrere un bambino che cadendo dalla bicicletta si era procurato probabilmente una frattura ad un piede. Il bambino, che aveva otto anni era tremendamente spaventato ma la madre e il padre lo erano ancora di più. Si capiva che era la prima volta che avevano a che fare con una situazione di emergenza in famiglia ed avevano perso completamente la testa.  Il bambino con un piede avvolto in una borsa di ghiaccio fu adagiato sulla lettiga e piangeva disperatamente mentre la madre era sull’orlo di uno svenimento. Il padre più che allontanarsi, scappò letteralmente, perché si capiva che non tollerava più la vista delle sofferenze del figlio, per andare a prendere l’auto e seguire l’ambulanza all’ospedale. La madre salì sull’ambulanza, inciampando sulla soglia del pianale tenendo per una mano il piccolo che continuava a piangere inconsolabilmente e quando la lettiga fu posizionata nel suo alveo, anche la madre si lasciò andare ad un pianto dirotto: ”Chissà cosa avrà quel piedino! Non posso vederlo soffrire così! Mi sento svenire!”. Anna fece subito annusare alla donna, che si era letteralmente accasciata su un seggiolino accanto alla barella, un prodotto che portava sempre con sé, che con il suo aspro odore contribuì a mantenerla lucida impedendole di svenire.  Una volta giunti al pronto soccorso, quando l’autista si portò sul retro dell’ambulanza e aiutò il secondo barelliere ad aprire il doppio battente per scaricare la lettiga,  rimase per una attimo basito guardando la scena che si aprì davanti ai suoi occhi: Anna era in piedi e teneva una mano del bimbo che non piangeva più ed era quasi assopito, mentre aveva poggiata l’altra mano su una spalla della mamma che pareva riposasse serenamente anche lei e non appariva più sconvolta per le sofferenze del piccolo. Anna capì che sebbene non fosse né un medico, né un’infermiera o un autista, poteva ugualmente dare qualcosa di importante a tutte le persone che venivano soccorse. Lei ci credeva. I compagni e le compagne la vedevano compiere questi gesti apparentemente banali e semplici e molti capirono, anche se nessuno fece mai commenti. Su una cosa però erano tutti d’accordo, anche i volontari dal carattere apparentemente più ruvido e meno incline all’emotività: tutti avevano piacere di avere con loro Anna. Qualche tempo dopo, una sera scura con un tempo veramente infame, piovoso e ventoso, furono chiamati per un intervento difficile al quale partecipavano anche l’automedica del 118 e i vigili del fuoco. Un’auto con a bordo una coppia di giovani fidanzati si era cappottata e si temeva per la vita di entrambi. Anna salendo rapidamente sull’ambulanza insieme ai suoi compagni percepì una lieve palpitazione e capì che non era paura per ciò che avrebbero visto.  Chi aveva chiamato i soccorsi aveva un tono di voce inequivocabile: la situazione era molto grave. Partirono a sirene spiegate e dopo una decina di minuti giunsero sul posto dell’incidente dove era radunata una piccola folla tenuta a distanza da una pattuglia di carabinieri che avevano parcheggiato il loro mezzo di traverso sulla strada con i lampeggianti accesi. C’era un’auto semidistrutta e cappottata e si capiva perfettamente che prima di rovesciarsi si era schiantata su un robusto palo dell’illuminazione pubblica che nell’urto si era lievemente inclinato nel senso di marcia dell’auto. Davanti ad essa, sbalzato fuori dall’urto, c’era il corpo prono di una ragazza con la faccia sull’asfalto in una pozza di sangue, le braccia aperte come fosse in volo e le gambe che avevano assunto una posizione innaturale, come se le ginocchia fossero articolate al contrario. Dentro l’auto, piegato su se stesso e adagiato sul tetto schiacciato, in corrispondenza del posto di guida, un ragazzo con il viso sporco di sangue ed una mano dilaniata che si lamentava flebilmente. “Che casino!” disse Giuseppe, l’autista dell’ambulanza, che nella vita faceva l’operaio. “Lei è andata, si vede a un miglio e lui… quasi! Poveretti”. Salutarono con un cenno i due militari e in quel mentre arrivò l’automedica con il dottore che si avvicinò per primo alla ragazza assistito dall’infermiere autista carico di due zaini pieni di attrezzature. Dopo qualche minuto il dottore si girò verso di loro facendo un gesto inequivocabile che stava a significare che non c’era nulla da fare e chiedeva un lenzuolo per coprire la poveretta. Anna e Gianni, l’altro barelliere, andarono nell’ambulanza e presero il lenzuolo. Gianni poggiò una mano sull’avambraccio di Anna: “Mi fa impressione, avrà la nostra età!”. Anna poggiò la mano a sua volta sulla sua: ”Tranquillo. Lei riposa ormai”. Lui la guardò sconvolto ed insieme si avvicinarono al corpo. Anna aprì il cellophane che conteneva il lenzuolo dispiegandolo e ne passò un capo a Gianni. Insieme si chinarono e lo posizionarono sul corpo della ragazza. Quando stavano per coprirle la testa, Anna appoggiò delicatamente la mano sulla nuca della morta, coperta da capelli nerissimi trattenendola un poco. Gianni sussurrò: ”Perché la tocchi? Perché fai così?”. Anna sorrise e disse piano “Andiamo”. Andarono a posizionarsi accanto all’ambulanza in attesa di disposizioni, mentre i vigili del fuoco iniziavano le manovre per estrarre il ragazzo dall’auto, coordinati dal medico. Alla fine il ragazzo fu deposto sulla lettiga. Era in stato di forte shock, con varie fratture ma la sua vita non era apparentemente in pericolo. Fu caricato sull’ambulanza che partì con le sirene  e i lampeggianti accesi, seguita dall’auto medica. Il ragazzo si lamentava flebilmente. Gli avevano pulito la faccia dal sangue e medicato alcuni tagli che aveva sulla faccia e sul cuoio capelluto. Girò la testa mentre singhiozzava flebilmente fino ad incontrare lo sguardo di Anna che era seduta. Anna slacciò la sua cintura di sicurezza e si chinò sul ragazzo. Appoggiò la sua mano sulla sua guancia, quella priva di medicazioni. Il ragazzo chiuse gli occhi. “Patrizia è morta?” sussurrò. Anna avvicinò il viso al suo orecchio. “Si. Patrizia non ce l’ha fatta”. Anna tenne la sua mano sulla guancia del ragazzo che estrasse dalle coltri la mano illesa e prese quella che Anna gli aveva teso. Sottovoce lei disse: “La senti?”. Il ragazzo annuì lievemente. “Si, la sento. Grazie, grazie infinite”. Rimasero così fino all’arrivo all’ospedale.

Qualche sera dopo Anna era distratta da tante questioni. La madre che non stava troppo bene, il ragazzo che ultimamente era un po’ assente e molto preso dall’evoluzione delle sue vicende professionali. Anna arrivò al passaggio pedonale che aveva  percorso centinaia di volte. Cominciò ad attraversarlo pensando a tante cose che si affollavano nella sua mente e non si accorse di quell’auto sportiva che stava arrivando a forte velocità. Solo all’ultimo, il filo dei suoi pensieri si interruppe, neanche troppo bruscamente e voltò la testa alla sua sinistra. Fece appena in tempo a vedere due luci forti e violente e poi sentì un rumore come quando la risacca flagella i sassi sulla battigia. Le luci si affievolirono di colpo e scomparvero e al loro posto si accese un chiarore prima soffuso e poi sempre più brillante. Provò un senso di pace e istintivamente provò ad allargare le braccia che sentiva ma non vedeva. E poi udì molte voci che si sovrapponevano. Voci familiari, voci suadenti, voci a cui non sapeva dare inizialmente un volto. E cominciò a sentire anche un coro vagamente dissonante nel quale quelle voci confluivano e, cosa che la meravigliò alquanto, provò la sensazione che qualcuno di invisibile le stesse accarezzando i capelli, una guancia ed una mano e piano piano vide chi erano. Prima di provare una gioia infinita, vide distintamente il volto di un’anziana donna, di un bambino, e poi ancora di un anziano uomo, di un giovane padre, di un nonno e del suo nipotino e vide anche una ragazza della sua stessa età senza volto ed ancora ed ancora ed ancora…

 

Lino Addis

 

*L’amico Lino Addis ha pubblicato di recente la sua prima raccolta di racconti (Il gatto inverso e altri problemi, Roma, L’erudita, 2019). Ci fa dono di questo suo nuovo racconto, che ci riporta al senso e allo spirito di quanto si propone Koinonia come strumento di comunicazione e di solidarietà in fieri, sul piano interpersonale e come ricerca umana e cristiana della verità. 

In una sua intervista apparsa su “La Nazione” del 2 maggio 2019 egli parla così del suo libro e della sua esperienza di scrittore: “Gli undici racconti sono uno molto diverso dall'altro: si tratta di una specie di compendio di quello che amo. Il racconto 'Il gatto inverso', che dà il titolo al libro, è una metafora di tutto ciò che ci stupisce e non capiamo, che ci destabilizza e ci costringe ad un salto di comprensione. Ho un motto nello scrivere che è: 'Perché no?' che è il contrario di: 'Quando mai!'. Per me, scrivere è un esercizio di libertà e non voglio rinchiudermi in 'cancelletti', in un genere, in un recinto. Scrivo ascoltando musica e attingo dalle mille ispirazioni che ho raccolto nel tempo: una parola, una situazione, un frammento di reale da cui sviluppare il racconto”.

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