Koinonia Febbraio 2019


I martiri di Algeria   

             

SIGNIFICATO ECCLESIOLOGICO

DI UNA BEATIFICAZIONE IN UN PAESE MUSSULMANO

 

L’8 dicembre scorso, a Orano, in Algeria, si è svolto un evento eccezionale, la beatificazione di 19 religiosi e religiose cattolici, assassinati fra il 1994 e il 1996. Sette di loro erano monaci trappisti; il loro rapimento e la loro morte hanno colpito l’opinione pubblica al punto che ne è stato fatto anche un film di gran successo mediatico, Des hommes et des dieux (in italiano Uomini di Dio). Anche se meno mediatizzato, Mons. Pierre Claverie, vescovo domenicano di Orano, era anche lui noto in alcuni ambienti per le sue parole coraggiose di fronte alla crescita dell’intolleranza islamista, ma anche di fronte alla violenza di Stato che vi si contrapponeva. Gli altri undici erano religiosi e religiose che avevano passato la loro vita in Algeria, impegnati spesso in compiti modesti di servizio ai più umili. Sono morti verso la fine di un decennio nero che ha visto fra 150.00 e 200.000 vittime nel paese. Così, quando il papa ha deciso la loro beatificazione e i vescovi algerini hanno espresso il desiderio che la cerimonia si svolgesse in Algeria, molti, anche all’interno della chiesa algerina, si sono chiesti se fosse una buona idea. Perché mettere in primo piano i “nostri” martiri quando tanti altri, altrettanto coraggiosi, sono morti nell’indifferenza generale? Non c’era poi il rischio che questa beatificazione di religiosi, uccisi in un paese mussulmano, riattivasse un’islamofobia già molto presente in Occidente, anche in ambienti cattolici, e stigmatizzasse una volta di più i mussulmani? Insomma, beatificare quei martiri cristiani, così pochi anni dopo la loro morte e farlo in Algeria, non era una cosa semplice. E’ questo d’altronde che ha ammesso spontaneamente, alla fine della celebrazione, il cardinal Angelo Becciu, Prefetto della Congregazione per la causa dei santi e inviato del papa per questa cerimonia: “Non posso nascondere che sono venuto con una certa inquietudine. Riparto stupito.” Cosa è successo dunque?

 

Cominciamo ricordando alcuni grandi  momenti di quei tre eccezionali giorni. Circa 600 membri delle famiglie dei martiri sono arrivati in Algeria,  membri sia delle famiglie di sangue che delle famiglie religiose (Padri bianchi, Trappisti, Domenicani, Fratelli maristi, religiose di diverse congregazioni). C’erano anche alcuni sopravvissuti: suor Chantal, Piccola suora del Sacro Cuore che è stata ferita, ma è sopravvissuta all’attentato che è costato la vita alla sua consorella Odette; padre Jean-Pierre, superstite di Tibhirine, venuto dal Marocco  e molti giovani delle varie famiglie religiose che venivano per la prima volta a raccogliere questa eccezionale eredità. All’areoporto di Orano,  tutti vengono accolti calorosamente: “Bienheureux, bienvenue, welcome”. Sotto buona scorta, gli invitati vengono trasportati in autobus  al loro albergo dove ognuno  trova in camera un cofanetto di datteri, offerto dal Ministro per gli Affari religiosi. Scopriremo poco alla volta quanto questa persona si è impegnata per la buona riuscita della cerimonia.

   La sera, una veglia di preghiera riunisce le famiglie e gli amici nella modesta cattedrale di Orano dove è sepolto Mons.Pierre Claverie. Due corali animeranno la serata: una corale cristiana degli studenti africani della diocesi di Orano e una corale sufi, venuta dalla Confraternita Alawwiya di Mostaganem, il cui capo spirituale, Cheikh Bentounès, è seduto in prima fila, vicino al Cardinal Becciu. La cattedrale è strapiena. Tutti fanno fatica a nascondere la loro emozione ascoltando la testimonianza dei sopravvissuti ai massacri: mons. Teissier ovviamente, ma anche suor Chantal e padre Jean-Pierre, monaco di Tibhirine, venuto dal monastero di Midelt, in Marocco, malgrado i suoi 95 anni: “Ho meditato a lungo – ci dice – la parola del vangelo: ‘Alcuni sono presi, altri lasciati’. Forse non ero ancora degno della grazia del martirio perché scopro che dopo 54 anni di vita religiosa, sono ancora al primo livello dell’amore”. Poi  parla la mamma di Mohamed Bouchiki, il giovane mussulmano di 21 anni morto con Pierre Claverie, suo amico. È con Anne-Marie, la sorella di Pierre; si tengono per mano come se l’amicizia tra i due scomparsi continuasse nel legame forte fra queste due donne, delle quali una abita a Sidi Bel-Abbès e l’altra negli Stati Uniti. Le parole sono trattenute, ma la vicinanza è intensa. Alla fine della serata, tutti, cristiani e mussulmani, vanno a deporre un lumino sulla tomba di Pierre Claverie, dove c’è sempre la foto del suo amico Mohamed. La loro amicizia è diventata oggetto di un lavoro teatrale al festival d’Avignone, Pierre e Mohamed.

 

Sabato mattina, 8 dicembre, è il gran giorno. La giornata comincia con un ricevimento delle famiglie nella grande moschea di Orano, dove avviene l’incontro con le famiglie di alcuni  dei 114 imam assassinati per essersi rifiutati di firmare delle fatwa che esigevano la morte degli stranieri e dei cristiani. L’accoglienza è solenne e insieme delicata: ognuno riparte con una rosa in mano. Questo sarà il tono dell’intera giornata.  Poi una funicolare ci porta al santuario di Santa Cruz che domina la città di Orano. Quel mattino c’è una luce eccezionale, un cielo azzurro senza nuvole come si può vedere solo d’inverno sul Mediterraneo. Questa luce è all’unisono con la gioia che abita i cuori. Decine di ufficiali algerini sono lì per assistere alla beatificazione: il delegato del Presidente della Repubblica, il Ministro degli Affari religiosi, il prefetto di Orano e molti altri. Numerosi ambasciatori di paesi esteri; più sorprendente una delegazione di una ventina di imam in vesti bianche.

 

Quando s’intona il canto “Trasalite di gioia, trasalite di gioia! Perché i vostri nomi sono scritti per sempre nei cieli” una gioia intensa ci inonda. Quel canto non era mai risuonato più a proposito. La gioia è lì, senza nuvole. E tuttavia, Dio sa che abbiamo pianto, sui nostri amici scomparsi, non solo i cristiani, su quell’Algeria fraterna di prima della guerra civile e che un giorno è sprofondata in una violenza che ha ucciso migliaia di innocenti. Con molta delicatezza il vescovo di Orano comincia con l’invitare l’assemblea ad alzarsi per un minuto di silenzio in memoria di tutte le vittime del terrorismo in Algeria. Un quarto dell’assemblea forse è composto di algerini mussulmani. Le nostre differenze qui sono abolite dal dolore condiviso e dal desiderio di fraternità di questa “umanità plurale, non esclusiva” che Pierre Claverie invocava.

 

Il resto della lunga celebrazione si svolge serenamente: bellezza dei canti, emozione di veder scendere lo stendardo con i ritratti dei nuovi beati, dove i nomi dei “nostri” martiri sono mescolati a quelli degli altri algerini, mussulmani, vittime anche loro della violenza degli uomini. Nel momento del bacio della pace, esplodono gli youyou delle donne algerine quando dei vescovi vanno a trasmettere la pace agli imam presenti. La sera, il Ministro algerino degli  Affari religiosi offre una cena ai membri delle famiglie. Il giorno dopo, sarà fatto tutto il possibile per permettere loro di recarsi nei luoghi in cui sono sepolti i loro cari, a Tibhirine, Tizi Ouzu, Algeri.

 

Al di là di questi molti segni di delicatezza, l’evento ha una portata sulla quale è bene riflettere. La chiesa carttolica di Algeria ha perso la maggior parte dei suoi fedeli al momento dell’indipendenza quando la maggioranza dei franco-algerini sono fuggiti dal paese nel panico dell’estate 1962. Grazie al suo coraggio e alla sua chiaroveggenza,  l’arcivescovo di Algeri, il futuro cardinal Duval, ha permesso alla Chiesa di restare, scegliendo di mettersi al servizio del popolo algerino. Per anni, i suoi membri hanno servito la popolazione con scuole, centri di salute, accoglienza degli handicappati. Poi, per il crescente nazionalismo algerino, la Chiesa ha dovuto diventare più discreta, abbandonare le proprie opere, scoprendo il ruolo di servo inutile. Al contrario delle chiese evangeliche americane, la Chiesa cattolica d’Algeria ha mantenuto la sua scelta di non fare proselitismo. Non ritiene suo dovere cercare di battezzare in un contesto politico e culturale in cui ciò sarebbe mal interpretato: come dissociare il cristianesimo dal passato coloniale francese in Algeria? Essa impara a essere “una Chiesa serva e povera”, nello spirito del Vaticano II. Riflette molto sulla sua missione di “Chiesa per un popolo mussulmano”,  secondo le audaci parole di mons.Henri Teissier, successore del cardinal Duval come vescovo di Algeri. Uomo di relazione, eccellente teologo, elabora con la sua Chiesa una riflessione su ciò che significa “fare segno”, più che “fare numero”. Da questo punto di vista, la Chiesa d’Algeria è una specie di laboratorio di quello che la Chiesa universale deve vivere in molti contesti post-cristiani. In questo essa è in profonda armonia con l’intuizione di papa Francesco che si augura che la Chiesa sia “ in uscita”, e si definisca non in rapporto a se stessa, ma in rapporto al mondo al quale è inviata. La possibilità di organizzare la beatificazione di 19 religiosi crisitani in un paese mussulmano e l’impegno delle autorità del paese perché questa beatificazione riesca bene, sono il segno che il messaggio è stato compreso dalle autorità algerine e da molti algerini che hanno voluto essere presenti alla cerimonia dove hanno espresso la loro gioia. Nessuno dimentica che quei 19 martiri sono morti perché hanno scelto di restare in Algeria, liberamente, malgrado i rischi, per significare che il loro amore per l’Algeria non era occasionale o opportunista. Pierre Claverie l’ha detto in modo commovente nella sua ultima omelia pubblica:”Noi siamo qui a causa di quel Messia crocifisso. Per niente altro e per nessun altro! Non abbiamo nessun interesse da proteggere e nessuna influenza da mantenere. Non siamo spinti da chissà quale perversione masochista o suicida. Non abbiamo nessun potere, ma siamo qui come al capezzale di un amico, in silenzio, per stringergli la mano e asciugargli la fronte. A causa di Gesù, perché è lui che soffre qui, in questa violenza che non risparmia nessuno, crocifisso nuovamente nella carne di migliaia di innocenti. Come Maria ai piedi della croce su cui Gesù muore abbandonato dai suoi e deriso dalla folla. Non è forse essenziale per il cristiano essere presente in questi luoghi di desolazione e abbandono?”

 

L’altro messaggio riguarda il dialogo interreligioso. Se non hanno cercato di convertire, quei 19 beati hanno testimoniato Cristo con la loro carità, poi col dono della loro vita. Ma hanno anche cercato di essere sensibili alla presenza dello Spirito di Dio nel cuore di molti mussulmani. Da questo punto di vista, il testamento di Christian è di una chiarezza luminosa: “La mia morte evidentemente sembrerà dare ragione a quelli che superficialmente mi hanno dato dell’ingenuo o dell’idealista. Dicano pure quello che vogliono! Ma quelli devono anche sapere che finalmente sarà soddisfatta la mia più lancinante curiosità. Potrò infatti finalmente, se piace a Dio, tuffare il mio sguardo in quello del Padre per contemplare con Lui i suoi Figli dell’islam, così come egli li vede, tutti illuminati dalla gloria di Cristo, frutto della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito la cui gioia segreta sarà sempre di instaurare la comunione e ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze. Questa vita perduta, totalmente mia e totalmente loro, rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella GIOIA, a dispetto di tutto”. La Lumen gentium diceva già che lo Spirito è presente al di fuori dei limiti visibili della Chiesa. I beati di Algeria ci invitano a farvi più attenzione.

 

 Jean Jacques Pérennès op

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