Koinonia Febbraio 2019


La parola a Daniele Garota

 

 “NELLA PROSPERITÀ L’UOMO NON COMPRENDE” (I)

 

Poche immagini contrastano oggi tra loro quanto quelle che, da una parte ci mostrano i cadaveri di chi non ce la fa e annega dopo avere desiderato di sbarcare sulle nostre coste e, dall’altra, quelle di gente che dai nostri paesi ricchi desidera invece volare a prendersi beatamente il sole su coste esotiche di rara bellezza, guardandosi però bene dall’aprire gli occhi su come vivono i poveri in mezzo alle baracche lì a due passi da loro.

 

Inutile nascondersi dietro il dito: sono e saranno sempre di più i poveri che bramerebbero frugare nelle nostre pattumiere di casa mentre su ognuno di noi incombe il rischio di essere come il “ricco epulone”, che non s’accorse nemmeno di Lazzaro misero e piagato che giaceva davanti alla sua porta con occhi che fissavano il suo superfluo.

 

Noi siamo infelici perché ci manca sempre qualcosa che altri hanno e noi non abbiamo. Eppure possediamo ogni bendiddio  per sfamarci e sfogare le voglie dei nostri palati, abbiamo strumenti per alleviare il caldo e il freddo, per affrontare i nostri malanni, per viaggiare veloci e comunicare con chi vogliamo. E alla fine è proprio questo a impedirci di metterci nei panni di chi non ha nemmeno da mangiare ed è costretto a vivere ogni giorno con quello che noi spendiamo per un gelato. Ed è ancora questo a renderci infelici dietro maschere di finta allegria: noi non desideriamo più avere figli e i figli che abbiamo cercano droghe, con stomaco che riempiono troppo o che lasciano del tutto vuoto vomitando il cibo per nausea o per obbedienza a quegli assurdi modelli che il nostro mondo gli ha messo in testa: al gran piatto della bilancia colmo di bambini dal ventre gonfio di fame noi opponiamo quello degli obesi e degli anoressici.

 

“Nella prosperità l’uomo non comprende, / è simile alle bestie che muoiono” dice il Salmo (49,21). Ma nella parabola evangelica è detto che la prosperità rendeva  il ricco meno sensibile degli animali, perché lì almeno i cani le ferite le leccavano al povero, lì le bestiole si erano accorte di quella carne piagata in pena (Lc 16,21).

 

Fino a ieri ci si poteva giustificare dicendo: non lo sapevo. Ora no, ora siamo tutti spettatori dell’immane afflizione, e tutti sappiamo di poter essere dente di quella ruota che stritola nella povertà e nell’ingiustizia una gran moltitudine di esseri umani: le manine di uno di quei settantatre milioni di bambini che lavora come uno schiavo e non ha ancora dieci anni, potrebbero aver costruito a prezzo di fame le scarpe che abbiamo ai piedi. Noi apparteniamo, per il solo essere nati qui piuttosto che là, a quella fascia dei pochi che stanno prendendo quasi tutto lasciando ai molti qualche briciola d’avanzo per puntargli poi contro una pistola se dovessero azzardarsi ad andare oltre il muto lamento. Ma i poveri che mettono più paura ormai - dicono i più sensibili che hanno avuto il coraggio di andarli a vedere da vicino - non sono quelli dallo sguardo rabbioso, bensì i poveri tra i poveri, quelli che in America Latina chiamano desechables, quelli cioè che si possono abbandonare come rifiuti: i loro occhi gonfi e vitrei che fissano il vuoto senza più riuscire a vedere nulla, terrorizzano.

 

Se le notizie e le immagini di gente che muore di fame o di bambini distrutti da abusi di ogni genere durano più di qualche minuto, noi non ci mettiamo a piangere, ma cambiamo canale in cerca di qualcosa di gradevole, di un gioco a premi magari, con coreografia di ragazze sciocche che sculettano seminude e sorridenti. Di tanta durezza di cuore ci potrà essere chiesto conto un giorno: la responsabilità non riguarda soltanto il fare, riguarda anche il sentire, i movimenti del nostro pensiero e del nostro cuore. Si può non essere nella possibilità di fare qualcosa per i più sfortunati di noi, a volte occorre pure molta umiltà per capirlo, ma abbiamo un cuore e quello lo dobbiamo far lavorare, perché ci esca un grido muto almeno da dentro, una fame e una sete di giustizia, un groppo alla gola che ci tenga svegli di notte anche solo per dire: “O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18,13).

 

“L’ignoranza della povertà – diceva Léon Bloy – sembra abbrutire più dell’ignoranza di Dio”. E pensare che ci sono “bambini ricchi condannati dalla loro nascita e dalla loro educazione a non sapere mai cosa sia la povertà”1. Ma dai giorni in cui egli scriveva le cose sono peggiorate di molto in tal senso: a lui lo scenario si prefigurava appena, mentre noi ci siamo dentro fino al collo. Da troppo tempo noi genitori abbiamo dimenticato quel preciso dovere di cui parlava Edoardo De Filippo: rendere la vita difficile ai propri figli. La facilità li ha resi infelici e vuoti: i dati ci parlano di ragazzi sempre più chiusi nel loro egoismo, schiacciati in un’avidità dell’istante senza memoria e senza speranza.

 

D’altra parte non si può nemmeno dire che siamo meno sensibili di ieri. A noi basta infatti molto meno per impressionarci e siamo infinitamente pietosi nei confronti degli animali per esempio. Non sarà allora il nostro fuggire davanti all’orrore causato da un eccesso di sensibilità, oppure da una sovrabbondanza di notizie in cui si parla di troppe creature che vivono nel dolore? Non è facile sopportare oltre un certo limite la realtà. “Se ciò verso cui si dovrebbe auspicabilmente reagire diventa smisurato, allora si inceppa anche il nostro sentire… Il troppo grande ci lascia freddi… Diventiamo degli ‘analfabeti emotivi’”, ha scritto Anders occupandosi della tragedia di Auschwitz2.

 

Ma forse c’è altro ancora, perché la natura umana è davvero una voragine. Oltre che indifferenza il sazio può persino sfoderare un disprezzo sottile e ragionato davanti a chi sta peggio, l’arrogante compiacersi di chi dice: è bene che tocchi a lui e non a me. È come se il povero dovesse addirittura sentirsi in colpa di essere tale. Pensare che il povero meriti il disprezzo alleggerisce di molto la coscienza al ricco. Qualcosa di simile si riscontra anche nel regno animale: “le galline si precipitano a colpi di becco sulla gallina ferita – dice Simone Weil – ed è un fenomeno meccanico come la gravità… Eccetto coloro nella cui anima Cristo trionfa completamente, tutti gli uomini disprezzano più o meno gli infelici, benché quasi nessuno abbia coscienza di questo disprezzo”3.

 

Si possono fare molti discorsi, analisi, proposte sulle grandi ingiustizie sociali. Ma il cristiano è tenuto prima di tutto a testimoniare ciò che dice il Vangelo e ad avere a cuore le sorti di coloro che soffrono ovunque e in ogni momento sulla faccia della terra. “I profeti d’Israele sono stati come eruzioni di disgusto, che ancora oggi infastidiscono la nostra coscienza e ci esortano a essere sensibili al dolore degli altri”4. Saremo giudicati sulla nostra capacità di farci carico del dolore del prossimo: è la carità di cui parla Paolo che conta, la capacità che ha il cuore di soffrire con coloro che soffrono. “È terribile cadere nelle mani del Dio vivente!” (Eb 10,31): Dio giudicherà dal basso, raccogliendo le urla dei poveri che gridano a lui da sempre.

 

Il “ricco epulone” non aveva fatto nulla di male: magari faceva anche le elemosine, e di sicuro era sensibile alle sorti dei suoi fratelli. Mandate Lazzaro a dire loro come stanno le cose - implorava - dica loro che è tremendo il non poter ricevere nemmeno il ristoro di un dito bagnato sulla lingua che brucia, almeno essi si salvino da questa fiamma che divora, da questo abisso che impedisce di rimediare. No - gli viene risposto – hanno già la Parola che Dio ha mandato loro. È vero - risponde lui - ma quella è difficile da ascoltare, mentre un morto che risorge lo vedranno e ne resteranno impressionati. No – ed è conclusione terribile questa, che tutti ci interpella – “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16,19-31). Un altro Lazzaro infatti risusciterà, uscirà dalla tomba, ma anziché credere, i ricchi e i potenti del sacro proprio a motivo di quel prodigio decideranno di mettere a morte Gesù (Gv 11,53).

 

“Ti parlai al tempo della tua prosperità, / ma tu dicesti: ‘Non voglio ascoltare’” (Ger 22,21). A questo versetto del profeta fa eco il salmista prendendo di mira quelli che “confidano nella loro forza, / si vantano della loro grande ricchezza” (Sal 49,7). Ecco cosa impedisce al cuore di vibrare. Il rabbi chassidico Mendel di Kock diceva che quella del serpente condannato a strisciare per terra nutrendosi di polvere era una maledizione spaventosa, perché non avrebbe più saputo cos’è la fame: “Non mancare di nulla è la peggiore maledizione!”. L’uomo quando è tranquillo e sta bene non ascolta, non comprende, e questo è il dramma di Dio, perché egli, da parte sua, ascolta e comprende il grido del povero, fino a soffrire con lui. Per questo ci vorrebbe come lui, accanto a lui. Noi non crediamo in un concetto metafisico o dogmatico, ma in un Dio che desidera essere amato e che ci ama con tutte le forze. Dio non è qualcuno da definire, ma qualcuno da ascoltare, da amare. Dio vuole che si desideri la sua compagnia, la sua gioia, il suo Regno. Il Dio biblico ha “un rapporto intimo e personale con il mondo”, è toccato da ciò che nel mondo accade; “eventi e azioni umane suscitano in lui gioia o dolore, piacere o ira… Dio non se ne sta fuori dal raggio della sofferenza del dolore umano. Egli è personalmente coinvolto, perfino influenzato dalla condotta e dal destino dell’uomo”, naviga, per così dire, nella nostra stessa barca, e qualche volta è persino costretto a seguirci con dolore nei nostri passi, un po’ come fa un padre col figlioletto a cui deve insegnare a camminare. Così, “in un certo senso, l’uomo è attore e non solo un destinatario”5 .

 

Daniele Garota

(1.  continua)

 

1 Léon Bloy, Il sangue del povero, SE, Milano 1987, p. 43.

 

2 Günter Anders, Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze 1995, pp. 33-34.

 

 3 Simone Weil, L’amore di Dio, Borla, Roma 1979, p. 166.

 

 4 Abraham Heschel, L’uomo non è solo, Mondadori, Milano 2001, p. 223.

 

 5 Abraham Heschel, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981, pp. 8-12.

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