Koinonia Gennaio 2019


Il grande teologo della speranza, Jürgen Moltmann, 92 anni, condivide in questa intervista cosa l’ha fatto e lo fa vivere.

 

Che cosa possiamo (ancora) sperare?

 

Può citare qualche momento essenziale della sua «esistenza teologica»? Come è diventato il teologo che è oggi?

A sedici anni, nel 1943, sono stato arruolato nell’esercito tedesco. Venivo da una famiglia non religiosa. Avevo seguito il catechismo con indifferenza. Con un battagliano della difesa antiaerea sono andato nel centro della città di Amburgo e ho assistito alla distruzione della città nel luglio del 1943. 14.000 persone sono perite dotto il fuoco. È allora che ho gridato per la prima volta verso Dio: «Dio mio, dove sei?«Nella fine – l’inizio».

» Nel 1945, sono stato fatto prigioniero e ho perso ogni speranza, fino al giorno in cui un cappellano mi ha offerto una bibbia. Ho letto i salmi di lamentazione dell’Antico Testamento e il racconto della Passione di Gesù. E ho saputo: «Ecco un uomo che ti comprende meglio di tutti gli altri». Il Cristo abbandonato da Dio ha portato soccorso al prigioniero di guerra abbandonato da Dio. Durante la mia prigionia, ho cominciato a studiare la teologia e a vedere se questo conduceva da qualche parte.
Ho studiato la teologia al Norton Camp, nella contea di Nottingham in Inghilterra: lì c’era una scuola di formazione teologica circondata da filo spinato. C’era la stessa cosa in Francia, a Moltepellier, per i prigionieri tedeschi. In seguito ho studiato la teologia a Gottinga. Volevo divenire pastore nella Repubblica Democratica di Germania (RDA), ma i Russi non mi hanno lasciato entrare. È così che sono diventato, per cinque anni, pastore di un villaggio vicino a Brema.

Il secondo avvenimento decisivo è senza dubbio il matrimonio con Elisabeth Moltamann-Wendel. Anche lei ha studiato la teologia. Il suo amore mi ha liberato dai legami della mia anima imprigionata. È diventata una teologa femminista in Germania. Abbiamo condotto la nostra esistenza teologica a due. È deceduta due anni fa.

 

Il suo pensiero teologico si è modificato nel corso degli anni?

Sì, ci sono stati dei cambiamenti nella mia teologia, dopo la Teologia della speranza (1964) fino al Dio crocifisso (1972) e al Trattato ecologico della Creazione (1985). Da ultimo, ho vissuto un riorientamento pneumatologico e allora ho scritto lo Spirito che dona la vita nel 1989. Nella teologia pentecostale americana si descrive la mia teologia come un riconoscimento sempre maggiore dello Spirito santo: è molto importante per me.

Questo è legato a situazioni politiche. Le Chiese europee sono delle Chiese costantiniane: lo Stato garantisce la sicurezza della Chiesa. Le Chiese asiatiche, africane e sud-americane sono minoritarie in paesi buddisti, socialisti o shintoisti. La loro unica sicurezza è lo Spirito santo e la testimonianza che esse portano nel mondo che le circonda. Ma oltre a questo, non hanno sicurezza.

 

Ci può riassumere in qualche frase quello in cui crede? Qual è il suo Credo personale?

Lo raccolgo in una frase: «Nella fine – il principio» (Im Ende der Anfang). È quello che ho vissuto. È quello che ho esposto nella mia teologia della speranza. Ed è anche l’esperienza di Gesù Cristo: nella fine, c’è il principio - nella croce, c’è la resurrezione.

 

Tra poco, sarà Natale. Nella sua teologia si parla molto della croce e della resurrezione di Gesù Cristo. Qual è allora il significato del Natale?

La grande gioia. Perché il Figlio di Dio, Gesù Cristo, viene nel nostro mondo. Natale, è la nascita del Salvatore; il venerdì santo, è la morte del Salvatore per noi tutti; Pasqua, è la resurrezione del Salvatore in un mondo nuovo.

Veniamo alla speranza. Che cosa distingue la speranza cristiana dalle altre speranze ?

La speranza cristiana discende dalla proclamazione da parte di Gesù del Regno di Dio che si avvicina. Egli predicava ai poveri, ai malati e ai disperati che essi hanno una speranza. Il secondo punto di ancoraggio è la resurrezione dei morti per la vita eterna. Risuscitiamo subito dopo la morte, non solo alla fine dei giorni sulle nostre tombe.

 

Come immagina la morte? Se glielo posso chiedere: come immagina la sua morte?

Non ho paura della morte. Ma è possibile che morire sia sgradevole. Quello che aspetto, è di entrare nella luce quando morirò, nella luce di Dio, nella luce increata di Dio – non la luce che se ne va in quel momento, quando cade la sera.

Stricto sensu, non ci sono che persone decedute. Non ci sono dei «morti». Nessuno ha mai visto la morte. La sola cosa che possiamo vedere, sono delle persone che muoiono.

Dove sono poi, non lo sappiamo. Nessuno ha mai visto la vita eterna, se non guardando a Cristo. E nessuno ha mai visto il nulla eterno di cui parlano gli uomini non religiosi.

Prima della nostra nascita, non conosciamo niente di questa vita. Prima della vita eterna, non sappiamo niente di quella vita che ci viene incontro. È una nuova nascita. Il bambino lascia il grembo materno nel quale è stato al sicuro e non sa niente della vita che lo attende. Deve imparare a respirare, deve imparare a ricevere il suo nutrimento attraverso la bocca, deve imparare a muoversi, e non sa niente di tutto questo quando è nel seno di sua madre. È la stessa cosa: moriamo a questa vita e nasciamo di nuovo alla vita eterna.

 

In questo caso, sperare, è sapere o non sapere?

Sperare, è iniziare. C’è qualcosa di magico in ogni inizio, ha detto Hermann Hesse in una poesia. In un inizio c’è qualcosa di magico che ci attrae fuori da noi stessi. Siamo tra «sapere« e «attendere».

 

 

Nella sua teologia, la speranza e ampiamente presentata come scaturente dalla sofferenza. Quali sono le sofferenze dell’uomo d’oggi nella nostra società occidentale?

Appartengo ad una generazione che è sopravvissuta alla guerra e che ha vissuto la fine del mondo. È impossibile da trasporre per i giovani che crescono oggi. Un giorno ero ad Oslo. Alcuni studenti mi hanno interrogato su come sono giunto alla fede. Ho raccontato loro quello che ho vissuto durante la guerra e durante la mia prigionia.

Allora mi hanno chiesto come si può arrivare alla fede in circostanze normali (ride). Non ho trovato una buona risposta da dare loro. Ho imparato a conoscere la speranza come un uomo della mia generazione e ho predicato la speranza così come l’ho imparata a conoscere. La giovane generazione di cristiani testimonia l’Evangelo con altre parole, e io l’ascolto.

 

Bisogna necessariamente essere un cristiano che soffre, e averne consapevolezza, per poter sperare?

No. Bisogna prendere parte alla vita di Gesù e alla sofferenza di Gesù e alla gioia del Resuscitato. La fede, nel senso cristiano, è la comunione con il Cristo. Communio cum Christo, diceva Calvino. Si riconosce il cristiano dal fatto che crede in Cristo e vive con lui.

 

L’uomo, la donna di oggi come possono vivere anche loro di speranza?

Ogni uomo che inizia a vivere spera di condurre una vita di successo. Quando qualcuno ha trovato il senso della propria vita, è riempito di speranza. Gli uomini di speranza vedono il mondo non solo nella sua realtà, ma anche nelle sue possibilità, e esplorano queste possibilità. Per la paura e il timore, esploriamo le possibilità di ordine negativo, per prepararci; nella speranza e la gioia anticipata, esploriamo le possibilità che sono positive. Non c’è esistenza senza paura e senza speranza. Questa è la speranza comune. La speranza cristiana, è in realtà la speranza che Dio pone negli uomini. Dio non è soltanto la nostra speranza: noi siamo la speranza di Dio per la sua terra e per la sua Creazione. Sono cosciente di esistere quando qualcuno spera in me e attende qualche cosa da me. La vita del cristiano e una speranza per gli altri uomini. Per me, la morte di Dietrich Bonhoeffer è stata una speranza, perché, quando sono andati a cercarlo per giustiziarlo, ha detto: «È la fine – per me, l’inizio della vita eterna». E questo mi ha convinto.

 

Nel mondo occidentale, la giovane generazione dei teologi non ha fatto l’’esperienza della guerra, della sofferenza indicibile, del male in sé. Quale sarebbe il suo consiglio per questi giovani teologi?

Alla gioventù tedesca, darei il seguente consiglio: iscrivetevi all’associazione «Segni d’espiazione e servizio di pace» (Sühnezeichen und Friedensdienste). È stata creata da cinquanta anni e molti giovani, compresi i miei figli, sono andati in Israele, Polonia e in Russia per portare soccorso alle vittime dei nazional-socialisti tedeschi. E sono ritornati felici. Tra la scuola e gli studi, occorre un anno di vita pratica. Senza questo, non si comprende niente della teologia. Ho conosciuto degli studenti in teologi che non erano mai andati in un ospedale o a un funerale, che non avevano mai visto un morto o incontrato un malato.

 

E in questo caso, il pensiero non va assai lontano?

Non si è ancora vissuto

 

L’uomo d’oggi ha l’impressione che può egli stesso provocare la fine del mondo. Il messaggio cristiano della venuta finale di Dio come è compatibile con tutto questo?

Quando il mondo sprofonda nell’oscurità, dice il profeta Isaia, Dio crea un mondo nuovo nella sua luce. La macchina da suicidio atomica non è apocalittica: è l’opera degli uomini e non è che distruzione. «Apocalisse» significa rivelazione: da intendere in un senso positivo.

 

Un cristiano deve opporsi a questa minaccia, nel nome della sua speranza?

Sì! E bisogna che si impegni per la pace e che spinga per il disarmo nucleare. Gli atti del cristiano sono etica della pace, opera di riconciliazione e opera di speranza. E’ idiota che gli uomini imparino solo attraverso le catastrofi. Quando si è più intelligenti, si impara facendo lo sforzo di comprendere. Ma, Dio sia lodato, dopo settanta anni, nessuna bomba atomica è esplosa durante una guerra.

 

Questo è merito degli uomini, o meglio, una grazia di Dio?

Mi rifiuto di porre un’alternativa (ride). Degli uomini ci sono arrivati con la grazia di Dio: avevano un po’ di tempo e di saggezza.

 

Una domanda dei miei studenti. Hanno ben capito che la vita del cristiano è caratterizzata da una speranza in azione e dalla resistenza. Ma il cristiano come fa a unirle da solo, con la propria debolezza e fragilità?

La speranza non è soltanto la potenza di iniziare: è anche una potenza che dà pazienza. Bisogna avere pazienza non solo verso gli altri uomini che ci «danno sui nervi», ma anche verso sé stessi. È difficile per i giovani! È una questione di fiducia in Dio e di fiducia in sé.

Ho pazienza verso me stesso quando vedo chiaramente che Dio ha avuto pazienza verso di me durante tanti anni e non ha mai perso la fiducia in me.

 

L’uomo d’oggi può diventare un uomo di speranza attraverso uno sforzo di comprensione, lei dice, e non perché avrebbe dovuto attraversare una catastrofe. Senza dubbio questo suppone molta riflessione, e forse anche molta preghiera?

Vegliare e pregare. La preghiera non è una facoltà propria del cristiano. Il Nuovo Testamento insiste sulla preghiera ed il fatto di vegliare. Pregare, tutti gli uomini lo fanno. Vegliare, è il compito particolare del cristiano. Per pregare, bisogna vegliare. Nella preghiera, di solito chiudiamo gli occhi. Ma preghiamo cristianamente quando abbiamo gli occhi aperti, volti verso l’avvenire. Quando si veglia, si segnalano i pericoli dell’avvenire: e quando si veglia, si segnala la venuta del Regno di Dio. Pregare e vegliare!

 

Cosa fa lei, lei stesso, per non rinunciare alla speranza?

Leggo volentieri il libro del profeta Isaia, in particolare la seconda e la terza parte. Leggo nella I Corinzi 15 il grande capitolo della resurrezione. E recito ogni mattina il Salmo 103: «Egli mette la gioia nella tua bocca – e ti fa ringiovanire come un’aquila». Ho bisogno di questo, con i miei 92 anni (ride).

 

È perché la vita cristiana è anche una predicazione che si rivolge a se stessi?

Sì! Il Salmo 103 inizia così: «Non dimenticare nessuno dei suoi benefici! Egli perdona tutte le tue colpe, risana tutte le tue infermità; salva la tua vita dalla corruzione, ti corona di bontà e di misericordia»

 

Qual è la differenza tra la fede e la speranza?

In I Corinzi 13 Paolo dice: «Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, l’amore e la speranza».  Nella poesia Portico del Mistero della seconda virtù, Charles Péguy ha detto: la fede e l’amore si rapportano al presente, e la speranza a quello che viene; la piccola sorella speranza guida le sue sorelle maggiori, l’amore e la fede, nell’avvenire.

Così la fede e l’amore dipendono dalla speranza. Non c’è vera esperienza di fede senza speranza. E non c’è vera esperienza di fede senza amore. Le tre si completano.

 

In tutto questo cosa sarebbe l’amore, l’amore nel senso cristiano?

L’amore non si ricerca da solo: ama l’altro e le altre creature per sé stesse. Tutto il resto sarebbe solo amore si sé.

 

Esiste altresì un amore per Dio?

Si. Ma bisogna fare attenzione a non annegare in una falsa mistica. Lo Shema israel, è:«Ascolta Israele, il Signore è il tuo Dio e tu lo devi amare con tutte le tue forze e le tue facoltà». È «il Signore» che è Dio. Il Signore, è qui il Dio dell’Esodo, il Salvatore d’Israele. Il Signore, è anche il dimorare, la discesa di Dio in Israele. Gesù è chiamato il Signore, il Salvatore: può essere descritto come la venuta di Dio presso di noi.

L’esoterismo e la mistica non sono compatibili. È sufficiente confrontare Thomas Merton e Teresa d’Avila con l’offerta di mistica dell’esoterismo d’oggi. L’esoterismo ricerca la trascendenza. La mistica cristiana riconosce Dio attraverso la sofferenza: la conoscenza di Dio passa attraverso la sofferenza di Dio.

 

Vi è una specificità dell’esperienza cristiana, attraverso la fede, la speranza e l’amore?

La speranza ci permette di fare nuove esperienze. Nella fede cristiana, faccio con la vita umana, con la socialità umana altre esperienze. Per esempio, quando appartengo alla Chiesa, appartengo ad una comunità che è alle dimensioni del mondo e non posso diventare nazionalista.

 

Secondo lei, nel mondo d’oggi, quali sono i principali ostacoli della speranza?

L’illusione, nei nostri paesi ricchi, che siamo ricchi e non ci manca niente. Ho viaggiato molto in Asia e in America del Sud. Là, i poveri son pieni di speranza, tanto che cantano e danzano nelle chiese pentecostali: non hanno perso coraggio.

L’uomo secolare vive in un mondo senza vie d’uscita. E la trascendenza gli è preclusa. Allora fa della propria vita, se può, una festa permanente. Si diverte e non sa niente di che cosa è la gioia. La gioia è qualche cosa di profondo e di unico. Il divertimento è superficiale e genera ancor più fame di divertimento, e ci lascia là, insulsi e vuoti.

 

Ciò significa che la gioia viene quando vuole?

Sì. Ma è per questa gioia che noi siamo creati e che siamo nati.

 

*Intervista di Madeleine Wieger, maître de conférences à la faculté de théologie de Strasbourg. In Réforme n. 3782, 20 Dicembre 2018

 

 

«Nella fine – l’inizio»

 

«Nella fine – l’inizio.  (…). Vorrei tradurre con queste parole la potenza della speranza cristiana, perché la speranza cristiana è la potenza di resuscitare tra i fallimenti e le sconfitte della vita. È la potenza che, dalle ombre della morte, fa rinascere la vita. È la potenza di cominciare di nuovo, là dove il peccato aveva reso la vita impossibile. Perché essa è lo spirito dello Spirito della resurrezione di un uomo tradito, maltrattato e abbandonato: il Cristo. Poiché Dio l’ha risvegliato dai morti, la fine del Cristo su la croce del Golgota, questa fine senza via d’uscita, è diventata per lui il vero inizio.»

Così si apre il Piccolo trattato della speranza che Jürgen Moltmann ha pubblicato nel 2018 (ancora non tradotto in francese e in italiano). Nella piena vecchiaia, scrive ancora. E ride. Mi dico osservando che la teologia per lui non è un esercizio accademico da grandi persone. È ciò che parla nella sofferenza, a causa della resurrezione. E mettendola per scritto, Jürgen Moltmann fa ancora opera di speranza, senza dubbio. È di questi teologi che hanno vissuto prima di scrivere e che temprano la loro penna nella vita stessa quando parlano di Trinità. La sua teologia è fondata sulla sua esperienza. Vibra di audacia, poiché la vista stessa non è sempre prudente. Non le importa di «quello che pensa la gente»: attinge più in profondità. Essa avanza. Egli avanza. Ancora.

 

Madeleine Wieger

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