Koinonia Gennaio 2019


L’ASCOLTO DELLA PAROLA COME TESTIMONIANZA ELEMENTARE

 

   La Riforma ha inteso portare la sfida dell’evangelo nella società. Non  si tratta, in sé, di un progetto nuovo. Tra i secoli XII e XIII gli ordini mendicanti si danno Io stesso programma. La radicalità dell’obbedienza a Gesù non deve restare nelle mura del monastero, separata dal mondo, bensì investire la vita quotidiana I frati mendicanti erigono i loro conventi nei centri urbani, vivono tra la gente, predicano, realizzano il loro ideale di «perfezione evangelica» là dove un nuovo mondo cerca di nascere, mediante l’artigianato, il commercio e la circolazione del denaro, il costituirsi di nuove forme di organizzazione politica. La Riforma si muove nella stessa direzione, ma, almeno nelle intenzioni, ancora più radicalmente, investendo tutti i cristiani (i cosiddetti «laici») della pienezza dei compiti conferiti dal battesimo, nonché della libertà che permette il loro adempimento. L’evangelo non è una faccenda per chierici e il vero sacrificio è il servizio reso a Dio e al prossimo nella vita secolare: la predicazione fondata sulla Scrittura forma donne e uomini impegnati a costruire una società nella quale la fede cristiana non si identifica con tempi o luoghi del sacro, bensì permea la vita politica, sociale, familiare e professionale dei diversi strati della popolazione. La storiografia ci aiuta a non esagerare nelle idealizzazioni e gli stessi scritti dei Riformatori lamentano spesso lo scarto tra l’ideale perseguito e la realtà. In ogni caso, il progetto spirituale del XVI secolo costituisce una realtà originale nella storia del cristianesimo: una fede intensamente «laica» che è tale in forza dell’intensificazione del proprio radicamento biblico. «Laicità» e attenzione al secolare non sono frutto di una relativizzazione del nucleo teologico della fede, bensì di una precisa lettura di quest’ultimo.

    Tale progetto conserva tutta la sua attualità. Esso va «solo» tutelato da  un grave fraintendimento che, in forme diverse, attraversa il protestantesimo almeno a partire dalla fine del XVI secolo: l’idea che l’essere cristiani coincida con il coscienzioso assolvimento del proprio compito «laico» nella società. La convinzione che essere cristiani significhi essere buoni cittadini, caratteristica del cosiddetto protestantesimo «liberale», è alla base di non pochi dei tratti culturali europei dei quali è giusto essere grati. Essa non corrisponde, però, al messaggio  del   Nuovo Testamento,  né alla Riforma: Se  è vero che la società  e le sue sfide sono il luogo della testimonianza ecclesiale, il suo  contenuto è l’annuncio di  Gesù crocifisso e risorto per la nostra salvezza. Che lo si esprima in termini classicamente religiosi o nella forma  innovativa  che abbiamo visto propugnata da H.M.Barth, che lo  si compia con gli strumenti omiletici del protestantesimo classico o mediante le innovazioni liturgiche che molti sperimentano, il nucleo del messaggio  parla dell’irruzione della realtà di Dio nella società secolare, ne  interrompe le logiche e ne dilata gli orizzonti.

    In altre epoche, caratterizzate da un’egemonia ecclesiastica sulla società, spesso fortemente clericale anche se declinata in termini protestanti, è stata sottolineata la dimensione secolare e mondana del servizio di Dio. Nell’odierna cultura areligiosa, il culto liturgico della comunità assume   una nuova priorità; La comunità riunita nell’ascolto della predicazione, nella preghiera, nella partecipazione alla cena del Signore, testimonia l’azione di «disturbo» di Dio nella tranquilla quotidianità atea del nostro tempo. La chiesa si ritrova ogni domenica perché è convinta che non sia vero che si possa vivere senza la Parola di Dio. Non si tratta di un messaggio ovvio, anzi, esso costituisce quasi Una provocazione. Lo si può banalizzare come sintomo di una nevrosi tanto stravagante, specie in persone per altri aspetti del tutto ragionevoli, quanto innocua: l’infantile ricerca di sicurezze nella ripetizione ossessiva di riti ormai privi di significato sociale e di parole delle quali la cultura critica mostrerebbe il vuoto di contenuti veritativi. La provocazione ecclesiale, tuttavia, può anche interrogare più in profondità: chi è costui, che oggi ancora convoca donne e uomini, in attesa di una parola che, essi dicono, cambia la vita? Questa non è ancora, di per sé, una parola di fede, né conduce necessariamente alla fede. Secondo il Nuovo Testamento, tuttavia, si tratta della domanda suscitata dalla presenza, dall’azione e dalla parola di Gesù. Che essa risuoni oggi non rappresenta una possibilità della chiesa, bensì l’opera dello Spirito. La testimonianza resa dalla comunità raccolta nel culto è una circostanza esteriore che può costituire l’occasione, nel senso kierkegaardiano del termine, della domanda, cioè la scintilla che è all’origine dell’incontro con Dio. Essa è il primo ed essenziale servizio reso dalla chiesa alla società che afferma di non credere più nel Dio di Gesù Cristo.

   Nel XVI secolo, l’emergere di un cristianesimo «laico» affondava le proprie radici in una concentrazione radicale sul messaggio biblico; se, oggi, riteniamo di individuare l’esigenza del primato della testimonianza ecclesiale diretta, ciò non ha nulla a che vedere con il ritorno del baricentro della fede tra le mura del tempio, bensì con la proclamazione  dell’accadere di Dio (non solo di un  nuovo stile di vita, di un determinato modo di essere chiesa, di un’etica, bensì della realtà di Dio in Gesù Cristo) nel mondo. Come nel caso della Riforma, si tratta della ripresa dell’annuncio monastico (la centralità  paradossale di Dio nel mondo) in forma nuova.

 

Fulvio Ferrario

In Il futuro della Riforma, Claudiana 2016, pp.164-66

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