Koinonia Gennaio 2019


LA RIFORMA MANCATA

COME NUOVA CHANCE DA  COGLIERE

 

Non nascondo che in quanto sto per dire c’è una componente personale di esperienza, che porta a cogliere un vissuto di riforma cercata e tentata sul piano  della prassi teologico-pastorale. C’è sempre un momento, infatti, in cui la parola riforma è anche aspirazione, istanza, esigenza, attesa, delusione,  tanto da diventare sentimento e luogo comune: clima culturale in cui sembra che tutti vogliano la stessa cosa. Un po’ come la parola rivoluzione. 

Ma strada facendo in questa direzione ci si rende conto che riforma in realtà è segno di contraddizione, per cui nel tempo si rivelano i pensieri di molti cuori. Quando una ondata riformista defluisce e le acque tornano nel loro alveo, ci si rende conto che per i più riforma era solo ansia di riposizionamento e ricollocazione nel sistema, di accomodamento in un nuovo equilibrio di forze. E chi per caso continuasse a sognarla e invocarla diventa solo un incontentabile passatista, un nostalgico sognatore, mentre si insinua che tutti i giochi sono già fatti e tu ti ritrovi fuori gioco semplicemente perché sei fuori del gioco.

Al di là di risonanze personali, però, è giocoforza ammettere che la riforma annunciata è di fatto mancata, e se da una parte ci ritroviamo davanti a trionfalistici rifacimenti di facciata, dall’altra si continua ad invocare un “cambiamento d’epoca”: segno evidente che forse c’è una riforma buona solo per se stessi, menre manca una riforma veramente significativa per il mondo. All’interno della chiesa si è creato un mondo di monadi incomunicabili, in cui ciascuna funziona alla perfezione per se stessa, nella illusione di essere però il tutto. Tanto che ogni discorso di riforma sembra del tutto improponibile e datato.

È da chiedersi se questo stato di cose sia un motivo per deporre le armi o una chance in più per continuare ad andare avanti in campo aperto: se proprio per questo - e cioè per una sorta di conformismo illuminato imperante - un discorso riforma non abbia ancor più una sua ragion d’essere e necessità di ritrovare le sue radici. Se il confronto non è fuori luogo, è un po’ come tra l’antica e la nuova alleanza: la perfezione della prima si rivela essere il limite da superare che dà opportunità all’avvento definitivo della seconda.

Questo ci dice subito che riforma non è - come forse è stata intesa di primo acchito -  sostituzione di modelli, cambiamento di forme, aggiustamenti di facciata,  ma passaggio dai segni alla realtà, dalle promesse al compimento: con linguaggio filosofico di facile intuito, si direbbe che è muoversi sul piano dell’essere più che su quello delle essenze o delle forme, nella linea dell’ esistere più che del pensare, della decisione  più che delle motivazioni.

Questo vuol dire anche che riforma non è da finalizzare a realizzazioni storicamente definite, ma è un processo permanente che scaturisce dalla fede; rimane sempre una chance aperta anche in caso di ristagno; è un compito sempre da assumere al di là di smentite e controindicazioni, un obiettivo a cui mirare anche quando è mancato. L’ostacolo maggiore viene da quanti si rassegnano davanti a situazioni di fallimento e di morte, tanto da sentirsi ripetere le parole dette al capo della sinagoga: ”Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?” (Mc 5,35). In altre parole: che pretendi ancora di ottenere, quando tutto è finito? Ma se la chiesa è “semper reformanda” ciò non dipende soltanto o soprattutto dalle sue deficienze, ma dalla sua ricchezza e fecondità interna! Se è vero che è orientata alla verità tutta intera!

Ma un tacito invito a desistere può arrivare anche con motivazioni più lusinghiere, come quando si vuol far intendere che in fondo tutto è fatto e siamo arrivati in porto, per cui basta ormai agitare le acque. Anche in questo caso, però, siamo avvertiti: “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l›attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!”. (Lc 17,20-21). Il Regno di Dio non è mai una realizzazione, una istituzione, una manifestazione, una bandiera, ma è un processo o un’avventura in cui lasciarsi coinvolgere.

Voler dunque parlare ancora di riforma ci fa ritrovare in una situazione nuova: nella necessità di far appello unicamente ad una obbedienza interiore - o ascolto della voce del vento - che non sai dove vada e dove ti possa portare;  che forse ti richiede di andare come agnelli in mezzo a lupi, non perché gli altri siano cattivi e vogliano sbranarti, ma semplicemente perché si richiede silenzio e mansuetudine: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7). È quando tutte le considerazioni risultano superflue e la comunicazione è azzerata, perché fa testo lo status quo e c’è chi si sente in dovere e in diritto di sacrificare tutto il resto agli equilibri interni.

L’unica cosa da fare, dunque, è rimanere in ascolto della voce interiore che un giorno ti ha detto di uscire dalla propria terra verso un paese che forse ci deve essere ancora indicato. È la via della fede aperta da Abramo, consacrata da Gesù e proposta a quanti si mettono alla sua sequela “per questa via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne” (Eb 10,20).

Non è la via della conformità a canoni e ad itinerari prestabiliti, ma è la via dell’incontro, del riconoscimento e della cooperazione, tenendo fisso “lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà” (Gc 1,25), secondo cui non c’è altro “debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge” (Rm 13,8).  Tutto questo ha valore strutturale e non è solo accessorio spirituale.

Muoversi sul piano delle relazioni interpersonali come impegno basilare espone alla irrilevanza istituzionale, fino al senso di inutilità; ma al tempo stesso lascia campo libero all’esercizio di una responsabilità per il vangelo che nasce dal vangelo stesso al di fuori dei circuiti ufficiali previsti. È una responsabilità a cui non possiamo sottrarci, perché “non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!” (1Cor 9,16). 

Si arriva a dire che una riforma mancata altro non è che il seme gettato in terra e che solo quando muore può portare frutto. A patto che ci sia chi si presta perché questo avvenga nella propria carne: chi crede nel vangelo come potenza di Dio e spera contro ogni speranza! Come dire che riforma è evento interno alla fede come in un grembo.

Il seme che muore per portare frutto diventa così il filo conduttore che ritroviamo nella storia della salvezza tra antica e nuova alleanza; nel mistero di Cristo e nella vicenda dei discepoli (“Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele…” - Lc 24,21); così come avviene in tanti passaggi della storia fino all’”aggiornamento” del Vaticano II. Si potrebbe dire che quello del seme diventa anche il simbolo del processo interno ad ogni riforma: che è sempre il morire di una “forma” preesistente  e lo spuntare di una forma inedita in un unico soggetto di fede.  Questa parabola bisogna impararla dal fico: Mt 24,32 e Mc 13,28.

 

ABS

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