Koinonia Gennaio 2018


IL VANGELO DI DIO COME CAMBIAMENTO D’EPOCA (II)

 

Parte seconda: Smascherare la seducente iniquità

L’anomos verrà nel mondo improvvisamente, come improvvisamente verrà Gesù, ma anziché nella potenza di Dio l’anomos verrà “nella potenza di Satana, con ogni specie di miracoli e segni e prodigi menzogneri, e con tutte le seduzioni dell’iniquità” (2Ts 2,9-10).

Il mondo degli ultimi giorni è un mondo tutto preso dall’incanto per i prodigi dell’anomos, di Satana, e dalla gran fiducia in lui, dunque del tutto distratto nei riguardi delle promesse di Dio e dell’attesa del loro compimento. Per questo il Cristo, quando verrà, potrebbe trovare del tutto scomparsa “la fede sulla terra”, l’attesa del suo ritorno, il desiderio del suo giudizio e della sua salvezza (Lc 18,8).

Non sarà perciò la fede a provocare la parousìa del Signore, piuttosto la sua mancanza e, insieme, il rivelarsi dell’anomos, dell’empio, il dilagare senza limiti dell’iniquità. Soltanto dopo tale rivelarsi, tale scatenarsi delle forze del male, non prima, il Signore potrà annientarlo “con il soffio della sua bocca”, con “lo splendore della sua venuta” (2Ts 2,8). Come se soltanto alla stessa bocca del Signore, quella che ha in principio emesso la parola creatrice di tutto, l’“alito di vita” che soffiò sull’adam di “polvere” (Gen 2,7), sia data, alla fine, la possibilità di emettere il soffio capace di distruggere l’empietà e la morte, per ridare finalmente vita ai morti e giustizia agli oppressi. Quella della risurrezione dei morti e dei cieli nuovi e terra nuova è salvezza che assomiglia a una nuova creazione, a un rimettersi deciso all’opera del Creatore attraverso parola, potenza e soffio di vita, che è anche di giudizio questa volta: la nuova creazione deve fare i conti con un male da annientare fin dalle sue radici e per sempre.

 

Ed è qui, in questi attimi ultimi e decisivi che apparirà, in tutta la sua invadenza, il katéchon colui che frena e “trattiene” l’anomos, che ne impedisce il manifestarsi mettendosi in mezzo, impedendone lo smascheramento.

L’azione del katéchon non è di per sé cattiva, si badi, se diventa qui cattiva è perché ostacola quella di Colui che soltanto è “buono” (Mc 10,18) e può salvare, e nel momento più estremo, dopo che per troppo tempo ci si è beffati dei “messaggeri di Dio”, disprezzando le sue parole, schernendo “i suoi profeti al punto che l’ira del Signore” raggiunge – come già accadde tanto tempo addietro – “il culmine, senza più rimedio” (2Cr 36,16).

Qui il katéchon finisce per difendere ciò che deve prima possibile essere annientato, e lo fa come nascondendo gli esiti di una diagnosi che parla di un male su cui prima possibile il chirurgo dovrebbe intervenire asportandone le cellule maligne.

Al katéchon interessano ordine e durata, il quieto vivere non l’irruzione del Regno. Al punto che si potrebbe persino dire che katéchon finiscono per essere anche tutti coloro che umanamente si scandalizzano di fronte a ciò che Gesù in alcuni momenti è costretto a fare e dire, senza che ci si renda conto del dolore che lo riduce a quella condizione. Chi più di Gesù temeva il soffrire e il morire (Mc 14,31-36)? Eppure guai a non condividere, a non comprendere, in certi momenti – come capitò allo stesso Pietro –, i motivi del suo decidersi di andare incontro alla sofferenza e alla morte che l’attendevano a Gerusalemme (Mt 16,21-33).

 

Al centro del messaggio cristiano, come si è visto, abita il Kerigma e in esso fondamentale è l’attesa gioiosa della parousìa del Signore, l’invito a vegliare incessantemente perché il Signore potrebbe venire da un momento all’altro e nell’ora che non immaginiamo (Mt 24,44). Perciò una Chiesa che dovesse continuare a confidare nell’indugio - tutta presa dall’osservanza della Legge, dalla costruzione di un mondo migliore, dunque del tutto dimentica dell’ora che può essere in ogni istante quella della parousìa del Signore; che finisse cioè, magari in tutta buona fede, per essere più custode dell’anomos e dei suoi prodigi che dell’attesa del Cristo che deve tornare - diventerebbe, per forza di cose, quel katéchon che prima o poi finirà annientato da quelle stesse forze d’iniquità che sono in qualche misura già in atto nel suo seno, esattamente come lo sono da tantissimo tempo nel seno del mondo e della storia.

Compito difficilissimo, quello della Chiesa degli ultimi giorni, che deve continuare a custodire con le unghie e coi denti l’amore per la venuta del Signore, mentre è come costretta a governare, e dunque a essere tutta presa, anziché dal desiderio dell’ora, da quello in cui viene da dire d’impeto: ‘non sia mai l’ora’, esattamente come accadde al buon Pietro, che divenne “Satana!” per questo, per pensarla cioè non “secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33). Sottile e astuto è il tentatore che ci sussurra ogni volta all’orecchio: ‘no, no, non è ancora l’ora, il Signore verrà alla fine, certamente, ma tra qualche miliardo di anni, il mondo non è infatti ancora pronto, il processo di conversione è ancora lunghissimo, abbiamo appena iniziato a capire eccetera’. E così ogni preghiera è fatta, quando va bene, anziché per invocare la venuta del Signore, per invocare la conversione della Chiesa confidando nella durata del tempo, senza dunque essere più nemmeno sfiorati dall’idea del Signore che deve venire, dall’idea che l’invito a conversione, fatto da Gesù all’inizio della sua vita pubblica, fu già questo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo” (Mc 1,15).

Soltanto le lacrime di Pietro pentito (Mt 26,75), distinguono la Chiesa di Dio dalla Chiesa di Satana. Al fedele è necessario essere “generato da Dio”, solo così “preserva se stesso e il Maligno non lo tocca” (1Gv 5,18-21).

 

Tutti interni alla logica del katéchon sono coloro che, come nella parabola evangelica, mandano a dire, riferendosi al loro Signore partito per ricevere il “titolo di re”: “Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi” (Lc 19,12-14). Non glielo mandano a dire direttamente, ma con l’atteggiamento ipocrita di chi parla in maniera generica e ambigua. Questo è il massimo ostacolo alla parousia, il massimo tradimento nei confronti della venuta del Signore. Ed è questa alla fine la pericolosissima opera del katéchon, che seduce quanto quella dell’anomos, poiché è opera tutta dettata dal basso orizzonte dell’etica, dei piccoli avanzamenti, del fare tutto da noi, anziché da quello della speranza e della fede che rimandano all’oltre escatologico, all’assoluto del Regno.

L’opera del katéchon anche dal punto di vista religioso non fa una piega. Più che altrove abita qui quella potentissima opera del ‘relegare’, inviare, incaricare ambasciate con lo scopo di allontanare, espellere, tenere lontano Colui che possiede ogni diritto, dovere e desiderio di tornare, costringendolo a vivere nel luogo in cui mai dovrebbe e vorrebbe stare, perché lì è in esilio, perché lì è andato per ricevere quel “titolo di re” che qui non là gli serve, perché il suo luogo è qui, è qui che deve “ritornare” per regnare tra noi sulla terra (Lc 19,12). Nulla vi è di più anticristico di una religio che relega, Colui che deve venire, nel lontanissimo luogo, anziché dirgli: “Venga il tuo regno” (Mt 6,10), “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,20).

Da nessuna parte come nella religio, esiste questo rischio di relegare Dio nei cieli organizzandoci così bene da soli sulla terra. Massima apostasia è quella di una Chiesa autosufficiente che dice: “Venga il tuo regno” con le labbra e ‘Resta dove sei!’ col cuore. Essa è come l’angelo della “Chiesa che è a Laodicea”, che dice a se stesso: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla”. E non sa invece di essere “un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Ap 3,17).

È dunque apostasia somma, pia illusione quella di pretendere di servire Dio e il mondo insieme. Scegliere di servire Dio e il mondo è, alla fine, scegliere il mondo con tutti i suoi “idoli” anziché “il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene” (1Ts 1,9-10). C’è un momento in cui Dio vuole l’assoluta esclusiva, come un uomo quando è innamorato della sua donna, c’è un momento in cui chi vuole “essere amico del mondo si rende nemico di Dio”, poiché “fino alla gelosia ci ama lo Spirito, che egli ha fatto abitare in noi” (Gc 4,4).

 

Chi o cosa davvero sia il katéchon nessuno sa. Si può tuttavia pensare che raffiguri l’azione di tutti coloro che nel mondo ogni volta appaiono con quella loro superba aria di successo e riuscita (in ambito prettamente politico o strettamente religioso non importa), con quella presuntuosa pretesa a fare da sé,  e riuscendo pure a fare moltissime cose, ma perdendo quella capacità umile di sentirsi “servo inutile” (Lc 17,10), che sta alla base di ogni fede e attesa rivolta a Colui che solo può rendere possibile ciò che “è impossibile agli uomini”, Colui che davvero saprà dare “cento volte tanto” a coloro che hanno “lasciato tutto” per seguirlo, e “in eredità la vita eterna” (Mt 19,23-29).

Davvero pericolosi nell’opera del katéchon non sono i malvagi e i corrotti (quelli sono parte dell’opera dell’anomos, del senza Legge), ma gli onesti e i capaci, i quali, in tutta buona fede, hanno la pretesa di farcela da soli, di salire in alto, senza riservare più un briciolo di attenzione all’opera di fede di chi attende e invoca dal basso (cfr. Lc 18,1-8). 

E questo accade perché lo scontro non avviene sul piano etico, come se a confrontarsi fossero il buono indicato da Cristo contro il cattivo indicato dal mondo. Lo scontro è invece sul piano di quella fede che tende all’eschaton, mentre il mondo continua a confidare nei propri equilibri e nella propria durata.

Da una parte dunque Dio e il suo Regno, da attendere con tutte le forze, e dall’altra Cesare, Mammona e le logiche di questo mondo, che si manifestano non solo nell’organizzazione politica e nei grandi valori umanistici, ma anche in quelli di una religiosità ben stabilizzata nel proprio ordine sacro. Valori tutti finalizzati alla continuità, all’organizzazione di un futuro pensato ormai solamente nelle mani dell’uomo.

La potenza frenante del katechon è negativa perché finisce per essere attenta più alle esigenze del mondo che a quelle di Dio, finisce anzi per non accorgersi nemmeno del Dio che mendica e soffre, del Dio che ha bisogno, forse più di quanto possiamo immaginare, di venire tra noi in Cristo col suo Regno di giustizia e di pace. O ci si aggrega a chi umilmente, alla maniera di certi illusi, continua ancora a credere l’impossibile, ad aspettare gridando “Maràna tha!”, “Vieni Signore Gesù!”, contribuendo così ad accelerare la venuta del Messia; oppure ci si ferma a sperare con chi, confidando ottimisticamente nelle proprie forze e conoscenze, continua ragionevolmente a credere soltanto nell’umanamente possibile finendo così per impedire la venuta del Messia, e dunque il compiersi della sua opera di salvezza.

 

Sergio Quinzio, riflettendo a fondo sul mistero d’iniquità ha sottolineato come “la riduzione della verità cristiana a morale sia il contrassegno più certo dell’anticristicità del mondo in cui viviamo”. Negando il peccato infatti, non come morale ma come pungolo d’iniquità e di morte di fronte al quale possiamo fare ben poco, si finisce per negare “il bisogno stesso di salvezza” (Mysterium iniquitatis). Iniquità somma non è il non voler fare il bene, ma il non accorgersi che nonostante tutta la nostra buona volontà finiamo sempre per fare il male e negare il bene, il non accorgersi che “la vita eterna” è un “dono di Dio”, non un premio che alla fine ci meritiamo (Rm 6,23).

Si muore a causa del peccato non della colpa personale, voler negare questo ci spinge alla fine a negare, a rimuovere la terribilità della morte, fino ad annullare in fondo al nostro cuore il desiderio stesso della venuta di Colui che solo può vincere la morte, e dunque per annullare la stessa fede.

Mentre anomos e katéchon gozzovigliano alla tavola ricca del “principe di questo mondo” (Gv 16,11), Lazzaro povero è là solo e invoca. Questo è il motivo per cui il Cristo prima o poi verrà a fare giustizia.

Non soltanto i credenti, ma anche “Gesù attende ancora l’evento finale che comporterà la distruzione di questo mondo – ha scritto ultimamente il teologo Giuseppe Ruggieri -, ma questa attesa non è fuga, bensì partecipazione alla storia ‘maledetta’ e produzione del miracolo… Gesù non si è illuso ma ha partecipato con tutto se stesso fin nelle viscere, all’attesa della creazione sottomessa controvoglia alla vanità” (Prima lezione di teologia).

Se la speranza non radica più nel fondamento della fede perde completamente di vista il non ancora veduto, l’impossibile possibile a Dio soltanto, per volgersi solamente al già veduto e all’umanamente possibile qui e ora, resta cioè speranza unicamente umana, speranza nel progresso garantito, nel suo procedere, dall’ordine civile e religioso dei poteri di questo mondo, speranza in ciò che la tecnica coi suoi prodigi e le sue novità promette, rende ogni giorno meravigliosamente possibile, ma nulla più.

Paolo dice che se siamo già salvi lo siamo “nella speranza”, se però lo siamo nella speranza significa che ancora non vediamo. Per questo il credente vibra di gratitudine quando un papa in una sua enciclica dedicata alla speranza, ha ancora il coraggio di aprire gli occhi sulla storia e di scrivere: “Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la ‘revoca’ della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto. Per questo la fede nel Giudizio finale è innanzitutto e soprattutto speranza – quella speranza, la cui necessità si è resa evidente proprio negli sconvolgimenti degli ultimi secoli” (Benedetto XVI, Spe salvi, 43).

Questo si è chiamati a credere che “esiste”, esattamente come esiste Dio. Questo si è chiamati a sperare, prima e più di ogni altra cosa, questo si è chiamati ad attendere, con perseveranza. “Chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato” (Mt 10,22).

 

Daniele Garota

(2. fine)

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