Koinonia Ottobre 2016


Sola fide”: è sempre una sfida

 

Qualche residua reminiscenza scolastica rende familiare la formula “sola fide”, legata alla memoria di Martin Lutero e alla sua “Riforma”. Ma c’è il rischio di fraintenderla  come  simbolo di rottura e di contrapposizione e non come vero motivo di riforma: di prenderla cioè nel suo valore storico ed ecclesiale e non invece nella sua profonda valenza teologica sempre aperta.

Volendo avvicinare l’evento Riforma protestante, l’attenzione va di preferenza a queste due sole parole, non solo perché forse ne racchiudono l’anima, ma soprattutto perché rispondono all’istanza che ci anima e che  rimane quella di un ritorno alla centralità della fede come base di quanto si spera e garanzia di quanto non è visibile agli occhi ma al cuore. È quella “sostanza della fede” (o fede-sostanza) di cui ha parlato Giovanni XXIII come principio di “aggiornamento”.

Abbiamo sempre condiviso il desiderio e l’impegno di ritrovare la fede come il tesoro nascosto nel campo o la dramma perduta (ricordiamo La fede sepolta di Sergio Quinzio?): non basta una fede come immaginario mentale o come  accessorio pratico di comportamento. Siamo convinti che o la fede torna ad essere un dato originario e creativo che libera e che salva, o diventa sale senza più sapore, un ingombro da rimuovere. E questo è possibile solo nella linea di quella fede vissuta che è prima di tutto nel cuore di tanti credenti anonimi.

Muovendoci in questo senso, abbiamo inteso l’aggiornamento, il rinnovamento, e quindi la riforma non tanto come cambiamento di vestito per essere più alla moda (le tante riforme a pezzi!), ma come ritrovata capacità intima del credere e rivestirsi così di Cristo (Gal 3,27: quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo). Quando Papa Giovanni invitava a distinguere la sostanza della fede dai suoi rivestimenti, certamente non intendeva spostare l’attenzione e la preoccupazione sulle forme e sulle formulazioni di una fede già definita, quanto piuttosto ritrovare la vitalità e fecondità di una fede che sa rigenerarsi.

Si tratta solo di prendere atto di quando e di come nasce quella relazione salvifica di grazia (l’intima unione con Dio di cui in Lumen gentium 1), irriducibile alle sue condizioni di fatto: ecco perché va valorizzata la fede dei semplici, come l’obolo della vedova! Certamente, tutto ciò non avviene al di fuori di contesti storici e mentali ben precisi, ma il punto non è solo quello di modificarli o restaurarli, quanto piuttosto quello di rigenerarli: rimane insomma il fatto che il corpo vale più del vestito!

Se guardiamo retrospettivamente a come sono andate le cose nel mezzo secolo dopo il Concilio, il riformismo che lo ha attraversato è stato  a macchia di leopardo  e ha privilegiato l’assunzione di nuove fogge - magari mutuandole da quelle antiche: si veda il fenomeno del monachesimo - piuttosto che cercare di ridare forma  dall’interno allo stesso corpo ecclesiale in tutte le sue articolazioni, che è poi il vero problema di una riforma. All’idea-riforma non ha corrisposto un principio-riforma! Ai tanti progetti e tentativi sparsi di riforma non ha risposto un nuovo soggetto unitario.

Di qui la memoria ed il ricorso alla “sola fide” profeticamente evocata da Martin Lutero come principio  di salvezza - o di giustificazione -  e quindi come ritrovata  sostanza della stessa chiesa comunità di credenti. La questione indulgenze è emblematica  di quanto è derivato ed accessorio, di quanto è da mettere tra parentesi per ritrovare il nucleo stesso del vangelo, ciò che salva! Purtroppo, simile operazione  di ritorno al vangelo si è trasformata subito in controversia dottrinale, in conflitto ecclesiale, in lotta di potere politico, ed a noi la Riforma è arrivata come eredità di rottura e di esclusione più che come motivo di coerenza, di unità e di comunione.

Forse c’è da dire che la Riforma ha avuto seguito e successo più per i suoi effetti collaterali che per il suo valore carismatico e biblico, e cioè come evento profetico nel cammino del Popolo di Dio: ma niente impedisce di leggere  in questa chiave anche la Riforma storica, per chiederci se è ancora in atto il processo che ha innescato o se anch’essa si è incanalata nei vicoli ciechi di sistemi religiosi compiuti.

Per poter dirimere simile questione, è necessario ridirci quale è la vera posta in gioco negli intenti di Lutero, che presenta così i tre punti per cui la “sola fides” è fonte di giustificazione: 1) La fede ha un riferimento personale e non puramente storico; 2) La fede riguarda la fiducia nelle promesse di Dio; 3) La fede unisce il credente in Cristo. Sono affermazioni che dal punto di vista dottrinale suonano oggi del tutto plausibili e condivisibili. Ma non dimentichiamo che se allora si contrapponevano al sistema-indulgenze e di grazia a buon mercato, anche oggi avrebbero di suo effetti dirompenti se solo si tentasse di rimetterle al centro dell’azione pastorale vigente. E se da una parte tutto oggi ci riporta all’anima della Riforma storica, anche questa può essere riletta alla luce delle istanze odierne, senza per questo travisarla o piegarla ai propri intenti.

C’è da dire soltanto che per rispondere anche oggi agli interrogativi sulla salvezza o sulla giustificazione possiamo sentirci tutti sulla stessa barca e coordinare i movimenti dei nostri diversi remi per approdare al porto comune dopo la difficile traversata. Perché simile impresa riesca, è bene darsi qualche punto di riferimento, al semplice scopo di sincronizzare la nostra azione comune.

Un primo punto riguarda la dimensione teologica dell’evento, da comprendere non solo storicamente ma in tutta la sua portata di fede. “Una difficoltà molto seria, forse la più seria che lo storico della Riforma debba affrontare, è il fatto che le sue idee di fondo ci sono estranee. La maggior parte di coloro che vogliono studiare la Riforma non sa nulla di teologia cristiana. Per esempio il suo grande slogan: «giustificazione per grazia di Dio mediante la sola fede» oggi sembra incomprensibile a molte persone, come pure gli intricati dibattiti sull’eucaristia. Perché mai quelle questioni apparentemente tanto oscure hanno causato a suo tempo una tempesta così grande? Una facile tentazione per chi si accinge a studiare la Riforma consiste nell’evitare di impegnarsi a capirne le idee, per trattarla come un fenomeno puramente politico-sociale” (A.E.McGrath, Il pensiero della Riforma, Claudiana, p.5). Il centenario della Riforma, dunque, diventa una provocazione a ritrovare la capacità di ripensare la fede in profondità di contenuto oltre che di estensione negli effetti.

Questo non vuol dire che la controversia storica debba risolversi in chiave dottrinale grazie a formulazioni diverse, ma vuol dire che deve rinascere un movimento unitario di fondo che esprima la verità della fede in tutta la sua potenza di vita.  A questo proposito lascio volentieri la parola a Karl Barth, senz’altro più autorevole: “Parliamo oggi dell’unico movimento costituito dal mettersi in cammino, dal convertirsi e dal professare la fede da parte della Chiesa, dal quale sono determinati e delimitati tutti i suoi singoli movimenti, quando sono importanti e positivi! Questo unico movimento della Chiesa si presenta come evento. Esso non accade oggi. È avvenuto in molte epoche più sotterraneamente, percepito solo da pochi. Esso certo si compie anche oggi sotterraneamente quanto alla sua realtà principale e avvertito nella sua essenza soltanto da relativamente pochi. Eppure oggi si fa evento con maggiore percepibilità e il numero di coloro che lo avvertono nella sua essenza è maggiore che in epoche anteriori”.

E ancora: “I contrassegni particolari dell’unico movimento della Chiesa, del suo mettersi in cammino, del suo convertirsi, del suo professare la fede oggi consiste nel fatto che esso si verifica contemporaneamente, non in tutte, ma in molte confessioni. Oggi e qui in particolare ci interessa che esso si faccia evento o precisamente divenga visibile al tempo stesso nella Chiesa cattolico-romana (dico preferibilmente cattolico petrina) e in quella cattolico-evangelica (cioè anche noi siamo cattolici); in modo vistoso, e almeno per ora, più visibile o certo più spettacolare nell’ambito della confessione ‘petrina’ che in quella ‘evangelica’? In qualunque modo stiano le cose: esiste un unico movimento che è della Chiesa, vale a dire nel nostro caso delle due confessioni” (in Ultime interpretazioni, Morcelliana 2015, pp.63-64).

E sempre Karl Barth ci viene incontro  per metterci in guardia da un altro pericolo, e cioè quello di definire e far valere se stessi  più come correttivo e contrapposizione all’altro che come evidenza della verità che si vuole testimoniare. Egli scrive: “La partenza giusta, autentica della Chiesa è in primo luogo e soprattutto un dire ‘sì’ al futuro: solo a quel punto e per quel motivo un dire ‘no’ al passato. Mera stanchezza, mera critica, mera avversione, mero disprezzo e protesta contro ciò che è durato finora - oggi si dice volentieri: contro l’establishment - non hanno ancora niente a che fare col grande movimento del mettersi in cammino della Chiesa. Quando Mosè colpì a morte quel malvagio e lo sotterrò [Es 2,11 s.], questo atto non era ancora la liberazione di Israele dalla prigionia. Ora in entrambe le confessioni noi udiamo ancora troppo un ‘no’ giustificato, ma vuoto: vuoto perché non è riempito con il ‘sì’ verso ciò che è meglio. Un ‘no’ vuoto però suonerà sempre più o meno odioso e triste. Se la Chiesa pronuncia il suo importante ‘no’ a quanto è durato fin qui, il suo è allora un ‘no’ chiaro, ma benevolo e lieto” (ib. p.66).

 

Un criterio pratico di comportamento e di  dialogo, in questo senso, ce  lo suggerisce Paolo nella seconda lettera ai Corinti (1,18-22): “Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no». Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì». Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì». Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria. È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori”.

“Attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria”: che ci sia dato di muoverci e di operare in questa prospettiva!

 

Alberto B. Simoni op

 

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