Koinonia Ottobre 2016


Una riflessione su 1Giovanni Cap 1, v.1-7; Cap 2 v. 3-10

 

“QUELLO CHE ABBIAMO VEDUTO E UDITO NOI L’ANNUNCIAMO” (II)

 

[3] Ma care sorelle e cari fratelli, noi crediamo che un sacrificio, uno sacrificato, una vittima c’è stata, una volta per tutte! Gesù ha dato la propria vita, è morto sulla croce per salvare tutti noi dal peccato e dalla morte. Il suo sacrificio a caro prezzo è quell’atto unico ed irripetibile attraverso il quale Dio con un gesto di amore ha donato la propria grazia per la salvezza dell’umanità. 

Questo è quanto crediamo e confessiamo nelle nostre professioni fede, che Gesù è morto sulla croce per salvare me, te, ciascuno di noi che crede in lui.

Proprio nel contrasto tra la ricorrente e diffusa violenza  che ci circonda e  la croce di Cristo noi corriamo un grande rischio.

Possiamo perdere l’orientamento, possiamo perdere di vista quella croce, cioè possiamo perder di vista Gesù perché  sempre più di frequente,  insieme alla commozione, allo sgomento, alla compassione per le vittime e per i loro parenti siamo presi dallo sdegno, dalla rabbia, dalla voglia di reagire con “l’occhio per occhio, dente per dente”, dal desiderio di vendetta nei confronti degli autori di crimini.

Di fronte all’insicurezza, all’orrore, alla paura generati dalla violenza del male, anche noi siamo avvolti dalle tenebre dell’odio. Siamo pronti  a rinunciare ai principi di rispetto dei diritti umani e di libertà conquistati dalle generazioni precedenti con  sangue e sofferenze, disposti a sacrificare parte della nostra libertà, della libertà di tutti, invocando leggi repressive, provvedimenti drastici e regimi contrari ai principi del  diritto  e della legalità. Se questo è il pericolo che corriamo come cittadini, come componenti della società civile,  ben più grave è il pericolo che corriamo come credenti se ci lasciamo vincere dall’imbarbarimento che ci circonda, perché le tenebre ci cattureranno in modo irreversibile con la stessa  velocità con la quale nell’universo un buco nero risucchia tutta la materia e non lascia uscire neppure la luce.  Lo definirei un pericolo “mortale” perché  se questo accade la nostra fede è vana. Ne può restare la forma, il guscio, il rivestimento, sotto forma di pratiche religiose, di facili convincimenti di essere nel giusto e di comode formule autoassolutorie e autogiustificanti, ma la sostanza è persa, non siamo più sale della terra, la nostra luce si è affievolita, alla fine sarà spenta e saremo avvolti nelle tenebre, ma soprattutto saremo incapaci di  vedere la luce splendente di Dio.

Se al tempo dell’estensore dell’epistola gli “anticristi” e i “falsi profeti”  erano i rappresentanti di gruppi e sette staccatisi o estranei alla comunità che si proponevano come assertori di verità diverse, oggi “falsi profeti” e gli “anticristi” sono le violenze e la loro continua presenza mediatica che ci fanno dubitare, e ci fanno chiedere come ha scritto recentemente su Riforma una sorella della chiesa valdese di Milano “Dio, come stai?“ o che ci inducono a dire “Dio, dove eri?”, “Dio, dove sei andato?”.

Guardate bene, queste domande non sono sbagliate e non voglio dire che non ce le dobbiamo porre. Al contrario, se la nostra fede è ancora viva, porci queste domande significa che  non siamo stati sopraffatti dalle tenebre  poiché esse sono un antidoto contro il rischio di assuefazione al male e alla violenza che sarebbe il segno di una morte definitiva della nostra fede.

Come credete che stia Dio? Soffre con coloro che soffrono, soffre nel vedere che l’essere umano, nonostante il sacrificio del suo figlio Gesù, è più attratto dall’odio, dalla violenza e dalla morte che dall’amore, dalla misericordia e dal prendersi cura degli altri. Dove credete che sia Dio? Nei campi profughi, in mare sui barconi accanto a chi muore soffocato o affogato, con le donne violentate, i bambini abusati, con tutti coloro che sono abbandonati e gridano aiuto.

[4]È vero: abbiamo bisogno di incoraggiamento, di rigenerare la nostra speranza, di rafforzare la nostra fede, di riscoprirne la sostanza. Per fronteggiare il male  e le tenebre possiamo assumere due atteggiamenti.

Uno è quello di  ritirarsi in disparte, trovare un rifugio, costruirci un mondo privato e personale i cui rinchiuderci schermando il più possibile le notizie dolorose e gli eventi luttuosi, fare finta di nulla.  Si tratta di una reazione umana, naturale, egoistica e purtroppo spesso inutile perché fa affidamento  soltanto sulle nostre capacità.

L’altro è quello di affrontare coraggiosamente la realtà per vincere il male e rischiarare le tenebre. Non mi fraintendete, non si tratta di proclamare una crociata, di armarsi e rispondere alla violenza con altrettanta violenza.  Occorre resistere al male, opporsi all’odio e alla violenza con la forza dell’amore e  della  generosità. Bonhoefer, Gandhi, Martin Luther King, i monaci di Tibhirine, il padre domenicano Pierre Claverie, i volontari delle varie organizzazioni umanitarie che operano nelle zone di guerra, nelle favelas e nei capi profughi non sono che pochi esempi di una galleria molto più numerosa di quanto si possa pensare.

La lettera di Giovanni ci ricorda due principi attraverso i quali possiamo affrontare la realtà, rinsaldare la nostra fede e ritrovarne il fondamento di fronte all’avanzata delle tenebre:

Dio è luce, e in lui non ci sono tenebre.

Se camminiamo nella luce, com’egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato.

Camminare con Dio, seguendo Gesù, significa camminare nella luce e vincere le tenebre.  Significa essere purificati e avere comunione l’uno con l’altro, non si tratta di un privilegio personale ed esclusivo,  ma di un dono da condividere con chi ci sta vicino proprio perché ottenuto non per i nostri meriti o in virtù di quello che abbiamo fatto o possiamo fare ma grazie al sangue versato sulla croce da Gesù per la salvezza dell’umanità. Dio ci chiede di camminare con Lui, nella sua luce, insieme, uniti per sconfiggere le tenebre con la luce.

Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre.  Chi ama suo fratello rimane nella luce e non c’è nulla in lui che lo faccia inciampare.   Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi.

Questo è il comandamento che viene rinnovato dalla lettera, passato da chi l’ha udito in prima persona dalla bocca del Maestro fino a noi e affidatoci così come i tedofori si sono passati la fiaccola olimpica di mano in mano: “amare il fratello”.

Uscire dalle tenebre, bloccare l’avanzata dalle tenebre, vivere nella luce del Signore è possibile solo attraverso l’amore. Solo la forza dell’amore potrà vincere l’odio e sconfiggere le forze del male, amore che significa prendersi cura dell’altro, condividere con gli altri. Questa è la missione che ci è stata affidata, essere figli di Dio significa amare l’altro, solo così possiamo essere delle piccole lampade, ma sufficienti a spandere intorno a noi un po’ di luce che unita a quella di tutte/i le/gli altre/i riuscirà a rischiarare le tenebre che ci circondano.

Chi è unito con Gesù, chi è diventato figliuolo di Dio, si distingue dai figliuoli del diavolo perché ama i propri fratelli. Il contrassegno della vita cristiana è l’amore dei fratelli ; esso è evidenza di passaggio dalla morte alla vita, ed è possibile perché Cristo ha dato la sua vita per noi; se la verità ci ha conquistati e rigenerati, non dobbiamo più avere paura (né) davanti a Dio (Bruno Corsani) né davanti agli uomini.

Tutto questo ci deve dare il coraggio e la speranza che le forze del male saranno vinte, che le tenebre non prevarranno sulla luce, che il bene trionferà e che il Regno di Dio iniziato con la resurrezione di Cristo potrà finalmente compiersi. 

Chiediamo a Dio di aiutarci in questa ricerca della sua luce e in questo cammino in cui ci sforziamo di essere sorgenti di luce con le parole del Salmo 121:

 

Alzo gli occhi verso i monti...

Da dove mi verrà l’aiuto?

Il mio aiuto viene dal SIGNORE, che ha fatto il cielo e la terra.

 

Valdo Pasqui

(2. fine)

 

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