Koinonia Ottobre 2016


Bibbia alla mano per riflettere

L’AUDACISSIMA FEDE DI GIOBBE (II)

 

2. Domande gridate

A chi pone ancora oggi, rivolto al cielo, le domande stesse di Giobbe, stando dalla parte delle vittime della terra e della storia, altra risposta non può essere data che dallo stesso Dio crocifisso, una risposta che è tuttavia ancora domanda, domanda gridata da un giovane sulla trentina appeso e sanguinante a una croce che la lancia inutilmente al cielo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Una domanda diventata purtroppo ovvia e insignificante ormai, dopo che per troppo tempo troppa gente di dottrina o liturgia ha continuato a sciorinarla da una cattedra a mo’ di slogan teologico, o dai pulpiti a mo’ di slogan devoto. Una domanda che quando perde la sua carica di autenticità e dolore, il suo legame diretto con chi vive in prima persona gli orrori dell’ingiustizia e della morte, non è più nemmeno una domanda.

Solo nel gran giorno di Dio, nel quale con sempre più fatica riusciamo ancora a credere, riceveremo risposta vera ed efficace, perché sarà la risposta stessa di Dio, quella che renderà giustizia ai poveri e agli oppressi, che ridarà vita ai morti, che creerà cieli e terra nuovi, esattamente come la Parola del principio creò i cieli e la terra attuali. La Parola della fine corrisponderà così alla Parola del principio, una Parola unica proprio perché “di Dio”, e dunque “viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio” (Eb 4,12).

Alla fine Dio sarà perfettamente uomo per abitare tra noi avendo già assunto su di sé, in Cristo Gesù, tutto il dolore dell’umanità. Il Dio “tutto in tutti” di Paolo è questo. L’audacia di Giobbe scatena in Dio una volontà di giustizia e potenza che lo condurrà non solo alla morte ma anche a essere “primizia di coloro che sono morti” e, insieme, primizia di coloro che risorgeranno dai morti, dopo avere posto ogni nemico “sotto i suoi piedi”, compreso “l’ultimo”, che sarà anche “annientato”, per sempre, “la morte” (1 Cor 15,12-28).

Nell’orizzonte biblico mai la morte diventa amica dell’uomo, così come avviene senza battere ciglio in orizzonte pagano. Giobbe desidera essere schiacciato, soppresso, forse persino ucciso dal suo Dio (6,9), ma di uccidersi, alla maniera di un Socrate per esempio, nemmeno gli passa per la testa. Per Giobbe la morte resta la grande nemica, sua e di Dio. “I tuoi occhi mi cercheranno – dice a Dio -, ma io più non sarò / … / Chi scende il regno dei morti più non risale” (7,8-9). “Per questo giacerò nella polvere / e, se mi cercherai, io non sarò” (7,21). Giobbe vuole impietosire Dio, come dicendogli: ma non ti fa pena una creatura ridotta come io sono ridotto? Non ti fa pena un uomo costretto a morire?

Per un pagano come Socrate ci si poteva uccidere per molto meno e considerare tal cosa persino apice della saggezza, entrata nella vera vita. Non però per un credente come Giobbe. Fino a maledire il giorno della propria nascita egli arriva, ma togliersi la vita come se fossimo noi i padroni di essa assolutamente no. La vita è per l’uomo biblico un dono di Dio, forse il più prezioso, e tale resta soprattutto negli abissi del male e del dolore. Gli orizzonti sono opposti. Per questo Atene adora Socrate, che beve tranquillo la sua cicuta pensando al dio della medicina, e scoppia a ridere quando da Gerusalemme giunge un testimone come Paolo a parlare di un uomo risorto dai morti (At 17,32).

Dio per Giobbe è tutto, dal principio alla fine della sua vita: suo è il respiro grazie al quale viviamo istante dopo istante. Per questo mai la morte sarà una soluzione. La croce piuttosto, la persecuzione, l’angoscia, ma non il suicidio. E nemmeno quando si viene uccisi e si muore il credente si arrende, desiderando, come i sette fratelli nel secondo Libro dei Maccabei, niente di meno che la risurrezione dei morti e il giudizio ultimo di Dio: “È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita”, dice il quarto dei fratelli tra i tormenti al suo aguzzino (7,13-14). Ottusità e follia? Sì, ma l’audacia della fede sa che “ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1Cor 1, 25).

Giobbe sa che è inutile disputare con Dio e che un uomo mai potrà avere ragione dinanzi a lui (9,2-3); anche quando fa perire ingiustamente l’innocente (9,23) egli resta il giudice supremo, perché sua non di altri è la giustizia e la potenza (9,19). Giobbe spera che Dio gli dia un poco di respiro, che allontani per un attimo almeno la sua “verga”, che smetta di spaventarlo con quella grandiosità divina che terrorizza, affinché possa giungere ad esprimersi, a dirgli quello che ha nel cuore “senza avere paura di lui” (9,34-35).

Dio non vuole allentare la sua presa? Bene, Giobbe allora si fa forte del proprio ingiusto soffrire. Continuando a tremare di paura magari, ma esplodendo in tutta sincerità, radicalmente protestando, senza tregua, rompendo ogni argine religioso e devozionale, restando a terra, ma senza smettere di credere in lui, di crederlo potentissimo e buono, l’unico a cui poter chiedere aiuto e liberazione, riscatto dall’ingiustizia e dalla morte. E non solo per sé ma per tutta l’umanità, dal principio alla fine del mondo. Dio lo potrebbe annientare all’istante, e Giobbe non solo lo sa ma quasi lo desidera, a mo’ di sfida. Eppure Dio sarà lungi dal farlo, perché l’audacia e il coraggio di quel “servo” (42,7) lo interpellano nel profondo, un po’ come se dicesse tra sé: ma chi si crede di essere questo qui. E subito dopo: però… e se avesse ragione?

Il Dio biblico è il Dio del pathos e dei ripensamenti più radicali - come ci hanno insegnato Heschel e molti maestri ebrei -, non solo è un Dio che può arrivare a pentirsi di quanto ha appena fatto e dunque di quanto anche pensava giusto fino a poco tempo prima fare, ma anche un Dio che arriva a farsi guidare, nel suo brancolare per le vie della storia, da un uomo come Abramo che, spedito, gli camminava davanti, come ha fatto notare Neher.

È un Dio che desidera ascoltare, oltre che essere ascoltato, ascoltare il grido di chi soffre, dei poveri soprattutto, degli orfani e delle vedove che chiedono giustizia, degli innocenti che tribolano senza colpa, dei morti costretti a scendere e rimanere nella tomba senza che nessuno sia riuscito non solo a riscattarli, ma nemmeno ad ascoltarli mentre erano ancora in vita. Giobbe osa “penetrare la perfezione dell’Onnipotente”, “scrutare l’intimo di Dio” (11,7), e riesce a fare questo perché infinitamente ama il suo Dio e non può credere che tutto debba finire così.

Egli sa quel che gli amici sanno, essi, con tutte le loro argute argomentazioni scoprono l’acqua calda e nemmeno lontanamente immaginano che Giobbe protesta in quel modo proprio perché ama il suo Dio e da Dio si sente amato. Il senza Dio si sarebbe rassegnato molto prima: contro il nulla nessuno protesta. Se Giobbe protesta è nel nome di Dio, è perché ritiene Dio buono e potente al tempo stesso. Per questo egli più che accettare supino e rassegnato tutto quanto accade, vuol parlare direttamente “all’Onnipotente”, desidera “contendere” con lui, senza lasciarsi nemmeno per un attimo confondere dalle “menzogne” di quei “medici da nulla”, pronti a “dire il falso” pur di difendere l’indifendibile (13,3-4.7).

Giobbe è troppo convinto della verità delle proprie proteste e dell’inganno della teodicea dei suoi amici, pronti ad accettare tutto pur di giustificare Dio. No, meglio che tacciano e che stiano alla larga da lui con le loro inutili moine consolatorie. Giobbe parlerà senza ritegno, “qualunque cosa possa” accadergli, egli è disposto a strapparsi la “carne con i denti” e sputargliela in faccia a Dio pur di farsi ascoltare. Lo uccida pure, egli non indietreggerà di un millimetro e fino alla fine continuerà a difendere la propria “condotta”: troppo è convinto che sarà alla fine “dichiarato innocente” e proprio dallo stesso Dio giudice giusto che ora lo sta tormentando. “Interrogami pure”, come io ti sto interrogando ora – osa dire a Dio – “e io risponderò” (13,13-22). Un’audacia di fede che troppi uomini religiosi tanto sicuri del loro credere si sognano!

Ma non finisce lì, di seguito Giobbe osa chiedere a Dio ciò che nessuno oserebbe chiedere, osa chiedere l’impossibile: allora fa così, nascondimi “nel regno dei morti”, occultami “finché sia passata la tua ira”, fissami pure un termine, ma poi ti prego, torna a ricordarti “di me!”. Certo, a quel punto io “aspetterei tutti i giorni del mio duro servizio, / finché arrivi per me l’ora del cambio!” (14,13-14).

Ma così “tu distruggi la religione!” – è subito lì pronto a dirgli l’amico Elifaz di Teman – il tuo altro non è che “il linguaggio degli astuti” (15,4-5).

E tuttavia Giobbe ha già udito tutto quanto gli stanno sciorinando in buona fede Elifaz e compagni, e non gli costerebbe nulla dargli ragione e parlare come loro, se soltanto sedesse dove loro siedono, se non soffrisse quello che egli sta soffrendo. Certe cose soltanto il dolore riesce a farle comprendere e dire, o l’amore capace di soffrire con chi soffre, altrimenti tutto ci scandalizza, certo, fino a renderci assurde certe affermazioni, certe proteste che rasentano l’irriverenza e la disperazione. Il fatto è che quei “consolatori molesti” non riescono a mettersi nei suoi panni, ad avere compassione di lui come dovrebbero, per comprendere almeno un poco non solo il suo dolore e la sua angoscia, ma anche la sua fede, la preziosissima audacia della sua fede.

Giobbe trae dal proprio dolore un coraggio e un’audacia che lo rendono capace di invocare la stessa terra che ha sotto i piedi, affinché non copra il suo “sangue” e il suo “grido”. Egli è infatti convinto che “fin d’ora” il suo “testimone è nei cieli”, il suo “difensore è lassù” (16,18-19) e tutto vede e di tutto si ricorda.

L’occhio di Giobbe che “versa lacrime” continua a rivolgersi verso Dio affinché “egli stesso sia arbitro fra l’uomo e Dio”, mentre i suoi anni passano ed egli se ne va “per una via senza ritorno” (16,20-22). In quanto accaduto a Giobbe i conti non tornano, c’è poco da fare. Certo, gli amici fanno di tutto per farli tornare, ma Giobbe tiene duro ed è l’audacia della fede a reggere in lui. A Giobbe è la verità del dolore a renderlo profondamente convinto di quel che dice davanti a Dio e agli uomini.

Dal fondo dell’abisso, nel quale tutti lo hanno abbandonato – gli amici, la moglie, i conoscenti e persino Dio – a lui appaiono d’un tratto e con una certa chiarezza cose che vorrebbe scritte e incise con ferro e piombo, e “per sempre … sulla roccia”. Cose che forse mai nessuno prima di lui aveva intuito con tale audacia, aveva detto con tale forza, la forza del dolore e della fede insieme: “Io so che il mio redentore (goél) è vivo / e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! / Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, / senza la mia carne, vedrò Dio. / Io lo vedrò, io stesso, / i miei occhi lo contempleranno e non un altro”.

E da tale altezza noi vediamo come annientata ogni giustificazione, ogni teodicea che fin lì soffocava le ragioni del giusto sofferente: “Voi che dite: ‘come lo perseguitiamo noi, / se la radice del suo danno è in lui?’, / temete per voi la spada, / perché è la spada che punisce l’iniquità, / e saprete che c’è un giudice” (19,23-29). È la stessa spada che divide, è lo stesso “fuoco” che ha promesso di venire un giorno a “gettare” sulla terra il Cristo, con angosciato desiderio che ben presto tutto “sia compiuto!”  (Lc 12,49-51).

Sempre il giusto paga e soffre mentre l’empio là, con la sua insolenza, sempre se la cava; perciò tutto non potrà ricevere senso che da quanto accadrà nell’ultimo giorno, quando a trionfare sarà soltanto la giustizia di Dio. L’impazienza e l’audacia di Giobbe sono preziose proprio perché vengono da chi ha prima sofferto con pazienza fino all’inverosimile. Chi tra gli amici accorsi a insegnargliela sarebbe giunto a tanto; chi tra loro avrebbe esemplarmente e pazientemente sopportato tutto dicendo: “Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, / sia benedetto il nome del Signore”, e dunque senza peccare e senza attribuire “a Dio nulla di ingiusto” (1,21-22)?

È la pazienza precedente a rendere potente il suo spazientito infuriarsi successivo, il suo essere disposto, ad un certo punto, a mettere a repentaglio tutto di sé pur di costringere Dio a rispondere, a rendere ragione dell’accaduto. Sì, perché nel caso di Giobbe non si tratta di avere ragione di un’idea, ma di ingiustizie subite, di innocenti morti.

 

Daniele Garota

(2. continua)

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