Koinonia Agosto 2016


LA RIFORMA NELLE NOSTRE MANI

 

Curano alla leggera la ferita del mio popolo, dicendo: «Pace, pace!», ma pace non c’è (Ger 6,14). Parafrasando Geremia, verrebbe da dire: “Riforma, riforma, ma riforma non c’è”!  In ogni caso si cura alla leggera la ferita del popolo, e più che un Popolo in cammino, la chiesa si presenta spesso come accampamento per svernare. Uscire da questo perdurante stato di cose è stata sempre l’ispirazione che ci ha guidato: quella di ritrovare l’asse portante dell’esistenza cristiana nella storia e nel mondo, al di fuori di recinti definiti,  per viverla sia personalmente che comunitariamente nel clima culturale e sociale dei nostri giorni. Come dire:  se e come credere al vangelo, in modo tale che la propria fede possa fare da regola del credere stesso,  una fede costituente dell’essere chiesa!

In effetti, per quanto in maniera dimessa e quotidiana, una intenzionalità di “aggiornamento” ha prodotto e attraversato il cammino ultraquarantennale di Koinonia, senza abbandonare mai l’orizzonte  di una visione unitaria o “cattolica” di chiesa: non per un ecumenismo di maniera, ma per dinamismo intrinseco della stessa fede, “avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,3). Prima d’essere prodotto delle nostre lodevoli iniziative, l’unità esige di essere vissuta e riconosciuta come chance e come compito! Prima di preoccuparci di come mettere le cose tra noi è necessario tornare a capire come stanno le cose stesse in termini di salvezza mediante la fede!

In questa lunga marcia di avvicinamento al centro del credere, forse siamo oggi davanti ad uno scenario nuovo, dove non contano tanto passaggi e realizzazioni particolari, quanto ritrovare l’orizzonte unitario da non dare più per scontato per sigle: prima che le cose da vedere conta la luce per vederle. Le diverse esperienze fatte hanno portato ad una maturazione e ad un potenziamento di questa intenzionalità di fondo, che non si esaurisce nelle sue provvisorie materializzazioni ma si impone come istanza primaria: credere o non credere, questo è il problema. Dove sono, in effetti, chiese che si preoccupano in primo luogo del credere, piuttosto che di gestire un fede presupposta o indotta?

E se all’origine c’è il tentativo  di mettere in atto nella storia la fede della chiesa - mettendo in gioco se stessi - non può mancare la ricerca di una qualche visione unitaria come proiezione delle “cose sperate”, di cui appunto la fede  è fondamento. Per quanto ci riguarda, si è cercato di diventare coscienza ed espressione viva del volto reale di una chiesa comunità di credenti  al di là delle tante immagini ideali di chiesa che via via sono state elaborate. C’è infatti una sorta di modellismo ecclesiale che favorisce la diversificazione fine a se stessa, ma dove il collante fede funziona per lo più come credenza, sentimento religioso, devozione di massa, appartenenza passiva, quando non diventi superstizione! È un problema o no che la fede abbia una sua fisionomia storica il più possibile evangelica?  Come se una chiesa sfiorita e sterile tornasse a rifiorire e partorire nuovi figli, e quindi a rigenerare se stessa.  

Se ora vogliamo dare un nome a questa istanza di rigenerazione della fede nel mondo - perché di questo si tratta - la parola che il linguaggio, la storia e le situazioni attuali ci offrono è quella di  “riforma”,  e cioè ridare-forma alla “vita evangelica” di sempre, perché “non è il vangelo che cambia, ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio” o diversamente. Quindi, non più soltanto ritocchi di questo o quell’aspetto di una fede confessata e praticata, ma centralità rinnovata e ripensata della sua “sostanza”, secondo il compito che Giovanni XXIII aveva profeticamente affidato al Concilio: “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre!” (Eb 13,8), al tempo stesso in cui “dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia” (Gv 1,16).

Il fatto è che in tema di riforma troppi si sono affannati a gareggiare per cantare vittoria e per intestarsela, forse ha impedito ad altri di farsene carico, facendo della riforma più un motivo di conflitto che di convergenza. È necessario ritrovare da parte di tutti e di ciascuno una fedeltà verticale in spirito e verità al posto di una propria collocazione religiosa orizzontale su questo o su quel monte (cfr Gv 4,21). Riforma non è semplice modificazione interna al sistema ma superamento dialettico del sistema: l’uomo prima del sabato! In questo senso, riforma vivente e permanente è in sostanza “l’uomo Cristo Gesù” (1Tm 2,5), “l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo” (Eb 3,1).

Se l’attenzione comune è a Gesù - come invita a fare sempre Eb 3,11 -  un discorso di riforma deve potenzialmente coinvolgere tutti e non può essere giocato contro nessuno.  È necessario perciò che non ci si radicalizzi su forme e formule particolari (neanche quelle confessionali),  ma si vada al DNA della fede e della vita evangelica sia all’interno di ogni “confessione” che dentro la stessa esistenza umana, per farne il tema di tutte le possibili variazioni culturali, storiche e teologiche, evitando fraintendimenti, strumentalizzazioni e ambiguità a cui la parola riforma va soggetta. Essa deve fare  da  riferimento comune alla pratica e alla forma evangelica della fede e non diventare formula-ombrello per coprire qualunque volontà e novità di facciata.

Uno sguardo alla storia ci insegna che “la Riforma” per antonomasia - quella luterana - non nasce a tavolino o come funghi, ma sul terreno ricco di fermenti innovativi, che trovano il loro punto di forza e di mobilitazione in un principio teologico e in una opzione pastorale che fanno da punto di appoggio per  rilanciare il primato effettivo - e non solo ideale - del vangelo. Se ci chiedessimo quale possa essere e dove sia oggi un principio evangelico di riforma, ci imbatteremmo in tante parole programmatiche e in diversi linguaggi innovativi, oppure ci troveremmo davanti a progetti di vita disseminati in ogni dove come punta di iceberg di una chiesa la cui fede rimane comunque sommersa. Il vangelo ne risulta però come sequestrato e depotenziato della sua forza storica a dimensione pubblica: è come compromesso  dentro tradizionali versioni puramente religiose.

Dove è mai la percezione personale e sociale della sostanza viva  della fede? Dove è il vangelo come potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, là dove una chiesa trova la sua ragion d’essere?  È qui che nasce la salutare dialettica tra la chiesa che fa la fede e la fede che fa la chiesa. Con un salto mentale, siamo riportati a Pietro e a Paolo, a tutta la dialettica tra circoncisi e gentili, che non è solo eredità storica ma processo sempre in atto nella chiesa di Dio! Un “principio riforma” è quello stabilito per sempre al primo Concilio di Gerusalemme, a cui è necessario tornare come metodo e come significato: che nessuna circoncisione può rendere vano il vangelo, così come il vangelo non rinnega ogni circoncisione, semplicemente “perché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6; 1Cor 7,19; Gal 6,15).

Non si può cancellare la differenza tra la chiesa e il vangelo di Pietro e il vangelo e la chiesa di Paolo (cfr Gal 2,7), ma chiese diverse tanto più saranno unite quanto più si distingueranno nelle relazioni reciproche. La diversità è nelle relazioni o correlazioni, in cui ogni chiesa mette in gioco se stessa nell’altra “in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef 5,32). In tal senso si deve dire che un necessario capovolgimento è in atto: nella coscienza comune c’è un passaggio quasi impercettibile da una chiesa di strutture ad una chiesa di relazioni, ma questa rimane pur sempre in secondo piano e non fa testo rispetto alla imponente visibilità di una chiesa insediata.

Un ambito in cui all’atto pratico questa dialettica andrebbe riattivata è il rapporto tra “praticanti” e “credenti”, che in qualche modo ripete il rapporto circoncisione-fede: va fatto riemergere il credente che  c’è nel praticante, mentre c’è da sviluppare il praticante che potenzialmente può essere nel credente, in modo da abbattere “il muro di separazione” (Ef 2,14) che li divide.  Di qui la necessità di prevedere modi e tempi diversi di vivere la stessa fede, a cui riconoscere comunque il primato da una parte e dall’altra, perché c’è un tertium a cui riferirsi, “l’uomo Cristo Gesù”. Ma come arrivare a questo confronto, se si continua ad intendere l’unità della chiesa come uniformità? Basta che la diversità sia solo un dato di fatto tollerato, o è tale di principio, in modo che forme storiche di chiesa si relativizzino a vicenda e ritrovino unità nella sostanza della fede?

Appunto questa sostanza è qualcosa che si pone e che si dà oltre ogni formulazione e manipolazione. E questo è un primo requisito di ogni riforma: la fede come relazione reale o intima unione con Dio, qualcosa di non alienabile come e quanto la coscienza e il cuore di ogni uomo. Dentro questa intima unione reale, tutte le  espressioni simboliche, linguistiche, dottrinali e dogmatiche non fanno che metterne in luce il mistero al tempo stesso in cui rinviano alle sue profondità. Guai a farne dei surrogati o degli assoluti! Se radicarsi nella sostanza della fede - se e quando avviene - è la verità che ci fa liberi, un’attitudine di riforma non porta a conformarsi all’esistente garantito e a schemi mentali pregiudizialmente condivisi, ma trova la sua forza nella “giustificazione per la fede”, e cioè nella verità di una promessa creduta e amata prima ancora che conosciuta e definita. Perché si tratta appunto di intima unione con Dio, per cui la fede è relazione reale e personale prima che intenzionale e formale, quanto di meno passivo ci possa essere.

Si tratta perciò di mettere a frutto la fecondità e la creatività del credere in una prassi e intelligenza della fede che siano l’anima del Popolo di Dio, a sua volta  “sacramento” di salvezza per tutti i popoli. È qui il banco di prova di ogni chiesa, se non vuole contentarsi di gesti e manifestazioni che la accreditino davanti al mondo. Davvero la riforma è nelle nostre mani, se ci facciamo segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano. È un cantiere sempre aperto e per tutte le competenze: ed è qui che esercitiamo la nostra manovalanza!

 

Alberto Bruno Simoni op

 

 

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