Koinonia Luglio 2016


TENSIONE EBRAICA (II)

 

II - Dal Cristo alla venuta del Regno

 

Se Cristo significa Messia i cristiani possono benissimo essere chiamati anche ‘messianici’. O meglio, la loro speranza è messianica, esattamente come la speranza di Israele, una speranza tutta tesa alla venuta del Messia. Su questo si è quasi tutti d’accordo, meno lo si è quando si tratta di riconoscersi, da cristiani, tutti interni alla concezione del tempo messianico.

Quasi tutti dicono più o meno così: gli ebrei non avendo riconosciuto Gesù sono ancora lì ad attenderlo, mentre noi cristiani, che lo abbiamo riconosciuto, sappiamo che è già venuto e che ci ha  già salvati. Insomma, tutto per noi è già accaduto: il Cristo è salito in cielo ed è lì che ci aspetta per accogliere le nostre anime in paradiso. La preghiera ai defunti parla di una ‘luce perpetua’ e di un ‘eterno riposo’ senza più attesa né tensione: “riposino in pace. Amen”. Il defunto è già arrivato, punto, tutt’al più non ci resta che pregare per lui nel caso che sia finito in purgatorio o attendere di essere anche noi con lui morendo in grazia di Dio.

E invece nel libro dell’Apocalisse abbiamo proprio anime stesse dei martiri che gridano a “gran voce” verso Dio nella tensione e nell’attesa: “Fino a quando … non farai giustizia?” (Ap 6,10). Altro che pacifico morire alla maniera degli stoici e di Epicuro: qui la morte è “ultimo nemico”, dice san Paolo (1Cor 15,26). Gesù non voleva morire, ha invocato che passasse da lui quel “calice”, lottando intensamente fino a sudare “sangue” che cadeva “a terra” nel Getsemani (Lc 22,42-44). Qui siamo lontanissimi da quell’orizzonte ciclico e naturale all’interno del quale la morte dell’uomo e dell’umanità diventa addirittura indispensabile per la loro rigenerazione: il naturalissimo, ciclico tutto nasce per morire e muore per rinascere, assolutamente non appartiene all’orizzonte della fede dell’uomo della Bibbia.  

La speranza cristiana, al pari di quella ebraica, è tesa come una corda di violino verso il futuro della redenzione. L’unica differenza è che mentre per gli ebrei la speranza è tesa alla venuta del Messia, quella cristiana è tesa al suo ritorno, alla sua seconda venuta. Sì, anche per noi cristiani il Messia deve di nuovo venire nella gloria a vincere la morte e per essere finalmente re in un regno che non avrà fine.

È estremamente significativo quel che ha detto l’ebreo Pinchas Lapide parlando della differenza tra ebrei e cristiani: “Loro attendono la parusia, per loro la piena redenzione ha ancora da venire; io attendo la sua venuta. Se il Messia viene e dovesse rivelarsi come Gesù di Nazaret, direi allora che non conosco nessun ebreo al mondo che avrebbe qualcosa da obiettare” (H. Kung e P. Lapide, Gesù segno di contraddizione).

La salvezza cristiana dunque non ha come obiettivo un aldilà delle anime ma un al di qua nel quale il Signore torna, “la Gerusalemme nuova” scende “dal cielo, da Dio” (Ap 21,2). Cos’aspettava, cosa sperava Abramo se non “la città dalle salde fondamenta il cui architetto e costruttore è Dio stesso” (Eb 11,10)? Cosa “pensava” Abramo e proprio nel momento in cui “offrì il suo unigenito figlio” se non “che Dio è capace di far risorgere anche dai morti” (Eb 11,17-19)?

Non è un caso che il Nuovo Testamento termini con la promessa che esce dalla bocca del Signore: “Sì, vengo presto!” e l’attesa di coloro che lo attendono: “Amen (Così sia). Vieni Signore Gesù” (Ap 22,20).  Sono ormai pochi i cristiani che non sanno come l’invocazione aramaica delle prime comunità cristiane suonasse: “Màrana tha!” (1 Cor 16,22). Ma altrettanto pochi a rendersi conto di come riguardasse il Gesù Messia che non era più tra noi e che doveva tornare presto, durante i giorni di coloro che lo invocavano e lo attendevano, mentre in realtà non è mai ancora venuto, né per loro né per noi. È qui il nodo decisivo attorno al quale da duemila anni si barcamenano le chiese e la teologia, proprio a causa di questo, spesso inghiottite da un tempo ciclico, spiritualizzato, all’interno del quale si finisce per non attendere che l’essere per sempre lassù con il Signore.

Ed è una tendenza cui già alludono alcuni passaggi del Nuovo Testamento, è vero. Ne sono un esempio questi versetti di una lettera nello scrivere la quale Paolo, che precedentemente sperava addirittura di non morire prima di avere visto il Cristo tornare nella gloria, ora è in catene e sente la condanna a morte vicina: “Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,12-14). Cosa significa qui lassù? Ecco come l’attesa è stata rivolta al cielo, spiritualizzata, verticalizzata, finendo per abbandonare del tutto la storia, la linearità del tempo, l’attesa concreta del Cristo che un giorno verrà.

E tuttavia Paolo, non si è mai mosso di un millimetro dalla sua speranza iniziale e lo spiega bene, in quella stessa lettera, cosa significa per lui “la potenza” della “risurrezione” di Cristo, il farsi “conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti”, soprattutto riuscendo a percepire che “il Signore è vicino!”. Avere “cittadinanza” nei “cieli” non significa per lui aspettare di andare nei cieli, ma sapere che “di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso” (Fil 3,10-21). Qui si parla di corpi, di eventi che devono da un momento all’altro accadere qui e ora, qui si parla del Signore che viene e mai di anime in volo o di eternità senza tempo in cui si entra nel quieto riposo. Quando “fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” ecco che “due uomini in bianche vesti” intervennero a dirglielo con chiarezza a quegli “uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?”. Come dire: pensate che sia il cielo la meta della vostra salvezza? No, la meta è qui sulla terra. “Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,10-11).

Nelle sue straordinarie riflessioni attorno a questi avvenimenti ecco come descrive Romano Guardini lo stato presente del Risorto mentre noi oggi qui e ora continuiamo a credere e sperare: “Il Signore siede alla destra del Padre, sottratto ad ogni mutare della storia, in un silente trionfo di vigilia, destinato ad erompere un giorno nell’aperta vittoria del giudizio che scuoterà il mondo” (Il Signore). Senza tale irruzione, senza tale venuta, tutto è ancora attesa, in noi e in Dio, attesa della redenzione e della giustizia futura.

Ecco cos’è tensione ebraica, una tensione che pervade non solo la Torah e i profeti, non solo la speranza di Israele fino a Gesù, ma anche e soprattutto il Nuovo Testamento, che è stato scritto per intero – lo sappiano i cristiani - quando ormai da decenni Gesù non era più sulla terra.

Ma quello che è davvero interessante - almeno per me che continuo a credere tutto questo - è comprendere come di tale tensione, seppure del tutto secolarizzata ormai, continuino ad essere costituite ancora oggi le nostre società. Una tensione che si è particolarmente manifestata negli ultimi secoli attraverso l’idea di rivoluzione (per quanto ormai del tutto fallita e su più fronti) e l’idea di progresso attraverso le potenze di scienza e tecnica, della quale continuiamo ad avvalerci nel tentativo di avere una società più giusta, equa e liberata dalla miseria, dal male, dalla vecchiaia e dalla morte, ma della quale cominciamo con una certa evidenza anche a cogliere i limiti e i grandi pericoli.

E Dio? O lo si è ucciso facendolo sparire dal nostro orizzonte mentale (come hanno lucidamente evidenziato sia Nietzsche che Heidegger già tanto tempo fa), o si sta tornando ancora una volta a metterlo al centro di ideologie cieche e violente, dal Got mit uns, “Dio è con noi” dei nazisti di ieri, al grido di “Allah è grande” degli sgozzatori dell’Isis di oggi.

Nell’estate 2003, in occasione di un convegno organizzato a Venezia dall’associazione Biblia per parlare della figura del Messia, Paolo De Benedetti concluse così il suo intervento: “L’attesa messianica, quasi totalmente oscurata nell’ambito religioso, si è trasferita quasi totalmente nel profano … A livello più generale, la tensione verso la venuta del Messia assume due aspetti: l’attesa mistica, e l’accelerazione di stampo politico che si concretizza nella rivoluzione. Le rivoluzioni non sono altro che tentativi di accelerazione dell’evento messianico”.

 

Ma davvero pochi - attorno a questo rapporto tra “materialismo storico”, “teologia” e messianismo - hanno detto cose significative quanto Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia. E in esse ad essere messo davvero in luce è il fatto che il mondo futuro così come prospettato dalla salvezza messianica, è un mondo che porterà con se tutti i caratteri e tutte le attese del passato. Di qui la fondamentale importanza per gli ebrei, oltre che dell’attesa di ciò che è stato promesso per il futuro, della memoria che non dimentica nulla del passato, soprattutto di coloro che hanno atteso, creduto, invocato e ai quali, proprio come a Gesù morto in croce gridando la più abissale delle domande, non è mai stata ancora data una vera risposta.

In quelle diciotto, brevissime tesi, le categorie di redenzione, di progresso, di felicità, di attimo, di futuro e persino di catastrofe, risuonano in una potenza di sintesi unica scaturita non solo da una mente lucidissima e profonda, ma anche dai terribili anni della Shoah, anni che il loro autore è stato costretto a vivere da ebreo. E credo che mai ci si debba nemmeno dimenticare ciò che di Benjamin scrisse il suo amico Scholem: “Benjamin non mostrava la minima timidezza a parlare apertamente di Dio. Dato che credevamo entrambi in Dio, non abbiamo mai discusso sulla sua ‘esistenza’ … Dio per Beniamin era reale” (Walter Benjamin, Storia di un’amicizia).

Non è facile ma vorrei trarre da quelle tesi almeno un punto per me fondamentale. È noto il pericolo del pungolo apocalittico là dove si è tentati di calcolare, all’interno della tensione e dell’attesa, il giorno della venuta del Messia. Tale tensione è infatti possibile mantenerla, di fronte all’immane, indicibile ritardo, soltanto a condizione di non confidare mai in un qualche calcolo. Il Talmud dice essere “maledette le ossa di coloro che calcolano la fine. Infatti essi dicono: ‘Poiché il tempo prestabilito è giunto e tuttavia la fine non è giunta, essa non giungerà mai’. Ma (anche così) attendila, come è scritto: ‘Per quanto tardi, attendila’ (Ab 2,3)” (b. Sanhedrin 97b). Qui il motivo per cui si deve smettere di calcolare esprime l’esatto contrario di quanto di solito si è fatto. Noi abbiamo smesso di calcolare smettendo anche di attendere, mentre avremmo dovuto continuare ad attendere proprio percependo la pericolosità del calcolare.

Vi sono alcuni passaggi anche soltanto nell’ultima Tesi di Benjamin, la diciottesima, davvero salutari sia di fronte ai troppo ‘tesi di certe sette millenariste, sia ai troppo ‘allentati’ presenti tra le nostre file di credenti della domenica, che ascoltano e persino evocano insistentemente tale attesa senza più quel minimo di consapevolezza che dovrebbe provocarci quel sussulto interiore che si ha quando attendiamo ciò a cui teniamo di più. Mi pare che fosse Ignazio Silone, anni fa, a dire d’essersi proprio stancato di stare con gente che diceva di attendere la venuta del Signore e la risurrezione dei morti con la stessa indifferenza con cui si attende il tram.

La Tesi intanto inizia facendo piazza pulita di tutte quelle teologie che si fan forti dei miliardi di anni luce delle galassie, del big bang e dell’ottimismo di chi confida nell’evoluzione anziché nell’attesa della redenzione. All’ebreo Benjamin, e al Dio che apre il cuore ai miseri, interessano “i miserabili cinquantamila anni dell’homo sapiens” che “rappresentano, in rapporto alla storia della vita organica sulla terra, qualcosa come due secondi al termine di una giornata di ventiquattro ore”.

Non solo, ma c’è da tenere conto che “la storia dell’umanità civilizzata, riportata su questa scala, occuperebbe inoltre un quinto dell’ultimo secondo dell’ultima ora”. Ma cosa significa questo in definitiva? Significa che “l’adesso che, come modello del tempo messianico, riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide rigorosamente con la figura che la storia dell’umanità fa nell’universo”. Non c’è qui tutto il significato di quello che voleva dire Paolo nella sua prima Lettera ai Corinzi, e cioè che “il tempo si è fatto breve”, che “la figura di questo mondo” è paragei, è cioè “sul punto di passare” (7,29-32), e che da un momento all’altro potrebbe piombare tra noi la redenzione? Paolo non calcola e se la prende con coloro che durante i giorni suoi calcolano “quasi che il giorno del Signore sia già presente” (2Ts 2,2), finendo per vivere disordinatamente “senza fare nulla e sempre in agitazione” (2Ts 3,11).

Indovini e profezie a buon mercato non appartengono alla tensione ebraica. “Il tempo che gli indovini interrogavano per carpirgli ciò che celava nel suo grembo, da loro (cioè dagli ebrei) non era certo sperimentato come omogeneo e vuoto. Chi tiene presente questo forse giunge a farsi un’idea di come il tempo passato è stato sperimentato nella rammemorazione: e cioè proprio così. È noto – conclude Benjamin – che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione. Ciò liberava per loro dall’incantesimo il futuro, quel futuro di cui sono succubi quanti cercano responsi presso gli indovini. Ma non perciò il futuro diventò per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il Messia”.

Attraverso la memoria, attraverso ciò che è accaduto nel passato, attraverso le attese e le tensioni di coloro che la morte ha inghiottito e che la “rammemorazione” riesce a riportare nel nostro cuore, la nostra tensione può farsi allora fortissima. Per questo, scriverà Benjamin in un appunto sparso altrove, la “rammemorazione” non solo è la “quintessenza della concezione teologica della storia”, ma anche “il cardine su cui si muove” la piccola porta attraverso la quale potrebbe da un momento all’altro entrare il Messia. Il futuro del Regno sarà interamente costituito dal passato riscattato e redento.

Qui non altrove è il cuore della speranza nella risurrezione dei morti: non è un semplice tornare in vita di una persona ma anche di tutto ciò che quella persona ha concretamente vissuto in ognuno dei suoi momenti quand’era in vita sulla terra, insieme a coloro con i quali li ha vissuti, nel bene e nel male. Per questo il Messia non solo redime ma anche giudica. Per questo “a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto” (Tesi II). Per questo “solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una ‘citazione all’ordine del giorno’ (proprio come quando in tempo di guerra vengono pubblicamente onorati coloro che si sono distinti per i loro atti di valore e magari del tutto nascosti) – giorno che è appunto il giorno del giudizio” (Tesi III).

È questa forza messianica, per quanto debole, a dare tensione alla speranza ebraica. Una tensione che – dice Scholem – finisce per togliere “il peso specifico alla persona (…). La cosiddetta ‘esistenza’ ebraica implica in sé una tensione che non può in verità scaricarsi, un fuoco inesauribile” (Concetti fondamentali dell’ebraismo).  Inesauribile esattamente come lo spettacoloso fuoco del roveto nell’Oreb di fronte a Mosè (Es 3,1-2).

 

Daniele Garota

(2. fine)

 

*Relazione tenuta presso la Scuola Biblica Decanale di Treviglio (Mi), il 30/1/2016

 

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