Koinonia Luglio 2016


DAVID MARIA TUROLDO – TRE LIRICHE

 

In margine alla presentazione del libro di Mariangela Maraviglia su Turoldo, lo scorso 4 giugno, nella  suggestiva cornice della Cappella dei Magi di San Domenico, sembra utile sostare sulle tre letture che hanno integrato la stimolante presentazione di Paola Palagi. Si tratta di tre liriche scritte da Turoldo in tempi diversi: la prima (Dio non viene all’appuntamento) fa parte di una delle prime raccolte, Gli occhi miei lo vedranno, le altre due (A stento il Nulla e Oltre la foresta) dei suoi Canti ultimi.

 

              I

Dio non viene all’appuntamento

Ma quando declina questo

giorno senza tramonto?

All’incontro cercato nessuno giunge.

E le pietre bevono

il sangue di questo cuore

ancora per miracolo vivo.

                          

               II

A stento il Nulla

No, credere a Pasqua non è

vera fede:

troppo bello sei a Pasqua!

Fede vera

è al venerdì santo

quando Tu non c’eri

lassù!

Quando non una eco

risponde

al suo alto grido

e a stento il Nulla

dà forma

alla tua assenza.

 

               III

Oltre la foresta

Fratello ateo, nobilmente pensoso

alla ricerca di un Dio che io non so darti,

attraversiamo insieme il deserto.

Di deserto in deserto andiamo

oltre la foresta delle fedi

liberi e nudi verso

il nudo Essere

e là

dove la Parola muore

abbia fine il nostro cammino.

 

È sorprendente notare come Turoldo si muova con estrema disinvoltura tanto in una dimensione intima, personale, lontana dagli altri, quanto in una più collettiva, comunitaria, relazionale. Davvero, come Gesù che prima predicava e poi si ritirava sul monte a pregare, anche lui abitava la città e il deserto. E come David di cui portava il nome passava con frequenza dalla cetra alla spada, Turoldo viveva nei due mondi paralleli ma complementari della spiritualità e dell’agire concreto. Anzi tutta l’energia dispiegata nel promuovere iniziative sociali e politiche, spostando e coinvolgendo masse di amici e di avversari - magari per disturbare gli uni e gli altri -, trova il suo alimento primo nel silenzio del raccoglimento.

È là che Turoldo ritrova il suo Dio e come i profeti gli dà del tu, lo invoca, lo ama. E se non lo sente venire a sé lo rimprovera, come un innamorato deluso dall’estenuante attesa dell’amata (prima lirica):

Ma quando declina questo/ giorno senza tramonto?/ All’incontro cercato nessuno giunge.

Al pari dei mistici Davide concepisce il suo rapporto con Dio come una relazione amorosa, che può illudere e deludere, e vive l’amarezza di chi si sente rifiutato, ignorato. E l’amarezza genera anche risentimento, protesta, quella gelosia che solo chi ama ha il diritto di provare. La solitudine schiaccia e diviene insopportabile, tutto intorno appare come l’icona della condanna all’impotenza:

E le pietre bevono/ il sangue di questo cuore/ ancora per miracolo vivo.

Le parole sono semplici ma non facili, anzi tali da lasciare intravedere tutta una gamma di pensieri, speranze, reazioni. E’ evidente il debito di Turoldo nei confronti dei lirici del frammento, a partire da Ungaretti, e della loro poetica dell’intuizione, dello scorcio: le parole, anche di uso comune ma mai volgari o banali, acquistano significati nuovi, dialogano tra di loro e si sostengono a vicenda per esprimere una condizione esistenziale.Il Dio di Turoldo è amato anche e soprattutto in quanto mistero, inconoscibilità. Davanti a lui i parametri di giudizio e di pensiero saltano, si apre la via del paradosso e della negazione (seconda lirica):

No, credere a Pasqua non è/ vera fede:/ troppo bello sei a Pasqua!

Pare di risentire le affermazioni sconcertanti di Dionigi Areopagita, secondo il quale di Dio non si può sapere assolutamente nulla, e si deve tacere ancora prima di cominciare a parlare di lui. Il Dio di Turoldo non è il Dio vincitore che trionfa sulla morte tornando alla vita, il Dio dei catechismi e delle guerre di religione; è il Dio che si ritrae dal dolore e dal dramma dell’uomo sofferente, abbandonando tutte le croci e tutti i Lager:

Fede vera/ è al venerdì santo/ quando Tu non c’eri/ lassù!/ Quando non una eco/ risponde/ al suo alto grido/ e a stento il Nulla/ dà forma/ alla tua assenza.

E qui c’è il miracolo di questa come di altre fra le più felici poesie turoldiane: la parola umana è inadeguata ad esprimere il contatto e l’esperienza della divinità, ma è più che adeguata a dar conto della disperazione e della creaturalità dell’essere umano lasciato solo a se stesso. Lassù, eco, grido, Nulla, assenza cessano di essere semplicemente parole di uso comune e diventano combinazioni di suoni nuovi in un contesto nuovo, richiamandosi a vicenda.

Dio dunque si allontana, sembra quasi non esistere, non esserci. E la terra diviene di colpo un deserto, come quello già cantato da Eliot e Sbarbaro. Turoldo si guarda intorno e vede gli altri, i suoi compagni di cammino, gli uomini così sicuri e così deboli. Vede se stesso lontano dal centro delle certezze di fede, formule spesso vuote, e delle costrizioni dogmatiche, paraventi che mascherano una sostanziale ignoranza. Il suo è un cristianesimo per tanti aspetti irrituale, anomalo, libero: ‘di confine’ lo definisce il suo grande amico Ernesto Balducci, come lui amato dal popolo e avversato dalle gerarchie. E allora, stando vicino al confine, David vede al di là di esso, a breve distanza da lui, gli esclusi, i peccatori, i materialisti, e dialoga necessariamente, naturalmente, poi sempre più convintamente con loro. E con loro, nuovo Mosè fra il popolo di Israele prescelto e peccatore, si mette in cammino per giungere ad una meta. Il poeta non si rivolge indiscriminatamente a tutti ma solo a coloro che, come lui, rifuggono dalla banalità, dal troppo facile, si interrogano, leopardianamente provano un ‘tedio’ che vuol dire prima di tutto consapevolezza, successivamente disagio e problematicità. L’ateismo a buon mercato esce dall’orizzonte turoldiano, ma vi entra quello tragico e inquieto (terza lirica):

Fratello ateo, nobilmente pensoso/ alla ricerca di un Dio che io non so darti,/ attraversiamo insieme il deserto./ Di deserto in deserto andiamo/ oltre la foresta delle fedi/ liberi e nudi verso/ il nudo Essere/ e là/ dove la Parola muore/ abbia fine il nostro cammino.

Il camminare insieme è possibile solo se prima muoiono le parole eccessivamente identitarie (‘amico’-‘nemico’, ‘noi’-‘loro’, ‘fedeli’ – ‘infedeli’); se ci si scopre tutti in viaggio, stanchi e vuoti  di verità assolute ma pieni di voglia di raggiungerle. Al termine vedremo la Parola morire sulla croce, e non diremo niente. Forse però scopriremo che la meta del viaggio è il viaggio stesso, è dare all’altro la propria fiasca d’acqua, o fasciare la sua caviglia distorta, o cercare con lui e per lui un alloggio al tramonto. Dare un senso alla Parola che muore della morte peggiore.

Oltre o dentro questo mondo in cui tutto scorre, preda del divenire, da qualche parte deve esserci  qualcosa di fisso, ‘il punto fermo dell’universo che gira’ dei Quattro Quartetti di Eliot, il senso del tutto. Ma solo se si è nudi, e liberi, lo si può cogliere, con semplicità ed essenzialità. Le parole della lirica sono simbolo di tutto questo: si spostano sulla pagina, sembrano nuotare in un mare bianco o fuoriuscire da una foresta altrettanto chiara. Invece mare e foresta sono terribilmente oscuri, chi vi cade si smarrisce. Solo insieme si può imboccare la via d’uscita, e come la lirica trova il suo punto fermo così trovare una pace, un senso. Forse l’Altro che ci attende.

 

 

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