Koinonia Luglio 2016


UN RICORDO DI DON FRANCO MARTON

 

Caro Alberto,

don Franco ci ha lasciato con un sorriso, come era nel suo stile. E sono contento che tu abbia avuto l’occasione di conoscerlo assieme all’altro caro amico don Piero, durante una cenetta conviviale appositamente programmata. Ora mi chiedi un ricordo di un amico con cui ci siamo frequentati e confrontati fin dagli anni giovanili dell’Azione Cattolica (lui è entrato in seminario dopo il liceo) e la cosa non mi è facile perché c’è sempre il timore di invadere spazi riservati e delicati del suo vissuto.

In questi giorni sulla sua figura sono state scritte pagine intere di giornali, soprattutto testimonianze di amici e confratelli. E ci sarebbe molto da scrivere e da riflettere sulle sue tre fasi di attività sacerdotale. La prima, come docente di filosofia in seminario, la seconda come cappellano con altri due confratelli in una parrocchia di periferia dove avevano scelto di vivere in affitto in una vecchia e modesta abitazione rifiutando la costruzione di una nuova canonica. Infine, l’ultima fase, la totale dedizione alle missioni con l’incarico di Direttore del Centro missionario diocesano di Treviso.

Ma io voglio ricordarlo solo con un episodio di cui non ho visto traccia in nessun giornale e penso che, coscientemente, non abbia voluto, a suo tempo, diffonderne la notizia conservando per sé quel piccolo segreto per una sua discreta riservatezza, o forse per una sua congenita modestia.

Nei primi anni ottanta scrisse, in una tiratura limitata, un opuscolo dal titolo emblematico “Comunione e comunità a partire dai poveri”, ristampato poi in una seconda edizione dalla EMI editrice.

Successivamente andai a trovarlo in casa della mamma, dove veniva amorevolmente curato dopo il suo primo intervento chirurgico. Sorridente e con gli occhi di un ragazzino che sprizzavano una gioia incontenibile, mi porse una lettera dicendomi di leggerla.

Era una lunga lettera scritta di suo pugno dal Card. Martini che lo invitava a Milano a discutere e spiegare il testo di quell’opuscolo che l’aveva profondamente colpito. Più tardi mi raccontò nei dettagli l’incontro con Martini, la sua ospitalità in curia, la condivisione della mensa e l’interesse dell’arcivescovo sul “come” poter attualizzare quelle idee nella sua diocesi. Ecco il chiodo fisso di don Franco: i poveri, gli ultimi. E poi i diversi, i non credenti per cui aveva dato vita a Treviso al “Cortile dei gentili”.

Attribuiva molta importanza alle relazioni interpersonali e pertanto, spesso, con mia moglie e don Piero, lo portavamo in un piccolo ristorante da lui scelto, a mangiare un boccone e a dialogare confrontandoci sui più disparati argomenti. 

Ma nessuno ha scritto che era anche un grande appassionato di arte. L’ultima mostra che volle visitare a Firenze, nonostante gli mancassero le forze, fu la mostra di arte sacra “Bellezza divina”. Tornò affascinato dalla “Crocifissione bianca” di Chagall.

Due giorni prima di morire andai a salutarlo con mia moglie non pensando che fosse l’ultima volta. Ci accolse con il solito sorriso e ci consegnò una busta scusandosi per non averla potuto spedire prima. Conteneva una cartolina con la “Resurrezione” di Piero della Francesca e sul retro aveva scritto di suo pugno, oltre al saluto, la poesia di Mario Luzi “Infine crolla su se medesimo il discorso…”.

Un abbraccio fraterno

 

Bruno Antonello

 

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