Ettore De Giorgis ci parla ancora
La prima
"serata di convento" ha coinciso col decimo anniversario della morte
dell'amico Ettore De Giorgis, e l'abbiamo voluta dedicare a lui, non solo
facendone memoria nella celebrazione eucaristica, ma anche dando ascolto alla
sua parola.
In qualche
modo, attraverso un suo scritto (di cui riportiamo una breve sintesi nelle
pagine seguenti), egli è intervenuto a darci il senso di questi incontro
"conventuali" ed anche nel dibattito in corso su "La Chiesa in
forma-convento": una parola franca e chiara di un vero "monaco"
o "frate" in cammino per il mondo, che ci illumina e ci orienta nella
spiritualità del Popolo di Dio.
L'ascolto
di chi ha partecipato alla serata è stato interessato e stimolante, utile a
riprendere problemi e prospettive lasciati troppo facilmente cadere o gettati
dietro le spalle, vedi ad esempio il fenomeno delle comunità di base. La
speranza è che vengano ripresi e riportati al centro della nostra attenzione,
per essere esaminati con lo spirito di discernimento e con la passione di
credente, che Ettore ci ha lasciato in eredità.
Il “ressourcement”
(ossia un ritorno alle motivazioni
profonde, originali, sotterranee dell’azione) è alla base dell’interesse che molti laici, come me, hanno
provato e provano per il monachesimo, o meglio, per certe esperienze
monastiche, italiane e straniere. Certo non occorre farsi troppe illusioni. Il “gran corpo” del
monachesimo, soprattutto in Italia, è spesso attardato e provinciale: non direi
tanto che esso esprima una visione troppo verticale e troppo poco
incarnazionista; anche questo è vero, ma il più grave non mi pare risiedere in
tale accentuazione unilaterale, quanto piuttosto nel peso eccessivo accordato
all’istituzione. Ora, nessuna delle esperienze di avanguardia nega la necessità
di una istituzione, semplicemente la relativizza: l’istituzione deve rinnovarsi
per poter esprimere i “valori permanenti”, e per rinnovarsi deve saper morire a
se stessa.
Le esperienze monastiche
di avanguardia hanno accettato la sfida con il presente e con il futuro:
non tutte le loro iniziative e
aperture resisteranno alla prova del tempo; ma io sono certo che alcune di esse contribuiranno in modo originale
all’opera, che è richiesta a tutti i cristiani, ed anche ai non-cristiani, del
nostro tempo: l’elaborazione di un nuovo modo di vivere in un inondo per certi
aspetti sempre più invivibile; e, per i cristiani, un nuovo modo di vivere la
fede in un mondo rinnovato. Non si dimentichi che tali comunità monastiche si
vogliono in attitudine di ricerca: ciò comporta da un lato che non ci si deve
scandalizzare per certe loro arditezze; e, d’altra parte, che la loro
prospettiva, a differenza di quella delle “comunità sicurizzanti”, le porta a
guardare al futuro sono delle vere “comunità abramiche”. (...)
Sottoporre la tradizione
al giudizio della Scrittura
Nessuna istituzione può
permettersi la staticità : sarebbe condannarsi a morte. Ora, l’evoluzione è più
facile per il monachesimo che per altre strutture ecclesiastiche, dato il
carattere indicativo, e non vincolante, della Regola.
Il monachesimo di domani
sarà come i monaci lo costruiranno. Certo, per i litteralisti [e per i
fondamentalisti] i testi dei fondatori costituiscono un ostacolo per il
rinnovamento ; ma il mutamento culturale che attraversiamo richiede nuovi
principi di interpretazione (del resto, Benedetto interpretò le Regole
precedenti, e i riformatori successivi diedero diverse interpretazioni della
Regola benedettina): la Regola non è un libro di pietà, e pertanto va letta in
modo critico, affinché tale esegesi permetta di cogliere il senso; tale
lettura, inoltre, non deve essere fedele alla lettera, poiché si tratta di
storicizzare e di attualizzare la Regola. E’ arbitraria l’opposizione tra la
tradizione e la vita, poiché questa si radica in quella: più si è penetrati di
tradizione, afferma Besret, più si è liberi di inventare nuove forme con cui
esprimersi nel modo contemporaneo. Non bisogna confondere tradizione con
istituzione. (...)
Esiste una specificità
monastica?
Pur non essendo la
pratica dei consigli evangelici una esclusiva dei religiosi, ma una proposta
rivolta a tutti i seguaci di Cristo, ciò che caratterizza i religiosi è che
essi hanno radicalizzato la proposta evangelica mettendosi insieme, per
consentire una continuità a questa radicalizzazione... L'essenziale della vita
monastica e religiosa (quella cioè delle comunità religiose) consiste
nell'essere discepoli del Cristo entro una comunione". E' questa la
"specificità monastica" per Giovanni Franzoni. A me pare che tale
gisutificazione sia teoricamente debole: il radicalismo evangelico può essere
vissuto da qualsiasi cristiano, la comunità non è soltanto quella "religiosa",
ma ogni comunità di fede. resta il fatto della comtinuità,oossia della
tradizione: ma questa ha un radicamento biblico e una giustificazione
teologica? Tutto dipende dalla risposta che si dà a questa domanda (...)
Monachesimo e comunità
di base
Il mondo moderno,
nell’area cristiana come in quella non-cristiana, è caratterizzato da una
riscoperta dei valori comunionali e comunitari. Vi è il rischio che le piccole
comunità elaborino un’ideologia micro-sociale e formino tanti piccoli ghetti ;
e vi è pure il pericolo opposto, che cioè esse vengano recuperate, al prezzo di
qualche concessione di dettaglio, dai sistemi economici, politici,
ecclesiastici. Si devono pertanto inventare con urgenza dei nuovi mezzi di
comunicazione, che non siano strumenti di sottomissione. Per quanto riguarda in
particolare le comunità cristiane di base, occorre creare dei nuovi rapporti
tra la comunità e l’istituzione. Ciò significa che si deve creare una nuova
ecclesiologia.
A dire il vero, io sono
scettico sull’avvenire delle parrocchie, tipica istituzione di cristianità.
Comprendo però che, dal momento che le parrocchie esistono, non si possono
ignorare, in attesa - è il mio augurio - che siano gradualmente sostituite
dalle comunità ecclesiali di base. Al presente, il rapporto comunità di
base-chiesa locale non può ignorare la differenza fondamentale che le
caratterizza: “Una comunità locale o parrocchiale non raggiunge più i suoi
compiti di missione, perché il fatto del luogo dove si abita non è più
determinante, mentre lo è l’appartenenza a determinate associazioni o ideologie
... La chiesa locale o parrocchiale, in altre parole, non è più in grado di
offrire, ossia di contenere e di esprimere, la “chiesa-comunità”. Di qui nasce
il compito necessario delle forme associate, delle comunità religiose vere e
proprie fino alla fraternità” (G.Di Agresti). Ed è qui che il monachesimo può
riscoprire una nuova funzione e riacquistare una vitalità inaspettata.
Sopratutto per due motivi: perché il monachesimo è sorto come fenomeno di
critica alla Chiesa installata e tale caratteristica non l’ha mai del tutto
dimenticata, anche nei periodi in cui si è maggiormente clericalizzato, ed è in
grado quindi di comprendere il “cristianesimo critico” delle comunità di base;
in secondo luogo, vi è oggi una grande richiesta di valori monastici:
l’attrattiva dell’Oriente non si deve soltanto alla droga, né lo yoga significa
sempre evasione ed esoterismo ... Ora, a causa del suo ritardo culturale, il
monachesimo tradizionalistico è rimasto fuori
del movimento comunitario, confinandosi in un’astrazione atemporale: è la sorte
di tanti nostri monasteri, che sono diventati dei musei sempre più frequentati
dai turisti. Questo non avviene a Camaldoli come non avviene a San Paolo (ma
come sarà dopo la partenza di Franzoni?): ma queste sono eccezioni, perlomeno
in Italia.
Il monachesimo, sia che
operi un’osmosi con le comunità di base (è il caso di San Paolo), sia che
diventi un luogo, non soltanto geografico, di accoglienza per esse (come a
Camaldoli, a Bose, a Boquen), può svolgere una funzione critica all’interno dei
valori comunionali, ricordando che la storia, opera dell’uomo, è giudicata da
Dio. Troppi gruppi sono rimasti allo stadio della critica alle istituzioni :
ora, questa è una battaglia di retroguardia. Noi viviamo una crisi di identità,
ossia una crisi della confessione di fede, dal momento che le vecchie formule
appaiono sempre più inadatte ad esprimere un senso: e la fede, quando non è
confessata, rischia di morire. Come scrive Besret, “il inondo moderno ... ha
bisogno di monaci, di ‘monoi’, cioè di uomini avanzati sulla via della loro
unità e della loro libertà interiori, che vivano non nella nostalgia dei secoli
passati, ma nel cuore di questo ventesimo secolo che è insieme esaltante e distruttore,
e anche, se possibile, nella prospettiva del ventunesimo secolo”. Il
monachesimo, così liberato, può divenire strumento di liberazione, non solo per
le comunità di base, ma particolarmente per esse, perché queste sono un
fermento di speranza, fragile e per questo bisognose di maggior attenzione. A
questi “cristiani dell’avvenire” occorre ricordare che il cristiano deve
incessantemente ritornare al nomadismo della fede, all’esodo, alla fede
abramica, e che a Dio ci si abbandona in un’alleanza senza condizioni, perché
Egli, ed Egli soltanto, è sempre fedele. Come scrive François Biot, “noi siamo
forse ritornati a questa tappa già molto antica della traversata del deserto, o
della cieca marcia di Abramo verso il luogo che un personaggio misterioso gli
aveva promesso: egli non attese di sapere ove andava per partire, fidandosi
solo della promessa di Dio. Non vi è nessuna ragione in contrario a che noi
siamo oggi chiamati ad una simile avventura”. Questo annuncio l’ho inteso
proclamare, sia pure con accentuazioni diverse, da padre Calati e da Bernard
Besret, da Giovanni Franzoni e da Enzo Bianchi: ma vorrei scorgere in tutti i
monaci questa dimensione abramica.
Ettore De Giorgis
da “Vita monastica”,
Anno XXVII n.115 –
Ott.-Dic. 1973, pp.238-69