L' ECUMENISMO DI PAOLO VI
E DEL CARD. ALFRINK
Quest'anno ricorre il
decennale della morte di Paolo VI e tante cose si scriveranno sul suo conto. Io
credo che uno degli omaggi più belli glielo abbia reso il teologo domenicano
Yves Congar, in un capitolo del suo ultimo libro (1), dedicato per l'appunto
all'ecumenismo del Papa defunto. Giovanni XXIII ha avuto un'intuizione
ecumenica, benché la sua ecclesiologia fosse conservatrice; e il Concilio
voleva sì essere ecumenico, ma di un ecumenismo a portata d'uomo. Paolo VI gli
diede un impulso straordinario, facendo capire che l'ecumenismo va orientato
secondo la visuale di Dio. Scrive Congar: “Vedete quanto stimo Paolo VI, che mi
appare un gran santo, profondamente intelligente, riflessivo, prudente,
metodico. Paolo VI non ha mollato e c'è stato un seguito ecumenico del
Concilio” (p.39).
La “Lumen gentium”
(11,15) e la “Unitatis redintegratio” (3) definiscono la Chiesa come una
comunità imperfetta tendente alla pienezza e Paolo VI applicò tale definizione
anche per l'ortodossia (con la quale disse che vi era una comunione quasi
perfetta); ma anche le altre chiese
separate hanno vissuto realtà cristiane che possiedono e che hanno sviluppato.
In tal modo il valore normativo cui fare riferimento non è più un confessionalismo
chiuso (sia pure quello di una Chiesa cattolica “aperta”), ma è Gesù, e con lui
il Vangelo.
E' tale convinzione,
umile e fidente, che rende possibile la straordinaria e sconvolgente
confessione contenuta nel discorso di apertura della II sessione del
Concilio (29 settembre 1963), ripresa
nel congedo dagli osservatori non-cattolici durante la celebrazione a S.Paolo
fuori le mura (4 dicembre 1965): “Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per
tale separazione, noi ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo venia
altresì ai fratelli che si sentissero
da noi offesi; e siamo pronti. per quanto ci riguarda, a condonare le offese di
cui la Chiesa cattolica è stata oggetto, e a dimenticare il dolore che le è stato
recato nella lunga serie di dissensi e separazioni” (p.145).
Ma non meno che nelle
parole, i sentimenti di Paolo VI hanno
trovato espressione in alcuni gesti simbolici, di cui aveva come un carisma.
Quando parla di “chiese sorelle” riferendosi sopratutto alla stretta parentela
tra Roma e Costantinopoli (del resto l'espressione è di origine orientale), ciò
significa, scrive giustamente Congar, che
Roma non può più presentarsi come “Madre e Maestra”, e che la nostra
ecclesiologia va rivista in profondità. E quando bacia i piedi al metropolita
Melitone di Calcedonta (il 7 dicembre 1975), non si inganna il patriarca
Dimitrios che commenta: “Paolo VI ha superaro il papato”, nel senso che questo
può diventare, anziché ostacolo per l'ecumenismo, un servizio di unità. E
ancora, quindi infila il suo anello nel dito del reverendo Michael Ramsay,
primate della Chiesa anglicana, dopo una celebrazione comune a S.Paolo fuori le
mura, il 25 marzo 1966, il problema
delle ordinazioni anglicane, che egli era intenzionato ad aprire, era già,
secondo Congar risolto nel suo spirito
Per riprendere una
distinzione cara ad Hans Kueng, si può senz’altro affermare che l'ecumenismo di
Paolo VI non era razionale (in quanto opera primaria di Dio) ma certo
ragionevole. Io amo sempre richiamare all' attenzione di certi miei amici
impazienti la sua teoria dei cerchi concentrici: prima l'intesa va cercata tra i cristiani, poi con
le altre “religioni del Libro” (Ebrei e Islamici), quindi con le grandi (e meno grandi) espressioni
religiose mondiali. Nessun irrazionalismo, nessun “ecumenismo a tutto campo”.
Certo che la ricerca religiosa non esclude l’apertura al mondo profano, anzi la
esige, ma anche questa richiede gradualità: la Bibbia ci insegna che la
pedagogia di Dio è paziente e non salta le mediazioni. Perché tale ecumenismo è
esigente e non si contenta di un irenismo di bassa lega, come è quello di
coloro che vogliono sempre “agire insieme”, che idolatrano lo spontaneismo e che non sopportano che si parli di
teologia: come se con il trionfo della “indocta ignorantia” venissero meno
tutti i problemi della disunione dei cristiani.
Il 16 dicembre 1987 è
morto all'età di 87 anni il cardinale olandese Bernhard Alfrink , che insieme
ai cardinali Suenens, belga, e Koenig, austriaco, nonché al patriarca melkita
Maximos IV, fu una delle grandi figure del Concilio Vaticano II. Lo accomunava
a Paolo VI una grande cultura, lo distanziavano da lui una più grande serenità
ed una minore reticenza. Per questo divenne un portabandiera per i
“progressisti”, lui che non era
“progressista”, ma semmai era audace e sapeva affrontare in modo
calcolato il rischio, il che non ha niente a che fare con il “progressismo” ecclesiale.
Il cardinale Alfrink era
anch'egli responsabile di una Chiesa, che doveva tenere unita, ma la Chiesa cattolica d’Olanda era una
comunità omogenea, che “parlava
teologia”, e che marciava quindi al passo dei teologi: e questi, in campo
ecumenico, erano già tanto prossimi ai loro colleghi protestanti da poter dire
che l'accordo interecclesiale fosse quais perfetto. Al contrario, Paolo VI si
è trovato a dover reggere la “grande” chiesa cattolica, ieri come oggi realtà assai eterogenea, e,
quello che è più grave, in gran parte
estranea se non addirittura allergica al discorso teologico: il suo compito, la
sua missione fu quella di fare avanzare in teologia e in ecumenismo questo gran
corpo riluttante.
Queste diverse
incombenze e vocazioni furono anche all'origine di vicendevoli incomprensioni e
diffidenze: era difficile (lo è ancor oggi, ma meno) giudicare da Roma la realtà
olandese, ed era altrettanto difficile per i cattolici dei Paesi Bassi
comprendere le riluttanze e le diffidenze di Roma.
E invece si trattava,
nei due casi, di carismi complementari: al cardinale Alfrink era stata
assegnata la semina, a Paolo VI il raccolto.
Noi eravamo più vicini - allora soprattutto, o forse anche adesso - all'atteggiamento dirompente che era tipico
del Card. Alfrink. Che significa ciò? Significa anche - se pure non soltanto -
che noi non avevamo, e non abbiamo, il carisma conciliativo, in ogni caso non
alla maniera di Paolo VI.
Ettore De Giorgis