RIFLESSIONI SUI SALMI (II)
L’ESPERIENZA DELLA MORTE
La morte è
all'orizzonte, di molti salmi, costituisce lo sfondo su cui si disegna la
vicenda dell'autore, il quale vede da vicino la fine: non si tratta soltanto di
una situazione sfortunata, anche se questa è spesso presente, in quanto la
morte non è qualcosa di congiunturale, essa fa parte della struttura di ogni
essere vivente, anche se solo nell'uomo essa si la “coscienza di morte”. Il
destino universale della vita è di confluire nella morte. Se il male è
radicale, è però un mistero e un prodigio che chi è passato lungo tale
esperienza - sfiorandola fisicamente ma abbandonandosi ad essa con la volontà -
sia poi colui che, unico, può parlarne a tutti gli uomini: la sua esperienza
acquista un valore universale, come pure la sua preghiera a Dio, che solo può
liberarci dalla morte. Quale differenza dalle nostre preghiere! da codeste
suppliche - come del resto da tutta la nostra vita – il pensiero della morte è
stato evacuato, perché così ci hanno insegnato affinché potessimo “vivere bene”
e quando è presente essa è la morte di un altro o è la paura del nostro
trapasso... Qui invece è l'esperienza della morte che rafforza la fiducia nella
vita. I salmi, infatti, sono la preghiera del vivente e del morente, queste due
preghiere ne formano una sola, poiché Dio non si manifesta soltanto al termine
della vita, è già presente lungo il nostro cammino di pellegrini.
Questa prospettiva non è
esclusiva dei salmi, si ritrova in tutte le religioni (con una accentuazione spiccata
in quelle indiane), poiché Dio si rivela a tutti gli uomini. Tuttavia soltanto
Gesù ha dato una risposta definitiva agli interrogativi angosciosi che
caratterizzano il misterioso rapporto della vita e della morte, e tale risposta
può e deve essere annunciata a tutti gli uomini, dal momento che essa si
presenta come un avvenimento di vittoria sulla morte. Nella sua sofferenza Gesù
ha unificato tutte le sofferenze di tutti i tempi: egli è l'uomo umiliato,
circondato, tradito, morente che ci viene presentato con tanta insistenza nei
salmi, ed è attraverso la sua croce che passa lo Spirito di vita e di speranza,
lo Spirito della nuova creazione. Egli non muta la lettera dei salmi, ma li
purifica, facendo passare in questa lettera, in questa dura realtà umana, lo
spirito di vita.
Come nota molto
giustamente Paul Beauchamp, il salmo 22 (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?") ebbe sempre un ruolo privilegiato nella meditazione dei
cristiani, poiché nessun salmo come questo ci fa sentire così prossima la
morte, ma nello stesso tempo ci fa intravedere quello che è situato oltre la
frontiera della nostra mortalità. Pertanto egli dedica una lunga riflessione a
questo straordinario poema di morte e di vita, e sarà opportuno seguirlo in
alcune sue suggestioni. Poiché mai alcun salmista.descrisse tanto da vicino la
lotta contro la morte, né mai andò così vicino alla vittoria, da questa
situazione paradossale nasce la promessa di un avvenire incomparabilmente
radioso. L'unità di lode e di lamento ha una valenza personale e comunitaria,
anch’essa paradossale: l'autore celebra infatti la storia di Israele che - qui
come altrove - è la storia delle sue suppliche esaudite; gli inni del popolo
ebraico tramandano le azioni compiute da Israele sotto la guida di Dio, ma
Israele si riconosce nei padri, non nell'autore del salmo 22, che è obbrobrio
per il suo popolo.
Questo salmo,
imparentato con il 69, il 71, il 102 e forse anche con il 42-43, pare riferirsi
ad un re ebraico e segna una svolta nella storia di Israele; può darsi che
esso, come il 102, sia stato composto nel tempo dell'esilio, anzi, il commento
ebraico lo riferisce ad Esther, il cui racconto sarebbe all'origine della festa
delle "sorti" (il Purim). Forse la redazione finale, compreso
l'invito alle nazioni, è posteriore. Paul Beauchamp inclina ad accettare
l'ipotesi secondo cui l'autore dell'aggiunta avrebbe dato un senso messianico
ad un'esperienza più particolare e limitata.
La risposta viene al
salmista quasi alle soglie della morte: si passa di colpo, e senza motivo
apparente, dalle lacrime alla gioia, e muta in modo sorprendente soprattutto il
livello relazionale, poiché prima l'autore era solitario nel suo dolore, poi
convoca il gruppo per la lode. Anche Gesù affrontò solo la passione e la morte,
abbandonato da Dio e dagli uomini, mentre dopo la risurrezione condivide con i
suoi amici la sua nuova condizione di Vivente. E noi pure troviamo difficoltà a
comunicare in profondità con gli altri quando soffriamo, mentre difficilmente
riusciamo a mantenere chiusa nella nostra intimità l'abbondanza di gioia. Nel
salmo 22 i cristiani leggono un duplice annuncio, o meglio, un annuncio che ha
un duplice livello: quello al popolo riguarda la realtà prossima, l’inno alle
nazioni ciò che ha un risvolto più lontano. La compenetrazione nel senso
letterale e di quello allegorico serve a farci comprendere che la salvezza è
insieme vicina e lontana, che la pienezza del corpo di Cristo, il “pleroma” di
cui parla Paolo, si costruisce già in terra, anche se il suo compimento si avrà
soltanto nel Regno di Dio.
Viene spontaneo il
paragone tra il salmo 22 e la profezia del Servo sofferente di Jahvè,
introdotta nel Deutero-Isaia in periodo relativamente tardo, e che resta la più
incisiva prefigurazione vetero-testamentaria della passione e della morte di
Gesù. Ma vi sono tra le due profezie alcune differenze importanti:
- nel salmo 22 si
richiede soltanto una risposta da parte di Dio, mentre nel secondo Isaia Dio dà
realmente ed in modo inequivocabile la sua risposta, che è insieme un giudizio
(sul Servo e sui suoi persecutori) ed un'assoluzione (per coloro che si
macchieranno del sangue innocente);
- il Servo è morto, e
sono altri che parlano di lui e che, dopo aver riconosciuto l'innocenza e la
santità della vittima, si dichiarano colpevoli: Dio non li accusa, e la loro
ammissione di colpa, il loro pentimento li redime dal male;
- attraverso la morte
del suo Servo, Dio giustifica gli uomini, anzi, è Dio che ha condotto il suo
prediletto a tale sofferenza, perché egli fosse veramente quel "peccatore
innocente" di cui parla Bonhoeffer, caricato del peccato degli uomini
perché questi potessero rivestirsi della giustizia dell'innocente; nella II
Lettera ai Corinzi questo paradossale comportamento della benevolenza divina è
espresso da Paolo con espressioni di un'audacia strabiliante, la cui
immediatezza si coglie soltanto nella letteralità del testo greco: “Per noi
(Dio) ha fatto peccato colui che non conobbe il peccato, affinché in lui noi
diventiamo giustizia di Dio" (5,21);
- dopo la morte del
giusto, questi è visto con altri occhi, poiché egli svela agli uomini il loro
peccato, che essi prima non riconoscevano (e non si dimentichi che nella Bibbia
il peccare significa credere al potere della morte);
- il Servo non riprende
più la parola dopo la sua morte (a differenza di quanto avviene in Giona, altra
prefigurazione di Gesù, dopo i tre giorni di sepoltura nel ventre del cetaceo,
ossia della terra): sarà Dio a parlare per lui, ad esaltarlo e a dargli il nome
che è al di sopra di ogni nome, come afferma l'inno della Lettera ai Filippesi.
Dal salmo 22, come dalla
profezia del Servo di Jahvè (quest'ultima prefigurazione più prossima di Gesù
"giustizia di Dio") emerge lo stesso concetto: Dio domina la morte,
per cui quando ci conduce ad essa non può farlo che come salvatore, perché
l'esperienza della morte è come un antidoto, necessario per poter trionfare
definitivamente su di essa. Resta il fatto che l'intervento di Dio avviene dopo
la morte, ed è nascosto nel segreto: noi vorremmo saperne di più, ma questo non
è possibile, e allora tante volte ci ribelliamo e ci desoliamo. Capitava già ai
salmisti. La speranza è un'attitudine difficile, oggi come ieri.
Il sommo male è la
morte, non la morte fisica, ma la morte nella sua integralità, che corrode
l'anima insieme al corpo. Sta scritto infatti: "Perché Cristo deve regnare
finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a
essere distrutto sarà la morte" (1 Corinzi 15,25-26). Eppure la morte può
spesso sedurre: è questo il nucleo più oscuro del mistero del male. Che cos'è
infatti il peccato se non una scelta di morte, di una morte tanto abilmente
mascherata da riuscire a far credere che essa sia la vita? Perché ognuno aspira
alla vita, e sceglie la morte credendo di aver optato per la vita. I salmi ci
svelano come funzionano le maschere del male: la menzogna, l'ipocrisia, lo
stravolgimento del bene... Perché anche il bene che si serve del male per
imporsi non è altro che una caricatura del bene. La riflessione si fa qui amplissima
ed articolata, poiché la storia e le singole esperienze sono piene di esempi
che comprovano nel concreto questo paradosso della condizione umana.. “Nel mio
intimo io sono d'accordo con la legge di Dio, ma vedo in me un'altra legge che
contrasta fortemente la legge che la mia mente approva e mi rende schiavo della
legge del peccato che abita in me. Eccomi dunque, con la mente, pronto a
servire la legge di Dio, mentre, di fatto, servo la legge del peccato. Me
infelice! la mia condizione di uomo peccatore mi trascina verso la morte: chi
mi libererà? Rendo grazie a Dio che mi libera per mezzo di Gesù Cristo, nostro
Signore"' (Romani 7,22-25).
Ettore De Giorgis
(2. continua)