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Il nome “Cumani”, in epoca medievale, indicava popoli e paesi al di fuori della cristianità, intesa come territorio e come civiltà. Se oggi parliamo ancora di loro è grazie a san Domenico, che ne ha fatto il simbolo o il prototipo di quanti sono ancora in attesa di ricevere il vangelo per la prima volta: se per lui sono rimasti un sogno, per i suoi sono diventati una eredità. Oggi parleremmo di lontani, di non-credenti, di diversamente credenti, di "Dio senza Dio" (vedi p. 38), insomma di un mondo o emancipato da riferimenti a Dio o con riferimenti dubbi o controversi. Ecco perché i Cumani sono diventati un richiamo ineludibile per i seguaci di san Domenico, un po’ come per Paolo la voce del Macedone che gli diceva: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (Atti 16,9).
Bisognerebbe però che tornassero ad essere il loro "sogno", il motivo ispiratore e orientativo della loro coscienza, il luogo teologico da raggiungere, se è vero che la “predicazione del vangelo” è la ragion d’essere di una chiesa nel mondo. E se è vero che anche oggi siamo in un cambiamento d’epoca da far lievitare in senso evangelico come terra di missione: qualcosa che non avviene semplicemente con una modernizzazione di mezzi, di organizzazione e di strategie pastorali, ma che dovrebbe invece venir fuori da un rapporto e un coinvolgimento di vita.
Il genio o il carisma di Domenico non è stato tanto quello di esercitare un ministero ben definito ad intra quanto piuttosto quello di scoprire e aprire strade in cui farsi portare dal vangelo. E se il centenario della sua morte deve indurci a qualcosa, è proprio al risveglio di questa coscienza come asse portante e principio guida del nostro cammino. L’immagine de “La sainte prédication" (La santa predicazione) ci riporta alle origini di Prouille, di cui si parla ampiamente in "Il ritorno di san Domenico" da pagina 8. Se il suo carisma è la "Grazia della predicazione", la predicazione rimanda sempre alle origini!



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