2 luglio 2023 - XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

 

Stefano di Giovanni di Consolo detto Il Sassetta: Il profeta Eliseo (1423)

Cuspide della Pala dell'Arte della Lana

 Siena, Pinacoteca Nazionale

PRIMA LETTURA (2 Re 4, 8-11. 14-16)

 

Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.

Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che  passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».

Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò.

Eliseo [disse a Giezi, suo servo]: «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio». Eliseo disse: «Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».

 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 88)

 

R. Canterò per sempre l’amore del Signore.

 

Canterò in eterno l’amore del Signore,

di generazione in generazione

farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,

perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;

nel cielo rendi stabile la tua fedeltà». R/.

Beato il popolo che ti sa acclamare:

camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;

esulta tutto il giorno nel tuo nome,

si esalta nella tua giustizia. R/.

Perché tu sei lo splendore della sua forza

e con il tuo favore innalzi la nostra fronte.

Perché del Signore è il nostro scudo,

il nostro re, del Santo d’Israele. R

 

SECONDA LETTURA (Romani 6, 3-4.8-11)

 

Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.

Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.

 

VANGELO (Matteo 10, 37-42)

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:

«Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.

Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.

Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 

 

In altre  parole…

 

Senza dimenticare le tante guerre in atto sulla faccia della terra, c’è il dramma del presente che si annuncia come imprevedibile rivoluzione demografica per il domani: quello che oggi è il fenomeno dell’immigrazione inteso come emergenza si sta rivelando di fatto un fenomeno emigratorio tra continenti, fino a trasformarsi domani in trasmigrazione di popoli e tra nazioni. È in questo orizzonte che ci è dato di ascoltare la Parola di Dio annunciata per la XIII domenica, semplici episodi di cronaca, istruzioni particolari nel rapporto personale con Gesù che insegna, ma al tempo stesso grandezza e profondità del mistero di partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo Signore nelle parole di Paolo: fatti e comportamenti minimi e singolari, che però rivelano dimensioni esistenziali di proporzioni veramente universali. Ma come si corrispondono e comunicano tra loro questi due mondi, quello della storia corrente e quello della fede attualizzata?

 

C’è in effetti una chiesa che, alla pari di altre chiese, propone principi di fraternità ed azioni umanitarie, con l’esortazione a trovare soluzioni politiche alla immigrazione, che restano lettera morta. D’altra parte, sarebbe illusorio pensare che possa essere questa la via di risoluzione ad un problema di proporzioni crescenti, che mal si piega a formule tecniche, se non si trovano nuovi parametri di pensiero, di azione e di scelte per un assetto futuro. E allora non rimane che la resa e continuare a muoversi su piani diversi? Risolvere tutto in preghiera da una parte e rassegnarsi alla fatalità storica dall’altro? Cosa ne è, alla fine, della Parola di Dio al di là dei buoni sentimenti, del proprio comportamento morale, e infine del mistero stesso della redenzione?

 

Tutto questo discorso nasce dal fatto che la parola chiave delle tre letture sembra essere “accoglienza”, la parola ricorrente nelle tragedie del mare, nella inadeguatezza delle strutture, nel dibattito politico e nella opinione pubblica. E forse è proprio qui che la Parola di Dio interviene, a farci vivere nel piccolo quanto speriamo possa realizzarsi anche nel grande: e cioè il fatto che non si tratta solo di accoglienza a senso unico, ma che maturi e ci sia sentimento e senso di ospitalità: ciò che implica reciprocità, corresponsabilità, inculturazione, integrazione. A questo punto, da parte di una chiesa strumento di vangelo non basta l’impegno operativo che peraltro non può mancare, così come non è sufficiente la proclamazione di principio e l’esortazione morale: sarebbe giusto che in ogni sua dimensione e manifestazione la chiesa diventasse luogo e scuola di ospitalità a 360°, sacramento o strumento di alleanza, dove la potenza della fede sia la fonte della sua presenza tra gli uomini, senza altre qualifiche. L’esempio e la consegna sono chiari: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri” (Gv 13,14). Il pensiero va immancabilmente a quanti questo servizio lo stanno facendo anche materialmente, ma con quale corrispondenza?

 

In ogni caso, il profeta Eliseo, di cui si narra,  ci fa intuire il significato e la potenza quasi sacramentale della ospitalità, là dove lo Spirito di Dio passa e si fa sentire. Possiamo pensare a Betania e a quanto Gesù abbia incentrato tutta la sua predicazione del Regno sulla pratica della ospitalità, lui che si fa ospite ma che in realtà ospita, in una dinamica vitale che certamente non ritroviamo nelle nostre strutture pastorali standardizzate. È lui stesso, del resto, a parlarci di questa circolazione di vita che dovrebbe caratterizzare la stessa comunicazione evangelica: “Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto”. L’ospitalità ha un valore di grazia intrinseco non riducibile alle sue condizioni materiali. Così, anche un bicchiere di acqua fresca dato ad uno dei discepoli in quanto tali, non finisce lì ma ha un'ampia risonanza e crea legami profondi di comunione.

 

Ma tutto questo non è solo frutto delle nostre buone intenzioni, se prima non facciamo il vuoto in noi stessi e non orientiamo il nostro cuore su Cristo Gesù, fino a perdere la propria vita per causa sua, perché sia lui la nostra vita in tutto e per tutto. Se noi poi accogliamo lui totalmente, anche chi accoglie noi è come se accogliesse lui. Non solo, ma accogliendo lui è come accogliere colui che l’ha mandato: dove il dono di grazia intrinseco a questa circolazione di ospitalità emerge come comunione. È soprattutto su questo che Gesù ha puntato per assolvere la sua missione e per operare una trasformazione dell’umanità dall’interno come un pugno di lievito nella massa e sale della terra. Ma quanto siamo convinti che è qui il punto di appoggio per sollevare il mondo?

 

Messi a confronto con quanto il problema dell’emigrazione rivela della nostra umanità, non si può certamente trovare una risposta adeguata, ma c’è sempre la possibilità di un nuovo inizio, di una storia diversa, di un altro mondo possibile. Ma perché questa germinazione avvenga, c’è da affondare le radici nella verità di Cristo, il quale “venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome” (Gv 1,11-12). Essere tralci della vera vite che portano frutto: non è questo il vero dramma che attraversa la storia e che si consuma nella chiesa?

 

Non è altro, in fondo, che l’emergere della nostra condizione di battezzati e quindi di immersione o sepoltura nella morte di Cristo, perché per mezzo della gloria del Padre possiamo camminare in una vita nuova, considerandoci morti al mondo del peccato, “ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”. Il fatto è che questa nuova condizione di vita viene risolta in spiritualità aggiuntiva per addetti, in moralismo  di maniera o in cultualismo gratificante, e difficilmente  arriva ad avere un valore esistenziale e strutturale: a diventare modo di essere e di sentire di nuclei comunitari.

 

Se, cambiando ancora linguaggio, ci consideriamo membra del Corpo di Cristo, la realtà che emerge è la centralità del corpo rispetto ai tanti possibili vestiti di stagione o ai tanti comportamenti del momento: “La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito” (Lc 12,23). Viene da chiedersi se non ci preoccupiamo più del cibo e del vestito che della vita e del corpo. La vera sfida è di vivere in Cristo e di Cristo, al di là c delle mode e delle modalità di apparire. Diciamoci francamente che la nostra fede non è la pietra o la roccia  su cui edificare la chiesa, ma è una “fede liquida” che prende via via la forma dei recipienti: ha perso il suo peso di realtà per presentarsi nei suoi tanti significati, ha perso la sua proprietà di sale per acquisire i più diversi sapori.

 

Questo non vuol dire sottovalutare impegni e responsabilità di ordine storico per rifugiarsi in qualche bolla religiosa o devozionale, ma vuol dire far fronte alla nostra storia umana con tutti se stessi e non solo con buone intenzioni o slanci di generosità per questa e quella causa: come soggetti di quella fede che salva. Guardando al dramma indicibile della trasmigrazione dei popoli in cui siamo e saremo immersi, possiamo prospettarci soluzioni tecniche al problema, ma non sarebbe poca cosa se le molte o poche comunità cristiane coltivassero e infondessero un sentimento di ospitalità, che ci portasse al di là di luoghi comuni, di pregiudizi, di schematismi consolidati, e ci infondesse la necessaria speranza di resistenza e di lotta. E questa non sarebbe altro che pura e semplice “carità”, ciò che rimane al fondo di tutto. Ma ciò a cui bisogna tendere al di sopra di tutto. (ABS)


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