14 marzo 2021 -    IV DOMENICA DI QUARESIMA - LAETARE (ANNO B)

 

Eduard Bendemann: Gli Ebrei prigionieri a Babilonia (1832)

 

 

PRIMA LETTURA (2 Cronache 36,14-16.19-23)

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.

Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.

Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».

Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 136)


Rit. Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia.

 

Lungo i fiumi di Babilonia,
là sedevamo e piangevamo
ricordandoci di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.

Perché là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
allegre canzoni, i nostri oppressori:
«Cantateci canti di Sion!».

Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
Se mi dimentico di te, Gerusalemme,
si dimentichi di me la mia destra.

Mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.

 

 

SECONDA LETTURA (Ef 2,4-10)


Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.

Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.

Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.



VANGELO (Giovanni 3,14-21)


In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:

«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».




In altre parole…

 

Siamo chiamati in causa come Popolo di Dio infedele, sacrilego, ribelle, beffardo del messaggeri di Dio, sprezzante delle sue parole e schernitore dei suoi profeti, capace di trasformare la compassione di Dio in ira senza rimedio, fino a ritrovarsi nelle mani dei nemici, deportato, esiliato, ridotto in schiavitù, costretto a scontare i suoi sabati, in attesa di liberazione. È così che ci descrive il libro delle Cronache, ed è così che dovremmo poterci riconoscere!

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Noi ormai siamo soliti denominarci Popolo di Dio come titolo di onore, ma a vuoto o a salve, al di fuori delle reali condizioni in cui questo popolo viene a trovarsi e nelle quali essere riconosciuto come tale nel bene e nel male: di fatto siamo Popolo di Dio solo nei nostri confronti e non sappiamo collocarci realisticamente e profeticamente nella storia, come se tutto riguardasse il passato o altri. Ma se “Egitto” evoca schiavitù ed esodo di liberazione, “Babilonia” ci riporta alla storia eterna tra Babele e Gerusalemme, tra la città dell’uomo in rivolta verso Dio e la città di Dio sulla terra.

 

È la condizione a cui ci richiama la prima lettera di Pietro quando si rivolge alla diaspora dicendo: “Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia” (1Pt 5,13). Senza dire dell’Apocalisse che presenta Babilonia la grande come “la madre delle prostitute e degli abomini della terra” (Ap 17,5). Ma che ci riferisce anche il grido di vittoria dell’angelo che dice: “È caduta, è caduta Babilonia la grande, quella che ha abbeverato tutte le genti col vino del furore della sua fornicazione” (Ap 14,8). È da tenere presente che non siamo Popolo di Dio come dignità astratta, lo siamo sempre storicamente situati e in maniera circostanziata, qui ed ora. Quando viviamo questa nostra condizione di Popolo dell’Alleanza in maniera avulsa, dobbiamo poi fare ricorso a simulazioni spirituali e ad artifici liturgici con i nostri atti penitenziali e  le nostre feste di liberazione, tutto vissuto di riflesso.

 

Se fossimo capaci di vivere le vicende della fede in prima persona e presa diretta, forse ci accorgeremmo che la Parola del Signore si sta realizzando per noi attraverso qualche re Ciro che ci riporta a Gerusalemme per ricostruire il tempio, qualcuno mandato a dirci: “Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”.  Il mondo ha forse bisogno di un Popolo di Dio! È l’esemplificazione  ante litteram del “dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”, quando anche Cesare può essere “eletto del Signore” (Is 45,1) come Ciro, e strumento di giustizia e di pace per il suo popolo. Abbiamo il simbolo profetico di quello che dovrebbe essere il rapporto Popolo di Dio e popoli della terra.

 

Una conferma che la storia della salvezza è storia di liberazione ce lo dimostra Mosè, che viene evocato da Gesù al momento in cui innalza il serpente di bronzo sull’asta (cfr Nm 21,4-9), a cui guardare con fede per essere liberati dal morso mortale di serpenti che facevano strage nel popolo: qualcosa che dovrebbe verificarsi tra noi per essere risparmiati dal covid 19, ma che soprattutto deve farci pensare al potere salvifico di chi è innalzato sulla croce. È quello che Gesù ci dice quando si paragona a quel serpente: ”Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la  vita eterna”. Questo credere altro non è che “guardare” a lui con desiderio e invocazione di salvezza: “E avveniva che, quando un serpente mordeva qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita” (Nm 21,9).

 

Quello che Gesù ci dice non è che un approfondimento di quanto Giovanni ha anticipato nel prologo e tornerà a ripetere spesso nel suo vangelo: “Ma a tutti quelli che l'hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventare figli di Dio, a quelli cioè che credono nel suo nome” (Gv 1,12). Egli infatti è il segno dato dal Padre perché si creda nel suo amore, perché “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Si intravede che questo segno è la croce con cui Cristo sembra identificarsi come crocifisso, espressione massima della sapienza e potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede: chiunque si lascia attirare da lui e si immedesima con lui morto e risorto.

 

È la fede che ci libera da ogni condanna, mentre “chi non crede è già stato condannato“. È un’affermazione drastica che quasi sconcerta, e che fa pensare alla sentenza secondo cui al di fuori della chiesa non c‘è salvezza (“extra ecclesiam nulla salus”). Ma qui bisogna distinguere bene tra verità delle cose o mistero della salvezza, e mentalità corrente o sistema di pensiero che la riveste. È chiaro che credere o non credere non va stabilito in termini di confessione o appartenenza religiosa, o quanto ad ortodossia, ma sulla base di quella fede del cuore che solo Colui che vede nel segreto conosce, là dove la carità “sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera” (1Tm 1,5).

 

Se in realtà il Verbo fatto carne è “la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), e se Gesù arriva a dire “io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), negarsi alla luce e preferire le tenebre è come condannarsi, alla stessa maniera in cui si consegna alla morte chi rifiuta l’aria da respirare. La sentenza è nelle cose e nei fatti, prima che in una volontà di condanna: “Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Il giudizio sta nel fatto che “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce”.

 

E questa decisione avviene non attraverso dichiarazioni o pronunciamenti di fede o di non fede, ma in base al fatto che la proprie opere siano buone o cattive: se facciamo il male preferiamo evitare la luce, se invece  facciamo la verità non abbiamo nessuna paura della luce. “Fare la verità” vuol dire compiere opere fatte in Dio, e quando a Gesù viene chiesto “che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”, la sua risposta è: “Questa è l'opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6, 29). Ci sarebbe davvero da meditare, anche a proposito dello storico problema fede-opere!

 

Il breve passo della lettera di Paolo agli Efesini non manca di darci spunti, per capire meglio l’opera di Dio nei nostri confronti. Egli è ricco di misericordia, e nel suo amore, da morti che eravamo, vuole farci rivivere, come ci dimostra la parabola del figliol prodigo. Tutto questo unicamente per grazia e grazie al Cristo in cui manifesta e comunica la sua straordinaria bontà. E qui anche Paolo ci ricorda che solo mediante la fede riceviamo il dono della salvezza, appunto in quanto opera di Dio e non per le nostre opere. Siamo nuova creatura in Cristo Gesù, ed è sempre in lui e con lui che possiamo compiere le opere buone che ci sono assegnate, come tralci produttivi della vite. Maturare questa coscienza non ci autorizza all’inerzia o al fatalismo ma ci rende più responsabili e operosi nell’uso dei talenti che ci sono stati dati. Ci deve essere sempre bisogno di deportazioni e di tristi esili perché un piccolo resto ridia fiato alla speranza messianica e riprenda in mano quelle cetre che tacevano a Babilonia? (ABS)


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