25 aprile -  IV DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

 

Ambito romano: Statua di Gesù Cristo Buon Pastore (fine del III - inizi del IV secolo)

 

PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 4,8-12)

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro:

«Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.

Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.

In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 117)


Rit. La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.

 

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell’uomo.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nei potenti.

Ti rendo grazie, perché mi hai risposto,
perché sei stato la mia salvezza.
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
sei il mio Dio e ti esalto.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.

 

SECONDA LETTURA (1 Giovanni 3,1-2)


Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.

Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

VANGELO (Giovanni 10,11-18)

 

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.

Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

 

In altre parole…

Dall’affresco delle catacombe al mosaico del Mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, a questa scultura del III secolo, la figura del Buon Pastore è dominante nell’iconografia cristiana dei primi secoli. Essa per la verità è sempre viva e presente nell’immaginario  dei cristiani fino ai nostri giorni. Ma forse bisogna farla riemergere nel suo significato originario dalle stratificazioni che sentimento collettivo, devozione diffusa, ricordi di prima comunione ed omelie accattivanti vi hanno sedimentato sopra. Per cui questa immagine familiare induce ad un rapporto col Buon Pastore, il Cristo Gesù, stereotipato, sentimentale, volatile.

Ma allora può succedere che mentre le parole di Gesù di oggi vogliono portare alla percezione viva della sua presenza e alla comunione reale con noi,  rischiano di fatto di non lasciare traccia e di tramontare come meteora, alimentando il nostro sentimento religioso ma lasciando  senza sostegno  la nostra fede. È quando la fede viene ridotta a gioco psicologico soggettivo o ad espediente sociologico collettivo, senza quella necessaria profondità che può trasformare la nostra esistenza nel cuore e nella mente. Quando cioè il respiro della fede ritrova la sua dimensione umana ed universale che va al di là di congreghe, circoli, sette, convenzioni.

Cerchiamo perciò di immetterci nella realtà che le parole di Gesù evocano e soprattutto in quell’ambito di vita  che egli ci apre, perché si tratta del rapporto tra lui e noi nel vivo della nostra esistenza  umana, cristiana, ecclesiale. Cominciando col dare valore reale a queste parole della prima lettera di Pietro 2, 25:Eravate erranti come pecore, ma ora siete tornati al pastore e guardiano delle vostre anime”, sapendo che “Il Dio della pace ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore” (Eb 13,20): e cioè che non siamo davanti ad una commovente dimostrazione di attaccamento per noi, ma a vivo contatto con uno che dà la vita per il gregge intero.

A differenza dei vangeli sinottici, Giovanni non fa cenno di quanto il Figlio dell’uomo doveva aspettarsi nella passione e nella morte, per poi risuscitare. Ne farà cenno in risposta alla richiesta di Andrea e Filippo da parte di Greci che volevano vederlo, quando risponde seccamente: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24). Ma soprattutto cerca di farcelo capire attraverso questa parabola del pastore e dell’ovile, che in qualche modo racchiude tutta la vicenda del Salvatore. Ed in questa prospettiva va colta: c’è tutto il mistero della redenzione!

È ciò in cui siamo “battezzati”, immersi e coinvolti nella vicenda di salvezza della umanità intera a prezzo del sangue di chi non fugge davanti al lupo. Sono parole di chi dirà ai suoi: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici... Non vi chiamo più servi, ma vi ho chiamati amici” (Gv 15,13.15). Per cui l’interpretazione più giusta di quanto ci è detto dovrebbe essere la nostra stessa esistenza di redenti; quando sappiamo distinguere tra pastore e mercenario, tra chi rischia la propria vita e chi invece fugge perché non gli importa nulla del gregge. Ma questo Buon Pastore richiede da noi la stessa capacità di discernimento e libertà di giudizio su quanto accade al gregge e nel gregge, distinguendo fra situazione e situazione.  

È suggerimento anche per un preciso stile di chiesa che potremmo definire sinodale, in quanto scaturito dalla solidarietà col Pastore e come gregge: stile non pensato a tavolino in astratto, magari da contrapporre ad altri stili; stile modellato sul nostro rapporto col Buon Pastore come “pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale” (1Pt 2,5), sapendo appunto che “Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo”.

È la stessa maniera in cui Gesù si ispira e si lascia modellare dal Padre, come ci dice chiaramente: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore”. Egli dà la sua vita per le pecore così come lui la riceve dal Padre. Siamo in pieno mistero cristologico e trinitario, che rimane però sullo sfondo di una fede ideologica e funzionale ad un sistema religioso più che sostanza di vita.

Se non ci fermiamo alle parole ma andiamo alla realtà, ci viene detto che questa comunicazione di vita deve raggiungere anche pecore di altra provenienza che il Pastore deve guidare. Questo avviene, ci dice Gesù, perché “ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. È quanto avviene nel prolungamento della sua azione da parte dei suoi discepoli. È in questo senso che si parla di Pastori e di “pastorale” nella Chiesa, ad indicare questo preciso mandato, primario rispetto ad ogni altro compito gestionale. Si tratta cioè di ascoltare e far ascoltare la sua voce col timbro giusto, quella che le pecore riconoscono.

 

Come farsi carico di una responsabilità pastorale lo possiamo capire sapendo che all’origine c’è l’amore del Padre per colui che dà la sua vita da se stesso, ma che ha il potere di riprenderla di nuovo, in obbedienza al comando ricevuto: è così che si consuma la presenza del Buon Pastore in mezzo a noi, per coinvolgerci nella sua stessa obbedienza al Padre. E se questa è la realtà, è inutile volerla diluire o indorare, snaturandola. In gioco abbiamo lo stesso amore del Padre che investe il Figlio, fino a chiedergli la vita; ma una potenza di amore che arriva anche a noi, per essere realmente figli di Dio e non solo chiamati tali, come ci ricorda la lettera di Giovanni.

 

Lo scarto tra il piano nominale e il piano reale va comunque colmato, anche se questo passaggio espone all’incomprensione e al rifiuto da parte del mondo, e spesso anche all’interno di una chiesa che guarda all’efficienza e al successo più che alla verità che espone al martirio. E questo perché, se anche siamo realmente figli di Dio, la nostra identità non è quella definita dallo stato presente delle cose o dalla opinione degli altri, ma deve sempre rivelarsi per quello che è: identità aperta, per cui viviamo come in terra straniera, ”nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo” (Tt 2,13). Quanto incide questa speranza  nella nostra esistenza di credenti?

 

È la speranza a cui Pietro vorrebbe portare i capi del popolo e gli anziani, pronti ad inquisirlo per una guarigione operata, quasi che avesse voluto sfidarli con un miracolo. Egli esemplifica l’atteggiamento giusto da avere nei confronti di immancabili oppositori in nome di un Cristo tanto sconosciuto quanto da essi rifiutato. Ed ecco allora Petro che non si fa nessun merito di quanto era sotto gli occhi di tutti, ma proclama con coraggio per mezzo di chi quell’uomo sia stato salvato: nel nome di Gesù Cristo crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti. Ma al di là dell’evento particolare, egli arriva ad affermare in maniera categorica il principio centrale della salvezza universale, secondo cui “in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati”. Questo non autorizza nessuno ad escludere altre vie di salvezza, nella consapevolezza che nella salvezza operata da Cristo ci rientrano veramente tutti. C’è veramente da meditare, dando continuità alla nostra riflessione e relativa preghiera! (ABS)


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