Koinonia Agosto-Settembre 2021


TRA CATASTROFE E INDIFFERENZA

 

Ogni volta che accade un qualche disastro nell’ambiente che abitiamo ci si accorge di una verità ormai difficilmente confutabile: quella di un cambiamento climatico che sta conducendo sempre più in fretta l’intero pianeta alla catastrofe.

 Per chi  poi riesce ancora a essere credente non si tratta semplicemente di ambiente o natura, ma di ‘creazione’, di quel che abbiamo fin dal principio ricevuto come un dono da parte di colui che Francesco d’Assisi chiamava, nel suo famoso Cantico delle creature: “Altissimu, onnipotente, bon Signore”. La Bibbia,da parte sua, inizia dicendo che “Dio creò l’uomo a sua immagine; / a immagine di Dio lo creò; / maschio e femmina li creò” (Gen 1,27). E ancora: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gen 2,15).

E non possiamo dire, come alcuni purtroppo dicono, che la Bibbia è un libro ormai obsoleto che non ci riguarda più, perché è da questo libro che è stata formata tutta la nostra cultura occidentale e moderna, quella che ha finito per dominare il mondo portandoci ad altezze di progresso mai viste prima, ma anche a un rischio di autodistruzione mai sperimentato prima. Ci aiuta a comprendere questo un pensiero di Elias Canetti: “È strano: di fronte a quel che accade oggi solo la Bibbia ha una forza adeguata, ed è proprio la sua terribilità a consolarci” (La provincia dell’uomo). Non la melassa della devozione dunque, ma proprio ciò che di più terribile in quei testi sacri ci  viene rivelato donerebbe speranza nonostante tutto. Consola cioè non ciò che ci tranquillizza, ma ciò che ci mette in agitazione, esattamente come “in agitazione” i primi cristiani e il loro annuncio misero l’intero “mondo” (At 17,6). 

Ci è capitato di tornare a leggere con una certa attenzione l’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, uscita ormai sei anni fa. Ci voleva all’interno della Chiesa Cattolica, che spesso sembra restare indietro di fronte a certe urgenze della modernità. E tuttavia bisogna anche chiedersi: che cosa è stato fatto di fronte a certe denuncie che lì vi si trovano? Poco. Ma già l’autore sembrava presagirlo mentre la scriveva. “Degna di nota – disse a un certo punto - è la debolezza della reazione politica internazionale. La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per non veder colpiti i suoi progetti” (54). E poco più avanti quella che mi sembra la vera piaga che ci affligge: “Cresce un’ecologia superficiale o apparente che consolida un certo intorpidimento e una spensierata irresponsabilità… siamo tentati di pensare che quanto sta succedendo non è certo…, sembra che le cose non siano poi tanto gravi e che il pianeta potrebbe rimanere per molto tempo nelle condizioni attuali”. Un modo insomma, per non guardare la gravità del problema e per rimandare “le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse”. Eppure la situazione ha raggiunto limiti di guardia e “sembra di riscontrare sintomi di un punto di rottura, a causa della grande velocità dei cambiamenti e del degrado… Aldilà di qualunque previsione catastrofica, è certo che l’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista, perché abbiamo smesso di pensare ai fini dell’agire umano” (59).

Nell’enciclica si percepisce a tratti un pathos che ricorda un poco quello degli antichi profeti di Israele, per esempio là dove concludendo il primo capitolo, riporta quello che Giovanni Paolo II disse in una catechesi del 2001: “Se lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che l’umanità ha deluso l’attesa divina” (61). E non sarebbe male a questo punto ricordare come cose simili avvennero anche ai tempi di Noè “il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre. E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gen 6,5-6). E anche la messa in guardia che ritroveremo nelle stesse parole di Gesù: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (Mt 24,35-39).

Del resto non solo i Vangeli, ma tutto il Nuovo Testamento è pieno di avvertimenti simili. E però non dobbiamo pensare che quando si parla di catastrofi da fine del mondo sia Dio a provocarle, quasi fossero colpi di un definitivo castigo da parte di una divinità arcigna e vendicativa. No, la sua è piuttosto una messa in guardia riguardo al nostro andare come ciechi verso la rovina, un po’ come un padre che si precipita verso il suo bambino perché non finisca come a occhi chiusi nel baratro. La crocifissione apocalittica del mondo altro non è che il riflesso della crocifissione di Dio che grida, al mondo questa volta, di non abbandonarlo prima che sia troppo tardi.

Ma questa profonda crisi che ci affligge, ultimamente aggravata dalla pandemia, ha radici profonde, non è nata ieri. E papa Francesco, nel tentativo di individuarne le cause s’avvale a un certo punto delle riflessioni di Romano Guardini là dove, nel suo La fine dell’epoca moderna, parla di “paradigma tecnocratico dominante”. Sarebbe dunque la potenza tecnologica e scientifica, la stessa che “ha posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano e limitavano l’essere umano”, a rischiare di portarci ad una vera e propria autodistruzione. “Mai l’umanità ha avuto tanto potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene, soprattutto se si considera il modo in cui se ne sta servendo. Basta ricordare le bombe atomiche lanciate in pieno XX secolo” (104). Il problema vero “è che ‘l’uomo moderno non è stato educato al retto uso della potenza’, perché l’immensa crescita tecnologica non è stata accompagnata da uno sviluppo dell’essere umano per quanto riguarda la responsabilità, i valori e la coscienza”, al punto che “‘la possibilità dell’uomo di usare male della sua potenza è in continuo aumento’” (105).

La crisi cioè non riguarderebbe soltanto i limiti del pianeta e l’accumulo di potenza in mano all’uomo, ma anche la mancanza di quei valori e fini capaci di donare un senso alla nostra vita, di porre freno davanti a situazioni di pericolo in cui ci si può ritrovare in ogni momento. E questo sembra emergere soprattutto negli ultimi anni con la potenza dei mezzi di comunicazione di massa, che trasmettono incessantemente volgarità e superficialità a non finire messe addirittura davanti agli occhi dei bambini ancora in tenera età, dimenticandoci che se il nostro “occhio è cattivo”, tutto in noi “sarà tenebroso” (Mt 6,23), soprattutto quando si tratta di bambini, i cui angeli “vedono sempre la faccia del Padre che è nei cieli” (Mt 18,10).

“L’umanità si è modificata profondamente – dice papa Francesco – e l’accumularsi di continue novità consacra una fugacità che ci trascina in superficie in un’unica direzione. Diventa difficile fermarci per recuperare la profondità della vita… Non rassegniamoci a questo e non rinunciamo a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa” (113). “Nessuno vuol tornare all’epoca delle caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili e al tempo stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza megalomane” (114).

Al diffusissimo pericolo del relativismo dottrinale, già denunciato da papa Benedetto XVI, si aggiungerebbe ora un “relativismo pratico” e che papa Francesco ritiene “ancora più pericoloso”, più pericoloso perché finisce col dare all’uomo un potere senza limiti e per il quale “tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati” (122). Una situazione che ci porta non soltanto alle grandi ingiustizie rispetto alle diffusissime sacche di povertà presenti attualmente nel pianeta, ma anche a quelle rispetto alle generazioni future, che non potranno usufruire delle risorse che a noi hanno lasciato le generazioni che ci hanno preceduto. Al punto che papa Francesco arriva persino a parlare di una vera e propria “spirale di autodistruzione in cui stiamo affondando” (163).

Se i paradigmi restano soltanto quelli di una tecnica che funzioni sempre meglio e quelli di un mercato che ci faccia guadagnare sempre di più, c’è di che preoccuparsi. “È realistico pensare – continua il papa – che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni” e alle “necessità dei poveri?” (190). Certamente no. Dire che giungendo a una sempre maggiore efficienza tecnica e a un sempre maggiore guadagno economico tutti si starà meglio è una pia illusione. “Di fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni imiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia troppo tardi… Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa crescere in modo sano in altre parti” (193). A dover rinunciare è dunque chi ha di più (e tanto di più), non chi ha di meno. Com’è possibile continuare ad andare avanti così, come nulla fosse e magari pensando di pulirci la coscienza dando ogni tanto un soldino di mancia al povero incontrato per strada?

Da tempo si parla di Sviluppo sostenibile, di Decrescita felice. Concetti bellissimi. Ma se lo sviluppo non potesse più essere sostenibile e se la decrescita fosse tutt’altro che felice? Cosa scegliamo, di porre un freno allo sviluppo e alla crescita, oppure comunque continuiamo a spingere l’acceleratore pur sapendo che prima o poi si arriverà alla catastrofe? Cosa scegliamo la felicità e il piacere a ogni costo oppure la rinuncia a qualcosa nei nostri stili di vita quotidiani, anche se c’è un prezzo notevole e tutt’altro che indolore da pagare? Come si può credere di continuare ad aumentare i consumi e, al tempo stesso, salvare il pianeta? Di mantenere il mondo nella pace se poi manca la giustizia?

 Non solo, ma sappiamo anche che l’aumento dei desideri, stimolato da un sistema che spinge al consumo esponenziale, non procura soltanto inquinamento e spreco, ma anche un alto grado di frustrazione e infelicità a livello di massa. Chi s’illude di giungere a felicità aumentando ritmi e consumo non troverà che una continua fuga verso quel che ancora non ha pur sapendo che gli toccherà ricominciare da capo non appena l’avrà. È come con le sigarette, una tira l’altra, fino a ucciderci: lo sappiamo, è scritto a caratteri cubitali sul pacchetto, ma noi continuiamo a fumare lo stesso.

Fa pensare che a dire: “Ormai solo un Dio ci può salvare”, non sia stato un papa ma Martin Heidegger, in una sua famosa intervista a Der Spiegel del 23 settembre 1966, cioè mezzo secolo prima dell’enciclica di papa Francesco. Anche per questo, oltre che per quanto sempre più ci accade davanti agli occhi, un credente, lungi dal lasciarsi imbrigliare dall’“Ultimo Dio” di Heidegger, dovrebbe ripensare in profondità al Dio di Gesù Cristo (al posto del quale del resto Heidegger volle erigere il proprio), al Dio che ha promesso di salvare davvero, noi e il mondo, “nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).

 

Daniele Garota

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