Koinonia Marzo-Aprile 2021


Dopo il Discorso di Firenze del 2015 alla CEI,
Papa Francesco rinnova il suo pressante invito 

 

PER UNA CHIESA ITALIANA INQUIETA

 

Le poche parole con cui il 30 gennaio scorso in un suo discorso suona la sveglia per la Chiesa italiana, a cinque anni dal Convegno di Firenze del 2015, sono esattamente queste: “Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare”.  E se ora  il Papa ritorna con insistenza sul Discorso di Firenze, è perché vede la chiesa italiana poco “inquieta” o troppo sicura di sé, mentre la vorrebbe pronta ad “avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, da cui trarre  criteri per attuare le sue disposizioni”.

Non è per mettersi in prima fila se ricordiamo che per quanto riguarda questi momenti - la Evangelii gaudium e il Convegno di Firenze - ci siamo spesi per orientare in questo senso il corso delle cose, là dove ci era consentito, perché la magna charta che il Papa ha promulgato per la chiesa intera nel 2013 valesse anche per una chiesa italiana rimasta alla finestra. Ispirandoci a note esperienze  storiche - quali Kairòs-Sudafrica e Kairòs-Palestina  -  abbiamo osato avanzare qualcosa di analogo con “Kairòs-Italia”. E viene da chiedersi se in risposta all’appello accorato del Papa, non sia il caso di riprendere questa ipotesi di lavoro, anche quando il terreno sembra mancarci sotto i piedi ed ogni spazio di iniziativa pastorale è precluso. Ma i sogni vanno vissuti fino in fondo, anche quando si sa di sicuro che non si avvereranno. Proprio come è per la speranza, perché “ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?” (Rm 8,24). Spes contra spem, allora!

Non è da pensare che la risposta al Papa sia da aspettarsela solo da organi ufficiali di chiesa o da prassi pastorali standard, perché si entrerebbe in un circolo vizioso a rischio gattopardismo. Se la spinta trova qualche punto di appoggio esterno, forse qualcosa potrebbe realmente cambiare. Quando il Papa dice che la chiesa italiana “deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità”,  è chiaro che fa appello alla base, ma non necessariamente quella clericalizzata ed organizzata. D’altra parte,  quelle che una volta si chiamavano “comunità di base” o gruppi spontanei si sono accasati. Non si tratta neanche  di ricompattare le file e attrezzarsi per fare qualcosa in più, ma di ripartire e dare vita ad uno stile e modo di essere chiesa inediti.

C’è da stare attenti che  il cammino sinodale non sia tale solo in senso procedurale ma effettivo, tra soggetti reali di fede in presa diretta e non indotta: quello che si richiede è la passione per il vangelo del tutto libera, non asservita allo status quo ma neanche come  riflesso condizionato di esperienze fatte. Ecco perché, pur non essendo istituzionalmente configurati, possiamo anche noi rispondere al Papa: il suo appello ci mette in gioco come forze di supplemento raccolte per i crocicchi delle strade. Il bacino di convocazione va oltre i quadri prestabiliti e l’asse di una mobilitazione deve passare da comunità per comunità come processo in fieri.  Perché è lì che le reali trasformazioni debbono avere luogo, come lettura e prassi evangelica nella situazione storica di un Paese perennemente al guado. Quando il Papa dice che “anche questo processo sarà una catechesi” ci autorizza a dire che non si tratta di un convegno, di un’assemblea di vertice, ma di azione capillare nell’esperienza condivisa di fede qui e ora. Di far precedere ad ogni discorso l’esempio della vita!

La bussola per questa navigazione rimane naturalmente il Concilio Vaticano II, quasi a volerne ripetere l’esperienza storica e riviverne l’afflato profetico, prima ancora di raccoglierne gli insegnamenti. La necessità di ispirarsi al Concilio è richiamata da Papa Francesco quando nel suo discorso afferma categoricamente che stare con la chiesa vuol dire seguire il Concilio, mentre non seguire il Concilio è non stare con la chiesa. Il Concilio cioè va preso come atto ecclesiale e nell’ampiezza del Popolo di Dio, e cioè globalmente come evento di grazia. Non possiamo restringerlo solo a qualche suo particolare aspetto, ma tenerlo aperto  alle dimensioni del Regno e del vangelo a cui vuol riportare l’intera chiesa storica. E a questo proposito “dobbiamo essere esigenti e severi”, perché “il Concilio non va negoziato”:  esso non fa che sfrondare l’albero della chiesa per ritrovare il suo tronco e riportarci alle sue radici!

E se nell’immediato dopo-concilio stare con la Chiesa ha voluto significare rimanere nella fede sia pure attraverso il suo involucro tradizionale, stare con la chiesa ora è riprendere in pieno il cammino del Concilio nella sua ispirazione di fondo, come processo di decantazione della fede da concezioni, da assetti, da prassi, da consuetudini, da abitudini che di fatto la bloccano ad una sua forma storica più che renderla trasparente al vangelo. Se qualcosa di nuovo è nato in questi anni, bisogna evitare che il vino nuovo venga versato in otri vecchi!

Rilanciare e rimettere in cantiere l’esperienza e la “pratica del Concilio”, non può essere restaurazione, o riesumazione nostalgica, né può essere attestarsi su posizioni trionfalistiche di vittoria (come succede alle nuove leve clericali!), ma deve essere nuova recezione, reiterazione e ripercussione dell’evento, per un suo prolungamento, perché la sua spinta propulsiva non si esaurisce. Se il Concilio è stato voluto e vissuto come “aggiornamento”, questo non c’è stato una volta per sempre, ma è sempre in atto e sempre da ripensare “in toto”. È stato inaugurato e proposto un metodo, ed è in questa linea che Papa Francesco ha offerto la sua piattaforma per agire di conseguenza. Non basta insomma dire “concilio”, ma è necessario uscire da ogni ambiguità, così come quando ci si richiama al vangelo o alla chiesa.

A collegare il Concilio alla chiesa italiana è il Papa stesso con parole molto indicative: “Come nel dopo-Concilio la Chiesa italiana è stata pronta e capace nell’accogliere i segni e la sensibilità dei tempi, così anche oggi è chiamata ad offrire una catechesi rinnovata, che ispiri ogni ambito della pastorale: carità, liturgia, famiglia, cultura, vita sociale, economia”. Tutta la vicenda che va sotto il nome di “dopo Concilio” viene in qualche modo riscattata e quasi quasi se ne invoca un ritorno! Un po’ di memoria storica non guasterebbe. Sta di fatto che oggi manca qualcosa - un clima, una visione, una speranza, una passione, una spinta dal basso - che dovrebbe  attraversare tutti i momenti dell’esistenza  ecclesiale e  dare vita a quel cuor solo e anima sola, che è fatto culturale ed evento teologico prima  che espediente emotivo o cultuale.

Il fatto è che oggi siamo in tutt’altre acque,  e le forze una volta attive e disponibili per uscire dal ristagno non si sa più dove pescarle. Quando il Papa avverte che non ci sono spazi da occupare ma processi da avviare, penso si debba pensare alla tensione da creare e non ad assestamenti da assicurare. Per questo non basta dire “Sinodo” perché Sinodo sia, e quale sia; la storia del Sinodo di Roma alla vigilia del Concilio dovrebbe far riflettere. Poi si vada avanti come si vuole, magari irridendo quanti prendono sul serio il “cambiamento d’epoca”, la “chiesa in uscita”, l’Evangelii gaudium, la rivoluzione copernicana, la fine della “cristianità”, in sostanza il Concilio come rivoluzione copernicana della Chiesa e non solo come suo nuovo insediamento storico.

Forse non sarebbe fuori luogo meditare queste parole di Luca 14,28-30: “Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Non dobbiamo riferirci a realizzazioni, opere, trasformazioni, che in nome del Concilio sono anche troppe; dobbiamo riferirci piuttosto al fatto che dopo aver messo mano all’aratro non facciamo che voltarci indietro. Si tratta di capire che non è questione di restauri né di sostituzioni, ma di mettere in gioco se stessi e magari “perdere la propria vita” per riguadagnarla: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (Gv 2,19). La sfida che Gesù lancia ai Giudei prima o poi coinvolge quanti insieme a lui vogliono essere il volto umano della sua chiesa.

 

Alberto B.Simoni op

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