Koinonia Marzo-Aprile 2021


Dall’intervento di Christian Albini 

Incontro di Koinonia maggio 2016

 

PROCESSI SINODALI E RIFORMA DELLA CHIESA

A PARTIRE DAL VATICANO II

 

La riforma necessaria

«Ogni rinnovamento della Chiesa consiste in una fedeltà più grande alla sua vocazione. La Chiesa è chiamata a questa continua riforma» (Concilio Vaticano II, Unitatis Redintegratio, 6).

Questo riferimento al Concilio chiarisce subito il titolo e il motivo per cui ci occupiamo di sinodalità. Nell’intima costituzione della Chiesa vi è un’esigenza continua di rinnovamento. È l’esigenza di ricercare una sempre maggiore fedeltà all’evangelo e di chiarirne le forme storiche. Mi sembra si possa così esprimere il senso dell’appello di Benedetto XVI a una «ermeneutica della riforma» nella ricezione del Vaticano II[1]. Tale principio ha una portata che non riguarda solo gli insegnamenti dell’ultimo concilio, ma tutte le dinamiche di mutamento ecclesiale: la Chiesa cambia, perché ha bisogno di riforme per essere evangelica.

Certo, per pronunciare tale affermazione bisogna uscire dall’uso strumentale, fatto dagli ambienti tradizionalisti in senso deteriore, della dicotomia discontinuità/riforma utilizzata dal papa (il cui stile argomentativo si basa sullo stabilire delle polarità rispetto alle quali collocarsi). Il fatto di aver respinto un principio di discontinuità è stato letto, non senza malizia, come un’apologia dell’immobilità  e della fissità, negazione di qualsiasi novum. Discontinuità, invece, può essere anche letta come introduzione di elementi estranei alla radice biblica da cui la Chiesa non può mai distaccarsi, se non vuole divenire «diabolica».

Papa Ratzinger parla di un processo di novità nella continuità, dove quest’ultima non può che essere adesione, legame vitale, alla Parola. Cos’altro è la Tradizione, se non riforma che trae linfa da questo legame? Infatti, egli fa consistere la natura della vera riforma in un «insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi», dove identifica l’aspetto duraturo con i principi e il mutamento con le forme concrete della loro applicazione che dipendono dalle situazioni storiche. E quando si parla di principi immutabili bisognerebbe discutere sulla loro individuazione. Certa è, in ogni caso, la loro necessaria coerenza con il Vangelo. Ed è qui che si gioca la partita della riforma della Chiesa: nell’abbandono di alcune forme storiche in favore di altre per raggiungere una più profonda fedeltà al Vangelo. Si tratta inoltre di comprendere meglio le verità di fede ed esprimerle in modo nuovo, secondo le esigenze del nostro tempo.

Una tale opera di discernimento – la quale richiede confronto e persino conflitto – si applica soprattutto al magistero per far emergere ciò che in esso è caduco, in quanto dovuto all’influsso di elementi anti-evangelici su alcuni orientamenti, anche di lunga durata. Basterebbe fare l’esempio della proibizione rivolta al laicato di accostarsi alla Bibbia…[2]

 

Radici bibliche della sinodalità

Fatta questa premessa sugli obiettivi del nostro riflettere insieme, ne consegue che la base del discorso che vado a sviluppare è la provenienza biblica del concetto di sinodalità, che per il momento mi indico a definire come il «camminare insieme» del popolo di Dio, nel senso di inclusione di tutti i soggetti che ne fanno parte nella comunione e nella corresponsabilità attiva anche a livello decisionale[3].

Giuseppe Barbaglio, infatti, ha indicato il corrispettivo lessicale di sinodalità nel motivo familiare agli scritti neotestamentari, soprattutto alle lettere di Paolo, della koinônia[4]. Passiamo brevemente in rassegna gli elementi costitutivi della koinônia paolina.

1. L’ecclesiologia dalla cristologia. La koinônia è una conseguenza dell’inserimento dei credenti nello spazio vitale di Cristo crocifisso e risorto. I fattori unificanti sono la dimensione pneumatologia del battesimo (Gal 3,26-28; 1 Cor 12,13; Rm 6,3-5) e la partecipazione alla Cena del Signore (1 Cor 10,16-17; 11,24-25).

2. La dimensione carismatica della comunità dei credenti cristologicamente fondata (1 Cor 12.14). È espressa dall’immagine del corpo di Cristo. Il medesimo Spirito ripartisce i suoi doni di grazia tra tutti i credenti, nessuno escluso, in modo che nessuno può dire di possederli tutti e nessuno può pensare di ritenersene del tutto privo. Lo scopo di questa «distribuzione» è l’utilità spirituale degli altri, la crescita ininterrotta della costruzione della comunità mediante l’apporto di tutti. La pluralità diversificata, complementare e armonica delle membra esclude le pretese di superiorità e comporta il prendersi cura gli uni degli altri.

3. La fratellanza cristiana come conseguenza dell’unione della Chiesa a Cristo. Paolo definisce i rapporti dei credenti con Cristo e tra loro con la figura familiare. A cominciare dal battesimo in Cristo, i credenti diventano figli di Dio, mediante la fede in forza dello Spirito che abbiamo ricevuto (Gal 3,26-27; 4,4-6; Rm 8,14-16). Di qui la fratellanza. Così, nelle sue lettere l’Apostolo si rivolge agli interlocutori prevalentemente con la formula «fratelli e sorelle» (cfr. Rm 7,4;15,14; 1 Cor 1,11;11,33;12,39). Egli colloca la fratellanza alla base del codice morale dell’attenzione premurosa, del reciproco aiuto, del farsi carico gli uni dei pesi degli altri, della mutua accoglienza (cfr. (1 Cor 6,1-8;8,11-13; Rm 14,1-15,7).

4. Il codice della reciprocità. L’amarsi gli uni gli altri è sicuramente un aspetto centrale della fraternità cristiana  (1 Ts 5,11; Gal 5,13; 6,2; Rm 12,10; 13,8). L’«essere-insieme» nel corpo di Cristo comporta l’«essere-per gli altri» di ciascun membro dotato carismaticamente dello Spirito, non escluse le donne. Per cui, coloro i quali si dedicano alla cura pastorale della comunità non rivestono un ruolo che poggia su una base istituzionale. Nessuno li ha messi a capo della comunità. È il loro lavoro, l’azione a favore dei fratelli, che li legittima (cfr. 1 Ts 5,12-15; 1 Cor 16,13-18).

Per concludere questi cenni biblici, è facile constatare come ciascun elemento della koinônia paolina è riferibile alle parole di Gesù: il battesimo, l’eucaristia e il dono dello Spirito che innestano i credenti in lui (Gv 3,5; 6,54-56; 14,15-24); l’immagine della vite e dei tralci, presupposto di quella del Corpo di Cristo (Gv 15,1-7); la fratellanza (Mt 23,8); il primato del servizio e la reciprocità nell’amore (Lc 22,24-27; Gv 15,12-13).

A partire dai riferimenti ora presentati, possiamo intuire quale sia la posta in gioco di una riflessione sulla sinodalità. Ne va della qualità delle relazioni tra coloro che appartengono al popolo di Dio e si va a toccare una delle «questioni non risolte» che attraversano l’intera storia della Chiesa: il rapporto con il potere.

 

Il Vaticano II come rilancio della tradizione sinodale

La panoramica di cui sopra è indispensabile per attestare che la sinodalità, così come la presentiamo, non è una novità e neppure soltanto una prassi contingente. Ha un solido fondamento teologico che la caratterizza come una proprietà della vita della Chiesa.

Fino a tempi recenti se ne è parlato prevalentemente come di un’esperienza di natura episcopale/clericale[5], trascurando, «oltre alla storia del primo millennio, anche quella medievale che ha visto una partecipazione forte e varia di semplici fedeli»[6]. Ciò non significa voler negare il ministero dei vescovi, ma comprenderlo come vitalmente inserito nel tessuto della comunione ecclesiale e non come isolato. È un ministero che necessità di una relazione scambievole con gli altri soggetti ecclesiali, per poter essere esercitato nella sua pienezza. E qui non parliamo di spericolate teologie progressiste, ma di quella ecclesiologia risalente alla tradizione patristica che riconosce il fondamento trinitario della Chiesa richiamata proprio dal Vaticano II. Lumen Gentium 4, infatti, definisce la Chiesa universale «un popolo adunato nell’unità dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo», citando il commento al Padre Nostro di Cipriano di Cartagine. Lo stesso Cipriano il quale ha riconosciuto che è mediante il ministero del vescovo e nella celebrazione eucaristica che la comunità si unisce a Cristo e si innesta nella vita trinitaria (De unitate ecclesiae). Lo stesso Cipriano che scriveva: «Sin dall’inizio del mio episcopato mi sono proposto di non decidere nulla secondo la mia opinione personale, senza il vostro consigli e senza la voce del mio popolo».

È nel carattere trinitario della Chiesa che si situa il principio teologico della sinodalità.

Certo, questo discorso vale nel momento in cui non ci riferiamo esclusivamente ad uno in particolare tra i «generi sinodali» registrati dalla storia della Chiesa o tra quelli attualmente codificati dalla legislazione canonica (cfr. CDC 342ss.: il sinodo dei vescovi; CDC 460ss.: il sinodo diocesano). Parliamo, infatti, di «processi sinodali», perché ci soffermiamo sulla sostanza della vita sinodale/conciliare, più che sulle sue modalità appartenenti alla contingenza storica. È questa sostanza che va posta in evidenza, creando mentalità, e che va attuata, affinché non resti relegata a eventi episodici. Se la matrice della Chiesa non è trinitaria solo a parole, all’essenza della Chiesa deve appartenere «il consenso, come evento di una sinfonia in cui le voci si uniscono nell’inno polifonico della pace. Ma il senso del sinodo è proprio l’evento del consenso. Non può esserci quindi vita della Chiesa, espressione dell’essere ecclesiale, se non come evento sinodale, qualunque sia la forma che questo evento assuma nella storia». Ecco la riforma da auspicare: che la sinodalità non sia qualcosa di occasionale, ma diventi uno «stile» dell’ordinarietà ecclesiale.

Il fatto che il Concilio abbia recuperato la visione trinitaria della Chiesa risalente alla tradizione patristica è perciò importante, perché dimostra che «il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive»[7]. La visione trinitaria, di cui la sinodalità è espressione, proviene dalle radici, proviene dal Vangelo: rettifica la gerarcologia integrando il principio personale con un principio comunionale. È la continuità in ciò che è immutabile, essenziale[8].

Soffermandoci ora sui testi promulgati dal Vaticano II, possiamo constatare con Herve Legrand che il tema sinodale è di per sé assente da essi[9]. Assenza che dipende dal paradigma ecclesiologico prevalente al tempo della celebrazione del Concilio. Nei 150 anni precedenti la coscienza ecclesiale si era sviluppata sotto il segno dell’autorità, configurandosi come una «gerarcologia» (Yves Congar). Non solo dopo il Vaticano I si era verificata una schiacciante preponderanza papale nei confronti dei vescovi, ma da Leone XIII a Pio XII il magistero ordinario dei papi escludeva qualsiasi partecipazione laicale ed esaltava la scissione tra pastori e fedeli alla stregua di una rigida dicotomia tra governanti e governati[10]. La separazione tra docenti e discenti era pressoché assoluta, non ammetteva scambio, reciprocità, corresponsabilità. Il solo ingresso di questi vocaboli nel linguaggio ecclesiale è il segno che, al livello dei modelli di Chiesa con cui si cerca di esprimere le verità di fede riguardanti la comunità cristiana, è intervenuta una netta discontinuità rispetto alla gerarcologia.

In questo contesto, il Concilio si è concentrato principalmente sulla collegialità episcopale, tema allora sentito dai vescovi più dinamici che avvertivano la centralizzazione romana seguita al Vaticano I come un serio handicap pastorale e missionario, nonché come ostacolo per l’ecumenismo (almeno da parte di chi aveva una maggiore sensibilità al riguardo).

L’elaborazione del concetto di collegialità al Vaticano II è stata determinata dalla preoccupazione di articolare l’autorità del papa e dei vescovi all’interno della Chiesa universale. Al Vaticano I, la minaccia che pesava sullo Stato pontificio e l’imminenza della guerra franco-prussiana non avevano permesso di situare l’episcopato al posto che gli spettava nella struttura della Chiesa. Il Vaticano II riprende questo compito dandosi come strumento di lavoro essenziale il binomio primato/collegialità, grazie al quale spera di armonizzare le due istituzioni. Formulato in riferimento a questo binomio, il concetto di collegialità non consente la manifestazione della sinodalità (e quindi bisogna fare attenzione a non confondere l’una con l’altra), perché 1) si concentra sui componenti della gerarchia; 2) il collegio è sempre dipendente dal suo capo, mentre il capo non è tenuto a collaborare con il collegio (Lumen Gentium 22 e Nota praevia); 3) l’appartenenza al collegio si realizza in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col capo del collegio e coi membri (Lumen Gentium 22) dissociando il collegio dalla comunione ecclesiale in quanto prescinde dalla presidenza di una Chiesa locale: è il vescovo in sé che appartiene al collegio e non in quanto pastore di una Chiesa con la quale è in comunione.

Tuttavia il Vaticano II ha abbozzato una comprensione sinodale tanto della Chiesa universale quanto della Chiesa diocesana suggerendo una serie di consigli consultivi per favorirne la pratica. Mi riferisco a Presbyterorum Ordinis 7 e a Christus Dominus 27, la cui applicazione è avvenuta in seguito al Motu proprio Ecclesiae Sanctae di Paolo VI (6 agosto 1966) con la creazione del consiglio presbiterale e del consiglio pastorale (n. 15).

Resta il fatto che il Vaticano II non ha sviluppato un discorso teologico esplicito sulla Chiesa a partire dalla categoria centrale di communio, pure presente nella filigrana di tutta l’ecclesiologia[11]. Si pensi a come la trattazione del Popolo di Dio in Lumen Gentium sia gravida di una sinodalità potenziale, a cominciare dal fatto di precedere quella dei ministeri che la pone in una posizione «fondativa», senza che ciò abbia prodotto conseguenze effettive[12].

Quindi, si tratta di considerare, al di là delle deliberazioni conciliari, la partecipazione della Chiesa alla comunione trinitaria come un punto di partenza.

La tesi di Legrand che qui riprendo è che la sinodalità fa parte dell’essenza della Chiesa, in quanto essa partecipa alla comunione trinitaria. Non c’è Chiesa senza sinodalità.

La visione trinitaria – mutuata da Cipriano, come abbiamo visto, Agostino e Giovanni Damasceno – dà il tono alla costituzione Lumen Gentium, la quale si apre con la descrizione, in riferimento alla storia della salvezza, della relazione della Chiesa la Padre (n. 2), al Figlio (n.3) e allo Spirito Santo (n. 4). La Chiesa è così esplicitamente compresa come Popolo di Dio Padre, Corpo di Cristo e Tempio dello Spirito Santo (Lumen Gentium 17 e Presbyterorum Ordinis 1). Questo stesso approccio è ripreso a proposito delle Chiese locali in Lumen Gentium 26 e si ritrova nella definizione più «tecnica» della diocesi in Christus Dominus 11, in entrambi i casi con un riferimento eucaristico al Corpo di Cristo e all’unità nello Spirito. La sintesi della concezione trinitaria si ritrova in Unitatis Redintegratio 2: «Il modello supremo e il principio [del ministero della Chiesa] è l’unità nella Trinità delle persone di un solo Dio Padre e Figlio e nello Spirito Santo».

La partecipazione dei cristiani alla comunione – nonché al triplice ufficio regale, sacerdotale e profetico (Lumen Gentium 10,11,12,34,35,36) – avviene nella fede per effetto del battesimo. Ne consegue che: «vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli per l’edificazione del corpo di Cristo» (Lumen Gentium 32). Si spiega così la portata sinodale, pur se rimasta senza conseguenze, della struttura di Lumen Gentium che assegna una collocazione privilegiata alla trattazione del Popolo di Dio. «Se tali sono gli effetti del battesimo, è chiaro che l’ecclesiologia proposta dal magistero ordinario fino a non molto tempo fa richiede profonde revisioni: è impossibile opporre governanti e governati, celebranti e assistenti, docenti e discenti, come è stato fatto da Leone XIII a Pio XII. Non sarebbe dunque giusta una ecclesiologia che escluda a priori ogni espressione istituzionale della comune responsabilità dei cristiani, vale a dire ogni forma di sinodalità»[13].

Se il principio è difficilmente rifiutabile, suscita però delle resistenze nella pratica.

 

La stagione post-conciliare tra ricerche e tentativi

Dopo il Concilio, la riflessione teologica su questi temi è proseguita, seppure non in forma organica e sistematica. Si è trattato prevalentemente di tentativi interessanti, che non hanno mai occupato una posizione centrale nel dibattito ecclesiale, ma i quali la crescita di una certa coscienza sinodale. Per renderne conto, provo a richiamare quelle che a mio avviso sono le «piste» di ricerca più significative aperte in questi ultimi decenni.

L’esplicitazione del rapporto tra la dimensione sinodale e la liturgia. I sinodi della Chiesa antica si sono sviluppati storicamente dalla riunione della comunità locale, cioè dalla riunione liturgica. Il sinodo ha una natura liturgica, è una continuazione della riunione liturgica, perché è «nell’evento sponsale liturgico, quello in cui il Cristo unisce a sé la Chiesa come sua sposa amatissima, il concepimento continuo della Chiesa stessa».

Il confronto ecumenico sulla sinodalità come esercizio collegiale dell’autorità nel quadro della comunione, soprattutto in riferimento al ministero petrino (cfr. l’invito formulato da Giovanni Paolo II in Ut unum sint 95).

L’approfondimento e la valorizzazione del legame tra collegialità episcopale e communio della Chiesa locale: i soggetti della collegialità sono i vescovi in comunione con la propria Chiesa e non individualmente (un tema sollevato per lo più nell’ambito dell’ecclesiologia francofona da studiosi come Herve Legrand, Jean Marie Tillard, Gilles Routhier).

La ricerca sulle forme storiche della sinodalità e della partecipazione laicale (in Italia legata in modo particolare alla Fondazione per lo Studio delle Scienze Religiose di Bologna).

La dimensione attuativa delle forme sinodali nella Chiesa locale (sinodi diocesani, organismi di partecipazione ecclesiale). Come far sì che queste realtà non diano luogo solo a occasioni di consultazione, scambio e riflessione, ma consentano di avviare prassi nuove?

L’esercizio collegiale e sinodale della cura pastorale. Con la diminuzione dei preti e l’esigenza di avviare nuove forme di pastorale d’insieme (unità pastorali e collaborazioni zonali), il modello di parrocchia tridentino, ancora prevalente, si rivela sempre meno efficace e sostenibile, oltre che non del tutto rispondente ad alcuni caratteri propri dell’essere ecclesiale richiamati in queste note. Non si tratta semplicemente di creare parrocchie più grandi per accorpamento, in rapporto al calo numerico del clero, ma strutturalmente uguali alle precedenti dove il prete è il centro di tutto e i laici hanno il ruolo di esecutori. Sarebbe una scelta nella direzione dell’impoverimento e dell’indebolimento di strutture sempre più anonime e necessariamente burocratizzate. Ben altro sarebbe avere delle équipe composte dai ministri ordinati insieme agli animatori pastorali di aggregazioni comunitarie più piccole, sviluppando i ministeri e le responsabilità laicali[14].

La presa di coscienza del discernimento comunitario e dell’elaborazione del consenso come eventi spirituali, oltre che come fatti organizzativi e procedurali, riallacciandosi alla tradizione monastica e degli ordini mendicanti.

Passando dal piano teologico a quello della vita ecclesiale, vale la pena di fare una breve rassegna dei tentativi più rilevanti di cammino sinodale.

Cominciando dai rapporti ecumenici, segnalo alcune affermazioni di tre documenti in cui la sinodalità è declinata come esercizio dell’autorità nella comunione. Il fulcro di questa prospettiva è che tutti i battezzati sono corresponsabili per la fede apostolica e per la testimonianza apostolica dell’intera Chiesa. Questa si realizza attraverso la discussione comunitaria e la rappresentanza in strutture sinodali (Commissione Fede e Costituzione del CEC, La natura e lo scopo della Chiesa)[15]. In base alla premessa che il sensus fidelium del popolo di Dio e il ministero episcopale sono in una relazione di reciprocità e complementarietà, le forme sinodali sono necessarie per manifestare la comunione all’interno e tra le Chiese locali (Rapporto della Commissione internazionale anglicano/cattolica su Il dono dell’autorità – L’autorità nella Chiesa III)[16]. L’autorità dottrinale dell’intero popolo di Dio è perciò esercitata in un clima di comprensione e di scambio, in riunioni sinodali così come nella recezione delle loro decisioni (Gruppo di Dombes, Un seul Maître. L’autorité doctrinale dans l’Église)[17].

Entro la Chiesa cattolica i sinodi continentali che Giovanni Paolo II ha preso l’abitudine di convocare evidenziano sempre più le grandi differenze entro il patriarcato d’Occidente, sempre più mondiale e interculturale. Quanto i più diversi territori ecclesiastici manifestano e sviluppano particolarità proprie, tanto più diventa importante il reciproco scambio e l’attenzione a non confondere il ministero unitario con una tendenza uniformatrice e livellatrice. «Il diritto ecclesiastico unitario, la liturgia unitaria, l’unitaria assegnazione delle sedi episcopali da parte della centrale romana – sono tutte cose che non risultano necessariamente dal primato come tale, ma derivano da qeusta stetta congiunzione di due uffici. Si dovrebbe quindi considerare come compito per il futuro il distinguere di nuovo chiaramente l’ufficio autentico del successore di Pietro e l’ufficio patriarcale, e, dove necessario, creare nuovi patriarcati senza più considerarli incorporati nella chiesa latina»[18].

Mettendo a fuoco le realtà sinodali già in atto nelle chiese locali, è sotto gli occhi di tutti la diffusione degli organismi di partecipazione ecclesiale e la frequenza dei sinodi diocesani. In proporzione a tale diffusione, però, risultano inadeguati gli sforzi per valutarne il funzionamento e l’efficacia, per non dire della stagnazione della ricerca teologica sullo statuto di tali realtà e del dibattito sulla normativa canonica che li riguarda. Ci sono comunque delle esperienze interessanti che varrebbe la pena di conoscere meglio. Penso, per esempio, alla diocesi di Milano che in anni recenti ha celebrato sinodi dei giovani, delle donne e dei preti. Anche i convegni ecclesiali nazionali decennali, pur non godendo di una chiara legittimazione ecclesiologica, hanno notevoli potenzialità sinodali. Esse sono legate alla fase preparatoria, con la raccolta dei contributi diocesani e di altre realtà ecclesiali, ai lavori di gruppo che consentono a tutti i delegati di esprimersi e all’intento comunionale con cui, negli anni ’70, mons. Enrico Bartoletti aveva pensato questa iniziativa.

L’ultimo ambito su cui desidero soffermarmi è quello specificamente pastorale. Alla sinodalità sono stati riservati spazi occasionali, anche se non sono mancati spunti in tal senso che avrebbero potuto essere maggiormente recepiti. Negli orientamenti pastorali dei vescovi italiani Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia (2001), al n. 67 vengono indicati alcuni passaggi da compere in un cammino guidato da un costante riferimento al Vaticano II, tra cui il percorrere vie di comunione

 e l’impegno dei fedeli laici all’assunzione di nuove forme ministeriali. La nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (2004) al n. 11 raccomanda una «pastorale integrata» che richiede nuove ministerialità, collaborazione, corresponsabilità, disponibilità a lavorare insieme, comunione tra sacerdoti, diaconi, religiosi e laici. La nota pastorale dopo il Convegno di Verona, Rigenerati per una speranza viva (2007), al n. 24 – dedicato alla corresponsabilità – richiede che «si rendano operavi quei luoghi in cui ci si allena al discernimento spirituale, all’ascolto reciproco, al confronto delle posizioni, fino a maturare, secondo le responsabilità di ciascuno, decisioni ponderate e condivise». E il n. 26, sul valore della vocazione laicale, esorta: «Occorre pertanto creare nelle comunità cristiane luoghi in cui i laici possano prendere la parola, comunicare la loro esperienza di vita, le loro domande, scoperte, i loro pensieri sull’essere cristiani nel mondo». Ci sono state inoltre proposte autorevoli che hanno invitato d aprire nuovi spazi di partecipazione e confronto laicale[19].

Ancora poco, però, è entrato nella pastorale ordinaria delle nostre comunità cristiane. Alcuni anni fa ha avuto una certa risonanza l’esperienza della diocesi di Poitiers in cui sono state create delle comunità locali, là dove il mantenimento in essere di tutte le parrocchie non era più sostenibile, assegnate alla cura pastorale di un gruppo di base laicale che ha la responsabilità dell’annuncio, della preghiera, della carità e dell’amministrazione economica. Questi ministeri sono stati così distinti dalla celebrazione dei sacramenti[20]. Ci sono anche in Italia diocesi dove si compiono tentativi di alternativa alla centralizzazione clericale – è il caso, per esempio, di Chioggia, dove nel polesine sono state create équipe pastorali laiche[21] – ma restano, però, esperimenti circoscritti in un quadro generale dove, pur con il necessario incremento delle unità pastorali, continua a prevalere il modello tradizionale di parrocchia.

Al di fuori dei confini italiani ci sono iniziative da noi poco conosciute, ma che offrono stimoli di rilievo. Un esempio è quello del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, forum permanente a guida elettiva laicale, che raccoglie i cattolici impegnati nella società e nella politica, in associazioni, movimenti, partiti, sindacati, università. Il Comitato centrale dei cattolici tedeschi è un modello di rappresentanza dei cattolici che costituisce una delle ricchezze della Chiesa tedesca da cui proviene Benedetto XVI. Vi è poi negli USA la Catholic Common Ground Initiative voluta nel 1996 dal card. Joseph Bernardin di Chicago alcuni mesi prima della sua morte. La sua finalità era quella di alimentare tra i cattolici una «autentica unità», una «diversità accettabile» e un «dialogo rispettoso» in tempi in cui le posizioni ecclesiali tra liberal e conservatori si erano radicalizzate[22]. La Common Ground Initiative prosegue tuttora e ha elaborato un nuovo piano che riafferma l’impegno a far sì che i cattolici che hanno «diversi punti di vista su temi ecclesiali critici» si radunino per impegnarsi in «un dialogo orante per il bene della costruzione della comunione della Chiesa»23.

Sono tutti inizi, tra il «già» e il «non ancora», promesse non ancora compiute, ma che mantengono un valore di segno da non smarrire.

 

Christian Albini

 


 




[1] Benedetto XVI, Alla Curia Romana per il Natale, 22 dicembre 2005.

[2] Risalente alla promulgazione dell’indice dei libri proibiti da parte di Pio IV (1564).

[3] Cfr. Luciano Bordignon, «Che cos’è la sinodalità», in Credere oggi, 4 (1993), pp. 75-84; Severino Dianich, «Sinodalità», in G. Barbaglio – G. Bof – S. Dianich (a cura di), Teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, pp. 1522-1531.

[4] Giuseppe Barbaglio, «La fede cristiana, In-sein mistico e Mit-sein sociale: la prospettiva ecclesiologica di Paolo», in Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, Glossa, Milano 2007, pp. 31-66.

 

[5] Cfr. Eugenio Corecco, «Sinodalità», in G. Barbaglio – S. Dianich (a cura di),  Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Cinisello Balsamo 2000 (VIII ed.), pp. 1431-1456.

[6] Giuseppe Ruggieri, «I sinodi tra storia e teologia», in Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità, cit., p. 133.

 

[7] Benedetto XVI, Lettera ai vescovi, 10 marzo 2009.

[8] «Tutta la verità cristiana è stata pienamente rivelata; non è stata però pienamente compresa, né pienamente vissuta» (Thomas Merton, Semi di contemplazione, Garzanti, Milano 1965, p. 112) Secondo Merton, la tradizione della Chiesa «deve sempre essere una rivoluzione» (p. 113).

[9] Cfr. Herve Legrand, «La sinodalità al Vaticano II e dopo il Vaticano II», in Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità, cit., pp. 67-68.

[10] «Ai soli pastori è dato tutto il potere di insegnare, di giudicare, di dirigere; ai fedeli è stato imposto di seguire i loro insegnamenti, di sottomettersi docilmente al loro giudizio e di lasciarsi governane, correggere e condurre alla salvezza» (Leone XIII al cardinale Guibert, 1885). «La Chiesa è per sua esssenza società diseguale, cioè comprendente due categorie di persone, i pastori e il gregge […] (questo) non ha altro diritto che quello di lasciarsi condurre e, quale docile gregge, di seguire i suoi pastori» (Pio X, enciclica Vehementer alla Chiesa di Francia, 8-9, 1906).

 

[11] Cfr. Eugenio Corecco, «Ontologie de la synodalité», in Théologie et droit canon, Editions universitaires, Fribourg 1990.

[12] Cfr. José Comblin, Il popolo di Dio, Servitium editrice/Città aperta, Troina 2007.

 

[13] Legrand, cit., p. 91.

[14] Cfr. Susan A. Ross – Paul D. Murray – Maria Clara Bingemer (a cura di), «I ministeri laicali nella Chiesa oggi», in Concilium 1 (2010), pp. 11-138.

 

[15] In Il Regno documenti, 9 (1999), pp. 315-328.

[16] In Il Regno documenti, 11 (1999), pp. 370-381.

[17] In Il Regno documenti, 15 (2005), pp. 425-450; 17 (2005), pp. 483-503.

[18]Joseph Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971, pp. 155-156.

 

[19] Cfr. Bartolomeo Sorge, «Verona 2006: è l’ora dei laici», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (2006), pp. 643-654: Giorgio Campanini, «Corresponsabilità nella comunione. I laici nella Chiesa dopo Verona», in Aggiornamenti Sociali, 1 (2007), pp. 22-32; Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa, Einaudi, Torino 2009, pp. 35-43.

[20] AA.VV., Un nuovo volto di Chiesa. L’esperienza coraggiosa e innovativa della diocesi di Poitiers, Paoline, Milano 2007.

[21] Sara Laurenti, «La piccola Venezia in emergenza fragilità», in Jesus, 4 (2010), pp. 92-96.

[22] Cfr. National Pastoral Center, «Chiamati a essere cattolici», in il Regno documenti, n. 17 (1996), pp. 522-524.

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