Koinonia Settembre 2020


Per una rilettura del documento dei domenicani olandesi

 

“Verso una Chiesa che abbia un futuro”

 

Nell’impervio cammino del Popolo di Dio - che è poi quello di tutti noi - ci sono questioni cicliche che riemergono regolarmente come in un percorso carsico. Tanto per rimanere in ambito ufficiale, l’Istruzione della Congregazione del clero, che riporta al centro le parrocchie per focalizzarsi poi sulla figura del parroco, rimette in campo la discussione su ministeri e comunità, questione ricorrente a ripetizione dal Concilio in poi: si ripropone un dibattito tanto dotto e sofisticato quanto stucchevole e inconcludente, nel senso che gira su se stesso per lasciare le cose dove sono. Così come del resto si continua a vivisezionare il Concilio, pur di non prendere sul serio la questione del vangelo nel mondo, preferendo utilizzarlo a proprio uso e consumo!

La “vexata quaestio” del Vaticano II è diventata infatti oggetto di analisi e di scienza a sé nella sua storia e nei testi: il Concilio è stato studiato e discusso più di quanto sia stato esperito e vissuto nel suo intento di fondo. Si è trasformato in una sorta di ingegneria ecclesiale mentre ha perso la sua ispirazione originaria di “tocco inatteso: uno sprazzo di suprema luce; una grande soavità negli occhi e nel cuore. E insieme un fervore, un grande fervore destatosi improvviso in tutto il mondo”. Così papa Giovanni nel suo discorso di apertura l’11 ottobre 1962, che aggiunge: “Questo richiede serenità di animo, concordia fraterna, moderazione di progetti, dignità di discussioni, e saggezza di deliberazioni”. Da processo messianico è passato ad occupazione e contesa di spazi!

Non che l’impegno profuso nella ricerca e nell’approfondimento non sia stato necessario e utile, ma non può rimanere fine a se stesso e terreno di scontro per far valere opzioni o preoccupazioni pregiudiziali, che poco o nulla hanno a che fare con gli intenti e il metodo proposto da Giovanni XXIII, un metodo impostato su questa distinzione: “Altra cosa è infatti il deposito stesso delle verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate… Bisognerà attribuire molta importanza a questa forma e, se sarà necessario, bisognerà insistere con pazienza nella sua elaborazione; e si dovrà ricorrere ad un modo di presentare le cose che più corrisponda al magistero, il cui carattere è preminentemente pastorale”. Si tratta solo di una re-interpretazione teologica dottrinale, o si tratta di una recezione e inculturazione diversa dell’annuncio evangelico tout-court?

Tutto ciò potrà sembrare semplicistico e ingenuo, ma credo che se questo orizzonte non si tiene ben presente si rischia di tradire lo scopo principale del Concilio. Infatti “Lo scopo principale di questo concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della chiesa, in ripetizione diffusa dell’insegnamento dei padri e dei teologi antichi e moderni quale si suppone sempre ben presente e familiare allo spirito. Per questo non occorreva un concilio”. Possiamo quindi dimenticare e disattendere per che cosa è stato ispirato e voluto un Concilio, e attardarci in interpretazioni teologiche contrapposte tra continuità e discontinuità, tradizione e innovazione, in un gioco infinito di eterogenesi dei fini? Invece di decostruire o di rimpiangere,  per tornare alle origini non sarebbe meglio rinascere e rigenerarsi?

Proprio in questi giorni, la punta dell’iceberg di come stanno le cose è apparsa in un articolo di Pietro De Marco (sul blog di S.Magister) a cui non ha fatto mancare una replica Andrea Grillo sul suo blog Come se non…, tutte dotte disquisizioni che però rimandano alla locuzione latina “mentre a Roma si discute, Sagunto è espugnata” (Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur): mentre si dibatte animatamente e finemente sul Concilio, il Popolo di Dio rimane preda indifferentemente di tradizionalisti gattopardeschi e di progressisti autoconservativi, per rimanere sempre in stato di subalternità e di dipendenza. Ecco il vero problema!

La novità del Concilio non sta nei principi, non è fatta di tesi, di dogmi, di pronunciamenti, di delucidazioni, di opzioni teologiche, se non in quanto promuovano e accompagnino un processo di maturazione reale del Popolo di Dio che col Concilio ha iniziato un nuovo esodo nella storia. Certamente ci voleva e rimane necessaria una elaborazione teologica che metta in risalto la nuova coscienza di chiesa suscitata dal Vaticano II, ma la dimensione teologica non può essere a circuito chiuso. Così come non basta un uso nominale e ideologico della formula “Popolo di Dio” se non interviene una vera e propria kenosi che ci porti  ad assumere la condizione reale, storica e quotidiana del Popolo delle beatitudini, e quindi di coloro di cui è fatta la  “Chiesa dei poveri”!

Questi poveri fondamentalmente sono coloro per i quali Gesù rende lode al Padre perché rivela loro i misteri del Regno mentre li tiene nascosti ai sapienti e agli  intelligenti: sappiamo dove e come le reali modificazioni devono avvenire. Per la verità non sono mancate riforme in questo senso, ma non intrinseche al Popolo di Dio nella sua vita e nella sua fede, quanto piuttosto nel suo modo di rapportarsi al mondo, e cioè nelle sue scelte storiche quali evangelizzazione e promozione umana, teologia della liberazione, cura e salvaguardia del creato, e anche l’ecumenismo come dimensione accessoria! Quindi, modifiche periferiche e settoriali, non sostanziali e trasversali interne alla realtà o al mistero della fede, quali sarebbero richieste in un tempo di cambiamento d’epoca: una fede ridotta per lo più a mito, a utopia e ideologia, ma priva della sua potenza trasformatrice!

Se davvero vogliamo andare alla radice, si arriva a toccare il “mistero della fede” e quindi la celebrazione eucaristica, intesa per lo più come spazio riservato e inaccessibile ai non addetti: qualcosa non disponibile ai più pur trattandosi del fondamento e vertice, inizio e compimento -  “fons et culmen” - di tutto il mistero cristiano e della intera vita della chiesa, quindi tale da interessare tutta l’esistenza del Popolo di Dio. Perché ciò che investe tutti deve diventare appannaggio esclusivo di alcuni? Il passaggio è da tutti a qualcuno e non da qualcuno ad altri!

È qui che nasce e si gioca il dramma interno alla chiesa che si ripresenta ciclicamente in diverse forme, ma di fatto è relativo alla Eucarestia: un dramma a cui si cercano soluzioni teologiche, rituali e pastorali, a prescindere però dai suoi attori diretti: e cioè il Popolo di Dio dei “praticanti” e il Popolo di Dio delle strade e dei crocicchi ugualmente invitato alla mensa del Signore. Abbiamo avuto modo di dire come il fenomeno che va sotto il nome di “comunità di base” abbia rappresentato il tentativo di un ripensamento e di reimpostazione della celebrazione eucaristica e quindi del senso stesso della assemblea liturgica come anima ed espressione concreta di chiesa. Questa esperienza ha tutta una storia, che non andrebbe dimenticata, per quanto segnata dal fallimento o da un blocco.  Ma è qui il punto di riferimento per la ripresa di un cammino interrotto.

Un momento significativo in cui questa problematica è riemersa si è avuto con il documento Chiesa e ministero - Verso una Chiesa che abbia un futuro ad opera del Capitolo provinciale dei domenicani olandesi del giugno 2005, che presentò questa risoluzione su “Le parrocchie alla luce di una nuova visione della Chiesa”: “Un centro di fede e spiritualità può essere una nuova forma di Chiesa. Anche in tale centro emergerà l’esigenza di celebrare l’eucaristia. Questo desiderio è già presente in quelle parrocchie che attualmente non la celebrano perché non hanno un pastore ordinato. Perciò incarichiamo il Consiglio di istituire al più presto una commissione o un gruppo di lavoro composta da esperti, cui sarà affidato il compito di studiare gli aspetti teologici della questione se la celebrazione dell’eucaristia dipenda dal ministero di un uomo ordinato essa possa essere celebrata da pastori scelti dalla stessa comunità ecclesiale. Tale studio dovrebbe tradursi in un documento che indichi una direzione, offerto dai domenicani olandesi alla Chiesa dei Paesi Bassi, soprattutto alle parrocchie e ai centri di fede e spiritualità, con l’obiettivo principale di creare un dialogo aperto cui tutte le parti interessate possano partecipare. La commissione dovrebbe inoltre pensare a una strategia che faciliti tale dialogo aperto”.

Sarebbe interessante sapere quali esiti questo documento abbia sortito nei Paesi Bassi, ma l’impressione è che sia stato fatto abortire. Anche in Italia ha avuto la consueta risonanza di “scandalo”, ma come meteora, che però ha lasciato il segno nella pubblicazione di Eucaristia senza prete? (Edizioni la meridiana 2009) ad opera di “Noi siamo chiesa”, che potrebbe avere ancora un seguito. Il fatto che la problematica sollevata non abbia avuto soluzioni non vuol dire che debba essere ignorata e disattesa, ma è un motivo in più per prenderne atto e coscienza e non rinunciare a quella “conversione pastorale” che non può rimanere modo di dire.

Per di più si tratta di una iniziativa che nasce in ambito domenicano e che potrebbe essere ripresa come impegno per celebrare l’8° centenario della morte di san Domenico di cui si dice: “Intento a parlare con te e di te, crebbe nella sapienza e facendo scaturire l’apostolato dalla contemplazione, si votò totalmente al rinnovamento della Chiesa” (Prefazio della liturgia del santo). E se fosse questo il motivo conduttore dell’anno giubilare ormai alle porte? Un compito che possiamo sottovalutare e disattendere, ma che possiamo anche condividere in solidarietà con quanti lo sentono urgente in questo cambiamento d’epoca!

 

P.Alberto Simoni op

.

.