Koinonia Gennaio 2019


P.Emilio Panella ci fa dono di questo contributo di riflessione. È il testo di un suo articolo, composto da lui quando nel 1962/63 era  studente in San Domenico di Pistoia. Era destinato originariamente a «Onde corte», organo ciclostilato dello studentato domenicano di Pistoia, animato da fra Alberto Simoni OP; ma fu riprodotto poi in «Rivista di ascetica e mistica» nel convento San Marco di Firenze (8/1963, pp. 105-107 = anno XXXII di «Vita cristiana»).

per iniziativa dell'allora direttore padre Innocenzo Colosio OP († 1997).

P.Panella fa questa annotazione: “Nel gennaio 2015 rileggo questo testo dopo mezzo secolo, e mi sorprendo. Non scriveva male, questo ragazzo! Però, aggettivazione eccedente - non ti pare? Frutto dei suoi ardori papiniani di quegli anni?”.

 

Ho paura d’uccidere Gesù

 

Ho una tremenda paura d’uccidere Gesù. Tanto più se penso che potrei ucciderlo “legalmente”. Potrei ucciderlo in nome della legge, in forza della legge. E tanto più sarebbe caparbio il mio accanimento nel far scoccare la sentenza capitale sulla testa di Gesù in quanto so che la legge mi vien da Dio; e io amo Dio e amo la legge di Dio che reclama la sua realizzazione in me e negli altri. E se uccido Gesù in nome della legge, e della legge di Dio, chi può alzare la mano contro di me?

 

Eran queste le idee che mi frullavano in testa mentre leggevo il racconto della Passione di Gesù. Quando nel testo ha fatto più volte capolino l’annotazione degli evangelisti che Gesù taceva ostinatamente alle accuse dei giudei, non mi è occorso di trarne la lodevole applicazione ascetica dell’accettazione silenziosa delle offese e delle ingiurie; mi è venuta invece una considerazione che per la sua possibile sfumatura d’impertinenza (per lo meno per la sua stravagante originalità) ha meravigliato anche me.

Pensavo: che cosa avrebbe dovuto rispondere Gesù agli accusatori? e perché? che cosa poteva rinfacciare ai giudei? di difendere il monoteismo e la trascendenza di Javè? Non avevano forse ragione?

Avevano una legge che era loro cara come la pupilla degli occhi. Il rispetto e l’osservanza della legge era la misura della loro obbedienza e della loro fedeltà a Javè. «Noi abbiamo una legge, e secondo questa legge deve morire perché s’è fatto Figlio di Dio» (Giov. 19,7). Gesù non si era forse detto Dio? E allora “morte moriatur”.

Vi assicuro che il pensiero che anch’io amo la legge perchè amo Dio, e che proprio in forza del mio amore alla legge sarei potuto trovarmi tra la frotta dei giudei che reclamavano la morte di Gesù, questo pensiero - dico - mi ha provocato una fitta nella schiena. Né mi ha rassicurato il fatto che, via!, non sarebbe stato difficile riconoscere anche in mezzo alla ressa dei perdigiorno palestinesi quel trentenne dal volto dolcissimo, dalle chiome bionde, dal mantello rosso sulla veste azzurra e leggergli in fronte il riflesso della Divinità...

        

Ah, la fantasia, che consigliera bilingue!

 

Il fatto è che a me palestinese del tempo di Tiberio quel trentenne dalle chiome bionde, dal mantello rosso e dalla veste azzurra non avrebbe detto niente di più di quanto a me, occidentale dell’èra atomica, dica l’incontro, in una strada delle nostre metropoli, con un trentenne dai capelli a spazzola, dai calzoni a tubo, dalla cravatta a righe. Né riesco, Dio mio!, a rimproverarmi irriverenza nel figurarmi Gesù con i capelli a spazzola, con i calzoni a tubo, con la cravatta a righe. E come dovrei ricostruirmi la figura di Gesù se il Padre avesse deciso d’inviarlo nella nostra epoca e nella calotta della sfera terrestre riservata ai popoli occidentali?

E la mia fantasia non sarebbe riuscita a fare d’appannaggio al mio amore alla legge, ché anzi più grande è il mio amore alla legge, più alta è la mia concezione della santità e della trascendenza di Dio, e più forte avrei gridato alla bestemmia e allo scandalo nel sentire da un simile trentenne arrogarsi qualifiche divine.

Ma sta il fatto che Gesù era veramente Dio e i suoi nemici ebbero torto marcio a chiedere la morte di Dio in forza dei diritti di Dio.

Dunque la legge per la quale militavano era ingiusta? No. La legge era giustissima e santissima della giustizia e della santità di Dio stesso. E allora?

Allora avevano commesso il più grande delitto (che potenzialmente includeva tutti gli altri delitti «legali”, deicidio incluso) di mettere la legge a proprio servizio, di assumere la legge come paravento alla propria persona e dare a questa la forza cogente e la santità divina propria della legge di Dio. Appellavano alla legge di Mosè e difendevano i propri interessi, tiravano in ballo la trascendenza di Javè e servivano al proprio prestigio, rivendicavano le tradizioni dei padri e giustificavano il proprio nientefare, citavano i commi del Levitico e mascheravano la propra improntitudine. E tutto questo ricoperto col paludamento di vindici dei diritti sacrosanti di Dio e illuminato coi riflessi aurei dell’orpello della santità della legge divina.

 

Dio mio, che confusione! Non si sa più ciò che è di Dio e ciò che è nostro; le parti s’invertono facendo allegramente la spola tra Dio e noi, e arrivano all’identificazione. E siccome il mio egoismo è più forte di me, nella legge di Dio vedo solo la mia parte. Non so più riconoscere Dio nella legge, né i suoi diritti. E questo con l’anodino di coscienza che tutto faccio per la legge di Dio. Mentre proprio allora son fuori della legge perché non riconosco più la legge. Proprio allora i miei occhi son sotto il bendaggio del mio egoismo e non vedo né la vera realtà della legge né Dio nella legge.

 

A questo punto della mia perversione (l’unica attenuante, o Signore, è che si sia prodotto in me un processo incosciente più forte della mia coscienza) posso detestare gl’idoli perchè mi fa gola depredarne i templi (Rom. 2, 22), posso gloriarmi della legge nel momento stesso in cui violo la legge (ib. 2, 23), posso far bestemmiare Dio dai Gentili a causa mia e imputare la bestemmia all’empietà dei nemici di Dio (ib. 2, 24).

 

A questo punto posso insorgere alla difesa della legge con tanta bile da non accorgermi che issofatto sono fuori della legge perché sono fuori della carità; posso sciorinare sotto il naso del mio prossimo tutti i punti della legge senza accorgermi che al mio prossimo non oppongo la legge ma me stesso nascosto dietro le quinte della legge; posso uccidere Dio in nome di Dio senza accorgermi che ho preso il posto di Dio. E tutto questo posso farlo con le spalle al sicuro, convinto di agire con la legge e per la legge. Un’azione “legale” fuori la legge.

Mi ritrovo nel sommo sacerdote Ananìa che fa percuotere in faccia Paolo accusato al Sinedrio di diffondere la dottrina di Cristo; ma non riesco neppure lontanamente a sospettare la mia scandalosa contraddizione rinfacciatami da Paolo: «Dio percuoterà te, muraglia imbiancata! Tu sei seduto per giudicarmi secondo la legge e violi la legge ordinando che mi si percuota» (Atti 23, 3). (E quanti casi simili negli Atti nel racconto delle reazioni dei Giudei all’apostolato di Paolo!).

A tal punto di perversione non mi meraviglia più il pensare che con tutto il mio amore per Dio e per la sua legge, anzi appunto per questo avrei potuto smanettare anch’io sotto la loggia di Pilato per chiedere la morte di Gesù. E forse oggi l’ucciderei un’altra volta se mi si ripresentasse sotto le spoglie del trentenne dai calzoni a tubo e dalla cravatta a righe. Se non altro l’uccido nel mio prossimo, dalla mattina alla sera, ogni volta che appello alla legge di Dio per far trionfare me stesso attraverso la legge.

 

O Signore, dàmmi la pienezza della legge nella sua purità e nella sua santità; che la tua legge, cioè, sia solo Tu stesso cosicché con la luce stessa della tua legge io possa scoprirti e riconoscerti in ogni tua manifestazione.

 

Allontana da me la pazzia di sostituirmi a Te nella tua legge; allontana da me la paura di uccidere legalmente, in Gesù e nel mio prossimo, Dio in nome di Dio.

 

Emilio Panella OP

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