Koinonia Agosto 2016


“Già e non ancora” a cura di Daniele Garota

 

9. L’ATTIMO E L’ETERNO

 

Ci sono esperienze vissute nell’intimità o negli incontri più o meno casuali della nostra vita, che durano un attimo e che possono contenere il peso dell’eternità. Possono cioè pesare più di quanto riusciamo a vivere lungo gli anni della nostra intera vita, permettendo così di affacciarci persino su quanto va oltre la nostra morte. Possiamo perciò perdere molto tempo con sciocchezze di ogni genere e non accorgerci dell’istante in cui ci viene data l’occasione non solo di dare senso alla nostra vita, ma persino di decidere, secondo la nostra fede, della nostra salvezza eterna.

E questo accade perché quell’attimo, vissuto magari nel nascondimento o insieme a pochissimi altri, rimane nella memoria di Dio ed è dunque destinato a riapparire, in tutta la sua singolarità e importanza, nel giorno del Giudizio ultimo, là dove verranno pesate non soltanto le nostre azioni ma persino i nostri pensieri e le nostre più recondite intenzioni.

In un celebre passaggio de L’idiota, Dostoevskij immette nell’interiorità del protagonista, in circostanze di “tormentosa impazienza”, quanto egli stesso era solito vivere nell’attimo che precedeva “l’accesso epilettico”. In un batter d’occhio, tra tristezza e apprensione, “il suo cervello sembrava accendersi di colpo, tendendo in un estremo impulso tutte le proprie energie vitali. In quell’attimo, che aveva la durata di un lampo, la sensazione della vita e il senso dell’autocoscienza, sembravano decuplicare di forza. Il cuore e lo spirito si illuminavano di una luce straordinaria. Tutti i dubbi, tutte le ansie e le agitazioni sembravano acquietarsi di colpo, si risolvevano in una calma suprema, piena di armonica e serena letizia, di speranza, di ragionevolezza e di penetrazione suprema”. Certo, era il tocco di una malattia vissuta personalmente da Dostoevskij, ma questo nulla escludeva secondo lui il valore “sommamente armonico e sublime” di quell’attimo di coscienza nel quale sentiva sprigionarsi una “pienezza” capace di legare insieme e in maniera improvvisa lo “slancio” della “preghiera, con la più alta sintesi della vita”. Al punto da tirare in ballo (come spesso gli capitava entrando negli abissi e negli sdoppiamenti del sottosuolo umano) il libro dell’Apocalisse. In questo caso il singolare versetto 6 del capitolo 10: “Non vi sarà più tempo!”.

Dunque come se quel che avviene in certi attimi nel nostro cuore, davanti a Dio e al mondo, decidesse il nostro destino eterno. Come reagisce il nostro cuore, la nostra parte più segreta e sensibile di noi, davanti al volto del povero che in un preciso istante ce lo ritroviamo davanti  e ci guarda mentre ci porge la mano sporca e tremante? O mentre ci si presentano improvvisamente davanti agli occhi le scarpine lì sulla riva del bambino annegato? Potremmo avere davanti altri cent’anni di vita agiata e di successo, ma per noi il tempo potrebbe essere già finito e altro non ci resterebbe davanti che “una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli”. Per quale motivo? Perché a quel punto non potremo dire: non lo sapevo e altra occasione potrebbe non esserci più data (Eb 10,26-27). Tutto dunque potrebbe essere deciso in quell’attimo che magari abbiamo percepito appena e che un istante dopo abbiamo magari già rimosso e dimenticato. Ma che non ha dimenticato Dio che abita, più di quanto immaginiamo, nelle viscere del povero che soffre e chiede aiuto.

Qualcosa di simile accadde al “ricco epulone” ch’ebbe occasione di incontrare l’Eterno nella presenza di Lazzaro povero e affamato. Non s’accorse di nulla o fece finta di niente per un’intera vita e quando gli fu tutto chiaro non c’era più tempo. Ve n’era sì, per i suoi fratelli ancora a casa, ma anche per essi a decidere era come gli si muoveva il cuore davanti alla Parola di Dio che dona indicazioni chiare e sufficienti. O meglio: più di quello sfiorarci in quell’attimo il cuore e la mente Dio non può fare (Lc 16,19-31). Quando ci si accorgerà, nel giorno in cui la luce santissima della memoria di Dio, che tutto in sé conserva per l’ultimo giorno, ci mostrerà, non faremo più in tempo a rimediare. E sarà terribile proprio per questo il giudizio, perché in qualche modo ce lo daremo da noi e sarà proprio la consapevolezza di non far più in tempo a fare ciò che in quell’istante vorremmo con tutte le nostre forze avere fatto, la nostra dannazione eterna.

La nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore, e dunque la nostra salvezza, possono essere decisi in un attimo, l’attimo che rivela di che pasta è fatto il nostro cuore, che non solo ha determinato i nostri pensieri e le nostre azioni, ma che anche da queste è stato formato: non si inizia ad amare e a credere dal nulla, si inizia con l’accogliere col cuore e la mente quel che ci viene regalato, man mano che viviamo, con la libertà di accoglierlo o rifiutarlo, di custodirlo o dimenticarlo. Dunque non è soltanto l’attimo a determinare la salvezza o la dannazione della nostra vita ma anche la nostra vita a decidere di come si reagirà nell’attimo in cui il Dio che non vediamo potrebbe improvvisamente sfiorarci attraverso il fratello o la sorella che vediamo, esattamente come un giorno capitò al Samaritano, che stava andando per i fatti suoi avendo nella mente e nel cuore tutt’altra roba.

E potrebbe essere che Dio avvicinandosi a noi s’aspetti tanto, al punto da averci già preparato un posto a tavola accanto a lui nel suo Regno e noi decidere di rifiutare lasciando vuoto quel posto e per sempre. Triste sarebbe non rendersi conto di come la nostra persona, i nostri incontri, ogni segmento della nostra vita si trovi a essere campo di decisioni eterne di fronte alle quali a Dio non rimarrebbe che soffrire.

Accorgersi di questo si può tuttavia solamente rimanendo vigili, in ogni istante, in attesa del Signore che potrebbe arrivare non solo nell’ultimo giorno, ma anche nel giorno in cui decidesse di visitare proprio noi, nel luogo in cui abitiamo o lavoriamo, attraverso persone che conosciamo molto bene e che rischiamo di non vedere più nei loro bisogni. L’eterno che preme in noi è costituito dal gran desiderio che ha Dio di essere accolto e amato. E c’è un attimo in cui tutto potrebbe accadere, accendersi, riempirci gli occhi di lacrime, o anche nulla accadere: Dio passa, bussa e noi nemmeno rispondiamo; e allora se ne va per magari non tornare mai più.

Gran dono è quello di percepirsi strumenti di cui Dio ha in certi istanti bisogno, bisogno al punto che se non siamo noi ad aiutarlo nessun altro potrebbe mai, per quelle creature che in quell’attimo incontriamo, più farlo, in eterno. E questo per indifferenza, per non avere coscienza di quanto potremmo far soffrire o far gioire il nostro Dio, che potrebbe avere bisogno di noi più di quanto immaginiamo. O immaginarlo soltanto pensando, col cuore se ci riesce, alla sua croce mentre muore con un grido.

 

Ma c’è dell’altro: mai potremmo riconoscere l’eterno che preme in noi o ci visita se non possedessimo fin dal principio del nostro venire al mondo, schegge dell’Eden perduto. Come dice Evdokimov, “lasciando il paradiso, l’uomo porta con sé, nella sua libertà, un elemento paradisiaco e si orienta, escatologicamente, verso un ordine che è al di là dei limiti del processo di evoluzione”. Potremmo dire: l’opposto del processo di evoluzione, giacché a spingere la storia e il mondo non è, per il credente, un elemento intrinseco, ma il Creatore stesso che è anche il Redentore che in ogni attimo ci aspetta al varco della nostra libertà e delle nostre attenzioni, nel luogo in cui poniamo in genere quel che ci sta più a cuore. Cosa accadrà in quel luogo? Nessuno, nemmeno Dio lo sa fin che non scende a cercarci, a chiamarci con la sua inconfondibile “voce”, ad aspettarci  a “cena” dopo aver delicatamente bussato alla nostra porta (Ap 3,20). Sappiamo soltanto, dice ancora Evdokimov alla luce delle intuizioni di Dostoevskij, che ancora ci troviamo in un luogo “dove tutto è ingarbugliato, enigmatico, dove il cuore umano è il campo di battaglia tra Dio e Satana”. Ma dobbiamo anche sapere che solo dal mezzo di quella battaglia “l’estasi costringe l’uomo ad uscire da se stesso” offrendogli “l’anticipazione del mondo trasfigurato” (Dostoevskij e il problema del male), la speranza del Regno, della Gerusalemme celeste che da un momento all’altro potrebbe scendere tra noi dal cielo.

Nessuno potrebbe desiderare o attendere il Regno se schegge di paradiso non vibrassero già in qualche luogo segreto del nostro cuore, quello da cui sorgono, quando meno ce l’aspettiamo, lacrime di commozione e di gioia, la voglia incontenibile di incontrare la tenerezza di Dio, il suo volto luminoso e accogliente.

 

La salvezza non viene al culmine di un mondo che segue il suo corso naturale e nel quale il bambino morto finisce per ingrassare la terra o lo squalo di turno che l’inghiotte in acqua, ma attraverso un potentissimo gesto col quale Dio porterà finalmente a compimento ogni cosa secondo quanto ci ha promesso da millenni, anche se ce ne siamo ormai in larghissima parte dimenticati.

Ogni lacrima sarà asciugata, ogni afflitto sarà consolato, accarezzato teneramente da Dio. Nessun istante sarà dimenticato, nessun movimento del cuore, della tenerezza con cui saremo stati in grado di accogliere le creature nei loro bisogni. Questo più di ogni altra cosa interessa Dio: il cuore umano. Dio è innamorato del nostro cuore e infinitamente gioisce se lì si sente riconosciuto e accolto.

Ne è immagine potentissima e delicata insieme, l’attimo di consapevolezza con cui l’arrivo della “pastorella Rachele” sorprese Giacobbe, che con uno scatto di generosità estrema corse a far rotolare la pietra del pozzo per dissetare le pecore di lei. Ma più potente ancora è lo scatto d’amore col quale “Giacobbe baciò Rachele e pianse ad alta voce” (Gen 29,9-11). Non si compiono in quel modo e con quell’intensità tali gesti se qualcosa di molto prezioso che viene direttamente da Dio non cova già nel segreto del nostro cuore, una preziosità che ancora oggi riesce a suscitare lacrime mentre semplicemente ci mettiamo a leggere quel racconto.

Certo,  già qui e ora qualcosa del genere comprendiamo, quando scorrono lacrime e ci si abbraccia forte dopo avere provato sentimenti d’amore colmi di desiderio di perfezione e di vita. Ma cos’è tenerezza e amore lo capiremo soltanto quando sarà Dio stesso a baciarci gettandoci le braccia al collo e scoppiando a piangere.

Ora Rachele non può che farci udire la sua “voce” colma di “lamento” e “pianto amaro”. Perché “non vuole essere consolata” Rachele? Perché “piange per i suoi figli, perché non sono più” (Ger 31,15). Il teologo Kazoh Kitamori mette in evidenza il fatto che Geremia scrisse il capitolo 31 del suo libro nell’ultimo anno della sua attività profetica, ed esattamente nel 586, anno della caduta di Gerusalemme, dunque una sorta di sigillo, di “verità ultima e suprema” rivelata dal profeta in circostanze di dolore estremo per il popolo d’Israele. E c’è da aggiungere come poco più avanti del pianto inconsolabile di Rachele il profeta riesca a rivelarci il sentire più profondo di Dio di fronte a tale tragedia, un sentire che assomiglia a quello di un babbo e di una mamma davanti al loro bambino: “Il mio cuore si commuove per lui, e sento per lui profonda tenerezza” (Ger 31, 20). Questo versetto, dice ancora Kitamori, ci fa comprendere nel suo significato più profondo e reale una cosa soltanto, quella che facciamo sempre molta fatica a comprendere: “il ‘dolore’ di Dio” (Teologia del dolore di Dio).

Il grido e il “lamento grande” di Rachele che piange e rifiuta consolazione lo si udirà ancora a Betlemme, là dove Erode infuriato farà ammazzare tutti i bambini della città pensando che tra essi ci fosse anche il messia Gesù nato da poco (Mt 2,13-18). Il messia scampò per miracolo tra le braccia di un babbo e di una mamma, a notte fonda e a prezzo indicibile, un prezzo che tuttavia pure lui pagherà più avanti nell’orrore della crocifissione. Ed era Dio (Gv 1,1).

 

Daniele Garota

(9. continua)

 

 

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