Koinonia Luglio 2016


Una riflessione di Franco Marton

 

PER UNA TEOLOGIA E UNA SPIRITUALITÀ DEL GRIDO

 

C’è un grande teologo, J.B. Metz, che da anni, insieme ad alcuni colleghi, sta sviluppando una articolata e ardua riflessione sulla memoria passionis, partendo da Auschwitz e spingendosi a porre penetranti interrogativi alla teologia, alla comunità cristiana e anche alla sua liturgia.

Scrive Metz che noi cristiani, in forza del canone della nostra fede, in forza del centro del nostro Credo - «patì sotto Ponzio Pilato» - siamo rinviati alla storia, in cui si viene crocifissi, torturati, rotti dal pianto e solo di rado amati. Dopo aver analizzato a lungo la preghiera delle grandi tradizioni bibliche, che fa di Israele un ‘luogo di grida’, sostiene che proprio in queste grida Dio si faceva misteriosamente ‘presente’, come nell’oscurità della croce si verifica, nel grido del figlio abbandonato da Dio e che non ha mai abbandonato il Padre, la prossimità di Dio «che abita in una luce inaccessibile». Il grido del Figlio sulla croce fa da garante per la vicinanza del Padre nei cieli. E pone la domanda che ci interessa particolarmente: «Come si rapporta il mondo della preghiera qui descritto (quello delle tradizioni bibliche) con la liturgia che ci è familiare?». Esiste infatti, secondo Metz, una reciprocità tra l’anamnesi cultuale («nella notte in cui fu tradito», «patì sotto Ponzio Pilato», «risuscitò il terzo giorno»), tra la memoria passionis et resurrectionis che il rito propone e la memoria passionis dell’intera storia del genere umano, che sfocia infine nel grido di Gesù: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?».

Questa reciprocità tra culto, rito, liturgia e memoria passionis degli uomini, come può realizzarsi? Come può la preghiera del grido di chi soffre essere integrata nella preghiera della liturgia? Nella ricerca di questa integrazione possono essere rilevanti alcune osservazioni. Il gridare a Dio per il dolore degli altri è, secondo Metz, caratteristica fondamentale della tradizione di preghiera biblica. E Gesù stesso, nella sua fede israelita, mostrò una straordinaria sensibilità per il dolore degli altri. Ma vivendo anche quell’eredità ebraica che vedeva un’unità indivisibile tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, per lui ‘gridare a Dio’ voleva dire immediatamente coinvolgersi nella compassione per il dolore degli uomini.

Nell’omelia di Lampedusa lo sguardo posato sulla sofferenza dei fratelli («Quanto hanno sofferto!») è diventato subito preghiera a Dio per loro e per noi, oltre che appello alla «responsabilità fraterna» e all’impegno sociale. Pregare gridando a Dio per il dolore degli altri è, come per Gesù, chiedere forza per il nostro coinvolgimento storico.

Ma nella liturgia eucaristica non c’è sola la memoria passionis, c’è anche la memoria resurrectionis, la memoria del Crocifisso Risorto. La memoria del Vivente che porta i segni della sua compassione per noi: le piaghe del Risorto dicono che il suo grido sulla croce è ormai ‘permanente’. L’agonia di Gesù permane fino alla fine del mondo e non cessa perché lui è risorto. Anzi: solo perché è risorto può prolungarla per tutti i tempi e per tutti gli uomini. Il giubilo pasquale, dice Metz, non può rendere inudibile il grido dell’uomo crocifisso. L’alleluja porta sempre la memoria del «Perché mi hai abbandonato?». La gioia vissuta e promessa da Gesù (Gv 15,11; 17,13) è molto misteriosa nella sua profondità. Come la felicità di quanti lui ha dichiarato ‘beati’ pur nella povertà, nella fame, nelle lacrime (Lc 6, 20-23)11. E quando la comunità cristiana ‘grida’: «Vieni, Signore Gesù!» invoca il ritorno del Risorto - crocifisso. Ed è un grido di speranza per tutti. Il mistero celebrato nel rito è il mistero della speranza dell’umanità che soffre.

 

Don Franco Marton

 

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