Nella
estimazione comune Adriana Zarri passa come “teologa”, ma il
rischio è che a questa denominazione si dia un significato
convenzionale di categoria, e che lei si ritrovi relegata nella
folta galleria di personaggi che popolano i nostri sogni
perduti. Sì, teologa, non perché tratta certi temi e frequenta
certi ambienti, ma perché da “donna di fede”, in senso
profondamente teologale, dà vita ad una intelligenza della fede,
fino a farne un suo habitus, il suo modo di vedere e di
pensare in quanto credente. Se perciò vogliamo considerarla
tale, non è perché ci offre trattati teologici o slogan di
comodo, ma perché ci ripropone un modo e uno stile di fare
teologia tutto da apprendere. Perché insomma solleva una
“questione teologica” troppo snobbata o frettolosamente risolta
ad usum delphini.
Ecco perché sarebbe bene che prima di ogni altra qualifica
secondo schematismi abituali (eremita, mistica, scrittrice,
giornalista) lei rappresentasse per noi una credente che dalla
certezza del credere fa scaturire la “teologia come ambito del
probabile”. In questo senso la sua è una “esistenza teologica”
vera e propria, in linea con le istanze del Vaticano II:
rappresenta una testimonianza sofferta del trapasso conciliare
sempre in fieri.
Di lei abbiamo un carisma da accogliere: quello di assumere il
Concilio come kairòs e come cultura, per ridare una
effettiva dimensione di intelligenza alla fede della chiesa, che
non è solo biblica, spirituale, mistica, liturgica, ecumenica,
sociale, ma anche teologica. Stranamente, proprio quella che
dovrebbe essere la dimensione più personale, più laica, più
aperta - quella profetica rispetto a quella regale e sacerdotale
– di fatto risulta la più clericalizzata, di “chierici” e di
scribi appunto! Non è un controsenso?
Per questo vogliamo guardare ad Adriana Zarri, per farci
riportare da lei alla capacità di essere “teologi senza
saperlo”, come ci dice P.Chenu a p,37: ad un modo di vivere la
fede e di essere chiesa nel segno del probabile.