20 giugno 2021
- XII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

Giorgio de Chirico: Cristo e la tempesta (1914)

Roma, Musei Vaticani

 

 

PRIMA LETTURA (Giobbe 38,1.8-11)

Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano:
«Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 106)


Rit. Rendete grazie al Signore, il suo amore è per sempre.

 

Coloro che scendevano in mare sulle navi
e commerciavano sulle grandi acque,
videro le opere del Signore
e le sue meraviglie nel mare profondo.

Egli parlò e scatenò un vento burrascoso,
che fece alzare le onde:
salivano fino al cielo, scendevano negli abissi;
si sentivano venir meno nel pericolo.

Nell’angustia gridarono al Signore,
ed egli li fece uscire dalle loro angosce.
La tempesta fu ridotta al silenzio,
tacquero le onde del mare.

Al vedere la bonaccia essi gioirono,
ed egli li condusse al porto sospirato.
Ringrazino il Signore per il suo amore,
per le sue meraviglie a favore degli uomini.

 

 

SECONDA LETTURA (2Corinzi 5,14-17)

Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.

Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.



 

VANGELO (Marco 4,35-41)

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.

Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.

Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».

Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».

E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».



In altre parole…

 

Giobbe è sommerso senza respiro da incalzanti interrogativi dei suoi amici interlocutori, con cui però polemizza. Ma basta questa domanda del Signore dall’uragano per ridurlo al silenzio e riportarlo alla sua condizione umana di impotenza, in cui sembrano possibili solo resistenza e resa sotto la mano onnipotente di Dio. Da una parte un Dio che vuole rivendicare il suo assoluto potere su quanti hanno l’ardire di confrontarsi con lui, dimostrando di dominare il mare. Dall’altra Giobbe che al termine della lunga requisitoria, e prima che possa prendere la parola, si sente apostrofare in questi termini: “Il censore dell'Onnipotente vuole ancora contendere con lui? Colui che censura Dio ha una risposta a tutto questo?” (40,2). La lotta con Dio dunque non è solo di Giacobbe!

 

Il senso della sfida a cui Giobbe è costretto potrebbe racchiudersi in queste poche parole del libro al cap.38,33: “Conosci le leggi del cielo? Regoli il suo dominio sulla terra?”. Questa voce nasce dall’uragano, dalla tempesta, dal turbine, dalle acque del mare, che sono sì manifestazione di potenza, ma in quanto nemico da imbrigliare e da vincere. Più che ad un trionfo di un Dio Onnipotente, è proprio a questa vittoria sulle acque, sul mondo e sulla morte che la Parola di Dio vuole portarci. È sempre stato detto che la sua onnipotenza Dio la manifesta nella misericordia e nel perdono!

 

È quanto ci viene inculcato nel racconto di Elia in 1Re 19,11-12, quando trova rifugio in una caverna e si sente dire: “«Va' fuori e fermati sul monte, davanti al SIGNORE». E il SIGNORE passò. Un vento forte, impetuoso, schiantava i monti e spezzava le rocce davanti al SIGNORE, ma il SIGNORE non era nel vento. E, dopo il vento, un terremoto; ma il SIGNORE non era nel terremoto. E dopo il terremoto, un fuoco; ma il SIGNORE non era nel fuoco. E, dopo il fuoco, un mormorio di vento leggero”. Un segno di questa vittoria lo abbiamo nel Cantico dei Cantici 8,7, quando si dice: “Le grandi acque non potrebbero spegnere l'amore, i fiumi non potrebbero sommergerlo”.

 

L’immagine alquanto inedita di Giorgio de Chirico è un po’ l’emblema di questa lotta con le acque nel contrasto tra il vento forte e impetuoso e il vento leggero, tra la tempesta e la calma, tra gli sconvolgimenti e il sonno tranquillo, tra il pericolo e la salvezza. Ma a parte questo sfondo simbolico generale, l’immagine ripropone l’episodio evangelico di “Cristo e la tempesta”, che a sua volta incarna in sé questa lotta tra la vita e la morte, la traversata della vita come lotta contro le avversità, alla maniera di Giobbe.

 

Troviamo Gesù immerso tra la gente, che forse chiede a quegli uomini di mare, i discepoli, di guadagnare l’altra riva forse proprio per riposare, così come altre volte si ritira in solitudine sui monti a pregare. Quando l’evangelista dice che “lo presero con sé, così com’era, nella barca”, possiamo pensare al suo stato di spossatezza avendo a che fare con quella folla che lo sommerge. Succede quel che succede, ma lui se la dorme tranquillamente, come vivesse in una dimensione diversa, appunto la sua, nonostante la folla, i discepoli e ora anche questa tempesta di vento che solleva le onde fino a travolgerli.

 

Da parte di quella gente c’è tutta la disperazione di sentirsi perduti, ma c‘è anche la delusione grande di vedere il Maestro indifferente alla loro sorte, pertanto osano svegliarlo e rimproverarlo. E lui, Gesù, indifferente anche alla loro provocazione, interviene alla sua maniera per comandare al vento e mettere a tacere il mare: a dominare le potenze avverse della natura come se fosse la cosa più naturale,  dichiarata possibile anche per i discepoli: “In verità io vi dico che chi dirà a questo monte: «Togliti di là e gettati nel mare», se non dubita in cuor suo, ma crede che quel che dice avverrà, gli sarà fatto” (Mc 11,23).

 

Questa volta è lui a sorprendersi della loro paura, perché si sarebbe aspettato che non ne avessero. Ma deve prendere atto che la loro fede non è ancora come si aspettava e fa presente, per far capire cosa è veramente necessario e dove li vuole portarli: ”Non avete ancora fede?”. Ecco il vero problema: avere fede incondizionata, non quella suscitata dalla paura delle tempeste della vita, ma quella che suscita giusto timore per aver sperimentato la potenza salvifica di Dio al di là di ogni attesa, perché c’è qualcuno a cui “anche il vento e il mare obbediscono”.

 

È quanto ci è dato di provare dal vivo attraverso Gesù, più che attraverso i sottili ragionamenti di Giobbe e dei suoi amici: se e quanto l’amore di Cristo ci possiede, ci sostiene, ci spinge. Non è tanto l’amore nostro per lui (che per Paolo non è in primo piano rispetto all’amore di Dio!), spesso indotto, di maniera e quasi riflesso condizionato, ma è l’amore di Cristo per noi: non solo proclamato, ma creduto e vissuto nella viva consapevolezza che “uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti”.

 

È questo il terreno in cui affonda le sue radici la nostra fede. E quando si ripete “morto per tutti” c’è tutto un lavoro di revisione mentale da fare: non è una morte sacrificale di riparazione in offerta al Padre per i nostri peccati; è la lotta e la vittoria di Cristo sulla morte, “perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro”. E se tutti siamo morti con lui, cambia la nostra condizione nei confronti della morte e di conseguenza la nostra prospettiva di vita!

 

E deve cambiare anche la nostra prospettiva, non più semplice maniera umana di guardare le cose e gli altri.  Va modificato il nostro stesso sguardo su Gesù per renderci conto che “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”. Ma quanto è presente ed efficace questo modo di vedere nella spiritualità e nella pastorale corrente? Tutto dunque dipende dal nostro modo di rapportarci al Cristo, un rapporto troppo addomesticato a nostro uso e consumo, mentre è lui che “ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l'immortalità mediante il vangelo” (2Tm 1,10). Non è questa la sua e la nostra lotta nelle tempeste della vita e della storia, che non mancano?

 

Non mancano neanche per la barca di Pietro, sballottata qua e là dai venti e dalle onde. Con questa differenza rispetto al racconto evangelico: che a dormire e chiudere gli occhi sul reale stato delle cose non è il Signore Gesù da risvegliare, ma siamo proprio noi con la nostra “politica dello struzzo” (parole di Papa Francesco) e ad imitazione del primo Giona. Sarà Gesù stesso ad avvertirci: “Infatti, come nei giorni prima del diluvio si mangiava e si beveva, si prendeva moglie e s'andava a marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e la gente non si accorse di nulla, finché venne il diluvio che portò via tutti quanti, così avverrà alla venuta del Figlio dell'uomo” (Mt 24,38-39). (ABS)


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