15 maggio 2022 - V DOMENICA DI PASQUA (ANNO C)

Carl Heinrich Bloch: L’Ultima Cena (1876)

Hillerød (Danimarca), Castello di Frederiksborg

 

 

PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 14,21-27)

 

In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».

Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto.

Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.

 

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 144)

 

Rit. Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.

 

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.

Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.

Per far conoscere agli uomini le tue imprese
e la splendida gloria del tuo regno.
Il tuo regno è un regno eterno,
il tuo dominio si estende per tutte le generazioni.

 

 

SECONDA LETTURA (Apocalisse 21,1-5)

Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».


VANGELO (Giovanni 13,31-35)

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.

Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.

Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».



In altre parole…

 

L’insidia che c’è nei pochi versetti del vangelo di Giovanni è di attirare l’attenzione subito al “comandamento nuovo”, e quindi tornare a parlare ancora una volta dell’amore di Dio e del prossimo come obbligo morale, imperativo etico a cui attenersi, oppure come cedimento allo spontaneismo del “vogliamoci bene”. Se poi consideriamo la precisazione fatta da Gesù - “come io ho amato” - tutto può apparirci umanamente impossibile o eroismo per pochi, e quindi dispensarci dal tentare. Proviamo perciò a contestualizzare queste poche parole senz’altro decisive, in un quadro esistenziale di discepoli e di fede: e cioè nel loro valore vitale come il respiro, e come principio costitutivo di comunità.

 

Il momento segnalato è dei più indecifrabili e toccanti, colto sorprendentemente dal dipinto di Carl Heinrich Bloch: “Quando Giuda fu uscito dal cenacolo” e Gesù comincia il suo discorso di addio agli Undici. La sua non è più volontà di insegnamento, né di formazione dei discepoli: con l’uscita di Giuda si sente ormai sciolto da ogni accorgimento umano anche nei loro confronti e tutta la sua attenzione è ormai al Padre e al consumarsi della sua vicenda nei confronti dei suoi. È quanto ci fanno capire parole come queste: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui”. Col tradimento di uno dei suoi, è come se il Figlio dell’uomo fosse “glorificato” e si ritrovasse come tale a toccare il fondo, là dove Dio veniva glorificato in lui: e cioè riconosciuto nella sua potenza e nel suo splendore. 

 

Avendo presente Filippesi 2,5-11, possiamo dire che è l’ora dell’abbassamento e dell’annientamento totale, ma tutto questo solo in quanto compimento del disegno di Dio su di lui, in una coincidenza piena di volontà e di azione. Per cui, “se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Ecco quanto ormai sta per accadere sotto gli occhi di quei poveri uomini certamente non indifferenti al comportamento di Giuda e messi davanti al più grande evento o mistero di tutta la storia! Ma è strano che noi del “vangelo” focalizziamo solo insegnamenti e azioni di Gesù che possono coinvolgerci nella nostra esistenza umana, ma ci interessa meno come accadimento o “mistero della salvezza”: quella che è la vera opera di Dio è data per scontata nella sua ritualizzazione, e quindi ritenuta come qualcosa di accessorio.

 

Da qui la povertà o il vuoto di tante nostre celebrazioni, che sono sì “mistero della fede”, ma solo come sfondo o eco lontana. Lontana soprattutto dalla nostra esistenza quotidiana, quando invece dovrebbe sostanziarla! E così, parlare di glorificazione può apparirci un lusso o ricerca spirituale per pochi, mentre è in questa parola che si racchiude la nostra solidarietà intrinseca col Figlio dell’uomo e il recupero della nostra dignità umana nella gloria di figli di Dio: “Se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi di Cristo, se veramente soffriamo con lui, per essere anche glorificati con lui” (Rm 8,17).

 

Si potrebbe leggere utilmente tutto il capitolo 8 della Lettera ai Romani, ma tornando a Giovanni, si deve dire che egli ci mette sull’avviso fin dalle prime battute del suo vangelo quando afferma che “la Parola è diventata carne piena di grazia e di verità; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre (v.14); e quando prende atto che “nessuno ha mai visto Dio; l'unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l'ha fatto conoscere”. È in gioco la “gloria di Dio”, la sua manifestazione e il suo riconoscimento per una partecipata conoscenza del Padre.

 

E questo perché è il Padre ad operare nel Figlio, per cui Gesù può dire “chi mi glorifica è il Padre mio” (8,54) e quando egli chiede al Padre di glorificare il suo nome una voce dal cielo lo rassicura: “L'ho glorificato, e lo glorificherò di nuovo!” (Gv 12,28). Da notare come si conclude il discorso di addio ai suoi, prima della sua preghiera sacerdotale: “Gesù disse queste cose; poi, alzati gli occhi al cielo, disse: Padre, l'ora è venuta; glorifica tuo Figlio, affinché il Figlio glorifichi te” (Gv 17,1).

 

Naturalmente la prospettiva di glorificazione non è circoscritta al Figlio dell’uomo ma è più che mai un processo aperto nella storia della salvezza, ed è un peccato che un itinerario di vita cristiana non venga inteso, presentato e vissuto in tal senso, preferendo formule più accattivanti ma meno pregnanti. Una continuità in tal senso è affidata alla promessa dello Spirito della verità, perché “quando sarà venuto lui, egli vi guiderà in tutta la verità, perché non parlerà di suo, ma dirà tutto quello che avrà udito, e vi annuncerà le cose a venire. Egli mi glorificherà perché prenderà del mio e ve lo annuncerà” (Gv 16,13-14). Ma questa glorificazione nel mondo, come manifestazione e come testimonianza Gesù se la ripromette anche dai suoi.

 

Ma come? Ed è qui che, al momento di accomiatarsi da loro, affida ad essi il “comandamento nuovo” come garanzia di continuità col suo amore: nuovo o diverso rispetto al comandamento dell’amore, che vale sempre e per tutti, mentre ora si tratta di amarsi gli uni gli altri precisamente in quanto suoi discepoli, così come egli li ha amati. Che è poi la prova di identificazione e di riconoscimento da parte di tutti, affinché attraverso i discepoli glorifichino lui, e il Padre in lui. Amarsi gli uni gli altri nel suo nome è anche quanto li costituisce comunità di credenti in Cristo: è il principio vitale di ogni chiesa e sua regola d’oro.

 

Quando ci viene detto che bastano due o tre riuniti nel suo nome perché egli sia presente, non si tratta di un discorso riduttivo e minimalista, ma di forte richiamo alla condizione necessaria per essere sua chiesa: creare rapporti personali veri, sinceri, certamente qualcosa di interpersonale ma a dimensione sociale e pubblica. Dobbiamo dire che non è questa la fisionomia dominante della chiesa, verticistica e gerarchica nonostante tutti gli sforzi per non apparire tale; ma possiamo anche dire che c’è chiesa là dove questo si dà. Non dovrebbe essere questo un criterio di discernimento pastorale? L’amore reciproco rimane il principio intrinseco di autenticazione di ogni comunità ecclesiale.

 

A nostro conforto troviamo ancora una volta Paolo e Barnaba in continuo movimento tra città e comunità nascenti, ma il loro unico intento è quello di confermare i discepoli “esortandoli a restare saldi nella fede”, perché entrare nel regno di Dio è sempre una dura prova; quella di provvedere alla guida delle comunità, in preghiera e col digiuno, designando persone da affidare al Signore in cui avevano creduto; quella di proclamare la Parola e raccoglierne insieme i frutti. Infatti, rientrati ad Antiochia, dove la loro missione era cominciata, “riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede”.  Ecco su quale piano dovremmo imparare ad incontrarci e comunicare, prima che a livello di socializzazione o di gratificazione psicologica. Ci sarebbe da chiedersi come mai le nostre comunità di credenti presentano tanti aspetti di visibilità, ma l’elemento fede appare presunto o lasciato alla sfera soggettiva, e non sempre emerge nella sua verità dirompente.

 

Quella verità che il libro dell’Apocalisse ci rivela come decisiva ed ultimativa. Potremmo allora dire che il “comandamento nuovo” dovrebbe portarci a strutturare le nostre comunità nell’orizzonte di un cielo nuovo e una terra nuova, al posto di scenari di prima e di sempre. E questo nel desiderio e nella speranza di essere la Gerusalemme nuova, la tenda di Dio con gli uomini, dove egli abiterà con loro come suo Popolo, quando tutte le cose di prima saranno passate, compresa la morte ed ogni umano lamento ed affanno. È la prospettiva che ci si apre davanti in forza di quanto ci dice Colui che siede sul trono: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose”. Se questo è il vino nuovo che Gesù dice di bere con noi nel Regno del Padre (cfr. Mt 26,29), sta a noi essere otri nuovi! (ABS)


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