2 maggio 2021 - V DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

Lorenzo Lotto: Ego sum vitis vos palmites (1524)

 


PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 9,26-31)

In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.

Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.

La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.



SALMO RESPONSORIALE (Salmo 21)


Rit. A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.

 

Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!

Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.

A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l’opera del Signore!».

 

SECONDA LETTURA (1 Giovanni 3,18-24)

Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.

In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.

Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.

Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

 

VANGELO (Giovanni 15,1-8)

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.

Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.

Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».



In altre parole…

 

La singolare immagine di Lorenzo Lotto, in cui Gesù si presenta in prima persona come vite in rapporto ai suoi come tralci è suggestiva di suo, ma porta molto più in là della evocazione immediata: ci dice che la simbologia adottata non riguarda solo l’unione morale o devozionale da parte nostra, ma è quanto di più reale ci sia già nel rapporto di Gesù con i discepoli: i tralci sono la vite! Quando si parla di fede, bisognerebbe imparare ad invertire le parti e considerare l’iniziativa del Padre che è l’agricoltore nei nostri confronti, prima ancora di quanto è richiesto come corrispondenza e adesione da parte nostra: e questo perché si faccia in noi la sua Parola, che decide di noi prima ancora che sia gestita da noi. Forse potrebbe essere questo il punto da focalizzare insieme in questo nostro incontro a distanza: riscoprire l’iniziativa di Gesù nei nostri confronti come primato dell’amore di un Padre in cui credere! Che è la cosa più difficile per la nostra voglia di autosufficienza.

 

Non siamo davanti a delle parabole che ci vogliono guidare alla scoperta di qualcosa che ci sfugge: il mistero del Regno. Qui siamo davanti ad un Gesù tutto compreso nel suo lungo discorso di addio: egli in qualche modo mette a nudo se stesso a cominciare dall’ultima cena e dalla lavanda dei piedi, e così esplicita tutto quello che col suo agire e col suo insegnamento aveva cercato di far comprendere ai suoi, perché entrassero nella prospettiva del Regno e della sua giustizia. Qui lo troviamo pienamente immerso in questa sua realtà, e se in un primo momento era lui a mettersi nei panni dei discepoli come Figlio dell’uomo, ora desidera rivestire loro dei suoi stessi panni come Figlio del Padre! Se prima ha cercato di farci percepire la vicinanza del Padre, ora vuole portare noi nel seno del Padre, così come lo è lui, senza limitazioni! Niente di meno!

 

Quando nel suo discorso, mutuando il linguaggio della tradizione relativo alla vigna, passa a parlare di vite e di tralci non fa che esemplificare quanto già aveva detto della sua comunione di vita con il Padre e con i suoi, qualcosa che era stato prefigurato già alle nozze di Cana, quando non era ancora la sua ora, ma certamente un segnale di un cambiamento radicale in atto e da perseguire. La sua ora però è ormai vicina, tanto che dopo aver pronunciato il suo rendimento di grazie sul vino, aggiunge: “In verità vi dico che non berrò più del frutto della vigna fino al giorno che lo berrò nuovo nel regno di Dio” (Mc 14,25). La vigna, la vite, il vino restano il simbolo della realtà nuova che si stava facendo, fino all’acqua e al sangue che gli sgorgheranno dal costato trafitto.

 

In quanto Popolo di Dio, siamo noi la vigna del Signore. Se il Padre è il coltivatore, Gesù afferma senza mezzi termini: “Io sono la vera vite!” E se ci sono tralci che portano frutto mentre altri sono infruttuosi, vuol dire che un innesto in lui è già avvenuto come suoi tralci, come già aveva detto: “Ancora un po', e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me e io in voi” (Gv 14,19-20). E questo grazie alla parola che aveva annunciato, perché è in questo modo che avviene la potatura per mano del Padre. Quando si parla dell’ascolto della Parola di Dio non è da pensare a materia di meditazione e ad insegnamenti da apprendere, ma soprattutto a soffio di “spirito e vita” che ci innesta nella vita e ci rende fruttuosi. Quindi a qualcosa che ci precede e deve manifestarsi in noi in tutta la sua fecondità.

 

Il rischio è che ci si neghi a questa comunicazione di linfa e fecondità di frutti, come se volessimo essere fruttuosi per noi stessi, separati dalla vite.  Ma dopo che ci è dato di essere tralci della vite, il problema è rimanere inseriti vitalmente in essa: in comunione e continuità di vita con colui che è la vite vera e senza il quale non possiamo fare nulla. Non è una limitazione o una dipendenza ma è condizione di vita e di libertà, che non possiamo permetterci di fraintendere, così come è avvenuto alle origini o alla radice riguardo all’albero della vita e al suo frutto inteso come “proibito”: siamo sempre esposti ad un drammatico fraintendimento!

 

Quando Gesù ci dice che chi non rimane in lui “viene gettato via come il tralcio e secca” è sì un avvertimento per il presente e una messa in guardia per il futuro, ma è anche una visione retrospettiva della storia della salvezza, che ha però il suo risvolto positivo e di speranza quando ci viene detto: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”. Quello che egli si ripromette è che si diventi e si resti discepoli. In Giovanni 8,31-32ci dice espressamente: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31-32). Non si capisce come mai parole nette come queste non debbano segnare la via maestra della sequela di Cristo!

 

Come ci dimostra Paolo, diventare discepoli non è facile per difficoltà intrinseca, ma anche per ragioni ambientali e di rapporti interni: “Del resto, tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2Tm 3,12). Non sempre c’è un Barnaba che capisce le situazioni e trova una via di uscita per conciliare istanze superiori di fede con esigenze di fatto di osservanze varie: il punto di incontro è il fatto di predicare “con coraggio nel nome di Gesù”. Altre difficoltà vengono poi da proseliti già indottrinati - “quelli di lingua greca” - che non tollerano variazioni al messaggio comune già confezionato e dogmatizzato a loro uso e consumo.

 

Solo dopo questi aggiustamenti interni necessari, possiamo leggere che “la Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero”. Non sempre si può dire che la chiesa viva in pace quando si neutralizzano o si demonizzano i conflitti: quando si impedisce di vivere e di crescere! Quando ci si preoccupa di apparire e di rispondere a schematismi convenzionali piuttosto che di diventare discepoli. Potremmo ricordare le parole di sant’Ignazio di Antiochia: “È meglio essere cristiani senza dirlo, che dirlo senza esserlo”!

 

C’è il piano delle parole e dei discorsi, ma quello che conta è il piano dei fatti e della verità: c’è la dimensione orizzontale della comunicazione interpersonale, ma c’è anche la dimensione verticale dell’intima unione con Dio,  là dove il Padre vede nel segreto e là dove ci ritroviamo nella propria nuda verità: là dove “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. Là dove siamo chiamati ad arrivare in totale fiducia e abbandono: alla piena comunicazione con lui.

 

Sappiamo che ci si arriva se “ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato”, ed “in questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato”. Ma forse sorvoliamo troppo facilmente sul fatto che “questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo”. È qui il segreto per poter portare frutti di amore fraterno: essere e sentirsi tutti tralci della stessa vite. È bello desiderare e riprometterci i frutti, ma forse è necessario andare alla radice e rendersi conto della necessità di credere “nel nome del Figlio suo Gesù Cristo”, che non è solo un riferimento ideale ma fonte di esistenza nuova. (ABS)


.