9 maggio 2021 - VI DOMENICA DI PASQUA (ANNO B)

Guido Reni: San Giovanni Evangelista (1621)

Greenville (South Carolina), Bob Jones University

 

PRIMA LETTURA (Atti degli Apostoli 10,25-27.34-35.44-48)

 

Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Àlzati: anche io sono un uomo!».

Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».

Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio.

Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?». E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.

 

SALMO RESPONSORIALE (Salmo 97)


Rit. Il Signore ha rivelato ai popoli la sua giustizia.

 

Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.

Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.

Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!

 

SECONDA LETTURA (1 Giovanni 4,7-10)

 

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.

In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.

In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.



VANGELO (Giovanni 15,9-17)

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.

Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

 

In altre parole…

 

Non è senza significato che il Discorso di addio di Gesù, che stiamo ascoltando, arrivi a noi attraverso il cuore e lo stile di Giovanni evangelista, come l’immagine di Guido Reni ci mostra.  Egli dice a noi che quanto ha scritto, lo ha scritto “affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e, affinché, credendo, abbiate vita nel suo nome”. (Gv 20,31).  Ecco allora di che cosa si fa testimone e dove ci vuole portare: cosa voglia dire “avere vita nel suo nome” ce lo ha illustrato riferendo le parole di Gesù sulla vite e i tralci, e così ci fa capire che quando si parla di salvezza nel suo Nome – nel senso che è lui la salvezza – non è da intendere come intervento miracolistico che ci passa sopra la testa, ma semplicemente come rapporto e continuità di vita con lui che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Si potrebbe parlare di rapporto “in spirito e verità” col Padre, che, sì, può avere anche una forma “religiosa”, ma che è prima di tutto essere generati da Dio e conoscere Dio senza pregiudiziali e senza preclusioni!

 

Rimanendo in questo orizzonte, possiamo orientare le nostra riflessione a partire da una precisazione sollecitata da qualcuno di voi (e che andrebbe esplicitata), così come sarebbe bene tenere presente un altro invito a considerare che il richiamo alla vigna e a chi la coltiva ci riporta alla condizione base di radicalità, di gratuità o di grazia, di inesauribilità del rapporto vite-tralci. Dopo essersi presentato con questa allegoria e dopo le immediate applicazioni al rapporto con i suoi, Gesù ci mette davanti ad una affermazione impegnativa da cogliere: “In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto, così sarete miei discepoli” (15,8). Siamo capaci di prendere alla lettera simili parole senza facili precomprensioni e rinvii?

 

Se la prima parte del capitolo 15 di Giovanni poteva essere come il negativo del discorso, questa seconda parte ne è lo sviluppo in positivo: e cioè non più come allegoria o come sua personalizzazione in Gesù, ma come rivelazione della sua matrice profonda, di cui tener conto come un fiume della sua sorgente. Non si può sorvolare sul fatto che all’origine di tutto c’è l’amore di un Padre che si incarna in un Figlio e si trasmette a noi come vita e come fonte di gioia, quindi come qualcosa di vissuto e non solo pensato o formulato. Da parte nostra c’è da rimanere nello spazio vitale di questo amore non altrimenti di come Gesù stesso rimane nell’amore del Padre: e cioè vivendolo e trasmettendolo come amore, dando vita e dando la vita per gli amici.

 

Quando si parla di comandamento dell’amore – secondo cui non considerarsi più servi per ragioni utilitaristiche, ma amici in totale disponibilità – non è da pensare ad eroismo morale per pochi o ad imperativi etici: è semplicemente “vita” in profondità e fecondità, è vivere in pienezza con gli stessi sentimenti di Cristo gli uni per gli altri (cfr. Filippesi 2,5), così come Cristo ci fa sentire l’amore del Padre. Comandamento dell’amore è comunicare e condividere il bene della vita alla stessa maniera in cui lo riceviamo da Dio, quasi per suo istinto naturale. E se il Padre è glorificato quando portiamo frutti e diventiamo discepoli, di fatto noi siamo scelti e costituiti per portare questi frutti non altrimenti che facendo discepole tutte le genti. Non si può essere vigna del Signore se non crescendo e facendola crescere! Si può uscire da questa corrente di vita e poi inventarsi spiritualità accessorie di recupero?

 

Sorprende l’insistenza con cui Gesù invita a rimanere nel suo amore: non si tratta soltanto di beneficiare della sua amicizia e di corrispondervi con qualche forma di devozione. Si tratta di accogliere come lui l’amore del Padre facendo il suo volere; si tratta di fare nostro l’amore che lui ha per noi e si tratta di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati. Ci riesca o meno, le cose però stanno così! L’amore di Cristo non è proprio sentimento verso tutti in generale, non è neanche imperativo universale per tutti, ma prevede, richiede e genera reciprocità. Una reciprocità non di maniera, corporativa, funzionale, ma libera, aperta, potenziale così come è quella che Gesù si aspetta da noi. E questo dovrebbe essere il DNA della comunione nella Chiesa, al di là di associazionismi,  sociologismi, corporativismi di altra natura.

 

Nella sua prima lettera Giovanni riparte proprio di qui, dallo stesso invito ad amarci gli uni gli altri, perché appunto l’amore è da Dio, e amare è come essere generati da Dio e conoscerlo dal vivo, perché Dio è amore. Questa non è un’affermazione di principio, ma è un principio reale di vita, che si manifesta in concreto nel fatto che “Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui”. E questo di sua autonoma e irrevocabile iniziativa, accettando che questo suo Figlio fosse “come vittima di espiazione per i nostri peccati”.

 

Su questi parametri ci sarebbe da riconfigurare tutta la nostra coscienza, mentalità e spiritualità cristiana, che restano ancorate alla “vittima di espiazione” come prezzo o soddisfazione per i nostri peccati, lasciandoci con tutti nostri interrogativi davanti ad un Dio che vuole essere ripagato, fino  a farci chiedere che razza di amore è il suo! Ma forse è più vero il contrario: è un Dio che comunica il suo amore dandoci il Figlio – Verbo di Dio fatto carne – che per fare rinascere anche noi da Dio non rifiuta di farlo attraverso la morte, il vero nemico da vincere; una vittoria non come semplice episodio (Lazzaro, il figlio della vedova di Naim…) ma nella sua potenza devastatrice, che va sotto il nome di peccato o di tralci senza più linfa. Quanto ci sarebbe da lavorare per ristabilire i giusti equilibri in questo campo! Il vero mistero è qui: ad una vita che porta alla morte far subentrare una morte che porta alla vita!

 

Ma prima di operare nelle coscienze si richiederebbe alla radice quella “conversione pastorale” che viene intesa più come adattamento pratico che come inversione di tendenza nella impostazione operativa della chiesa. Se vogliamo un esempio di conversione pastorale autentica ed efficace l’abbiamo dall’apostolo Pietro da quando dice al pagano Cornelio “Alzati: anche io sono un uomo!”, a quando confessa di rendersi conto che “Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. La necessaria conversione avviene prima di tutto in lui

Pietro scopre un Dio che non guarda ad appartenenze, osservanze, affiliazioni, primogeniture, ma “accoglie chi lo teme”, e cioè chi consapevolmente o meno entra nella sfera del suo amore praticando la giustizia. Tanto è vero che inaspettatamente “lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola”. La conseguenza immediata che Pietro trae eccola: “Chi può impedire che siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?”.  Egli farà tesoro di questa lezione, che lo porta verso le posizioni di Paolo “apostolo delle genti” e promotore della “chiesa dei Gentili”. E al concilio di Gerusalemme, convocato per dirimere la questione se e come ammettere o meno i non circoncisi nel nuovo Popolo di Dio, egli se ne esce con queste affermazioni: “E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi” (At 15,8). Se tenessimo conto di questo, forse saremmo meno impastoiati!

C’è da chiedersi se non sia in questi termini la vera sfida per la chiesa oggi e se una conversione pastorale non dovrebbe portare a quello che si usa chiamare “cambio di paradigma”. Ma sembra sia impossibile uscire da schematismi mentali e consuetudini pastorali consolidate, che ci rassicurano ma ci imprigionano. Ma intanto qualche Cornelio da qualche parte ci sta chiamando, come il Macedone invoca Paolo (cfr. At 16,9). ABS


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