27 novembre 2022 - I DOMENICA DI AVVENTO (ANNO A)

 

Francis Danby: Il Diluvio (1840)

Londra, Tate Britain Gallery

 

 

PRIMA LETTURA (Isaia 2,1-5)

Messaggio che Isaìa, figlio di Amoz, ricevette in visione su Giuda e su Gerusalemme.
Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e s’innalzerà sopra i colli,
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri».
Poiché da Sion uscirà la legge
e da Gerusalemme la parola del Signore.
Egli sarà giudice fra le genti
e arbitro fra molti popoli.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.
Casa di Giacobbe, venite,
camminiamo nella luce del Signore.


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 121)


Rit. Andiamo con gioia incontro al Signore.

 

Quale gioia, quando mi dissero:
«Andremo alla casa del Signore!».
Già sono fermi i nostri piedi
alle tue porte, Gerusalemme!

È là che salgono le tribù,
le tribù del Signore,
secondo la legge d’Israele,
per lodare il nome del Signore.
Là sono posti i troni del giudizio,
i troni della casa di Davide.

Chiedete pace per Gerusalemme:
vivano sicuri quelli che ti amano;
sia pace nelle tue mura,
sicurezza nei tuoi palazzi.

Per i miei fratelli e i miei amici
io dirò: «Su di te sia pace!».
Per la casa del Signore nostro Dio,
chiederò per te il bene.

 

SECONDA LETTURA (Romani 13,11-14)

Fratelli, questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché adesso la nostra salvezza è più vicina di quando diventammo credenti.

La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a orge e ubriachezze, non fra lussurie e impurità, non in litigi e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo.



VANGELO (Matteo 24,37-44)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».



In altre parole

 

Bisognerebbe riuscire a scrollarsi di dosso il Natale della tradizione e ormai post-cristiano, ma anche le scorie di quello liturgico scandito dalla cronologia dell’Avvento contrassegnata dai 4 ceri e altri riti. Ci accingiamo fin da ora ad attraversare strade illuminate e a rispettare le abituali usanze, mentre all’interno delle chiese risuona l’invito ad adorare l’atteso Re Signore che sta per venire, in parallelo al significato simbolico dominante che il bambino di Betlemme ha acquisito come messaggio universale di rinascita, di umanità, di fraternità.  Buona cosa che sia Natale per tutti, ma non possiamo non chiederci quale Natale vogliamo celebrare, al di là di sentimentalismi e facili spiritualizzazioni.

 

Ma fino a quando possiamo vivere di rendita, e contentarci di quanto il messaggio cristiano ha impresso nella civiltà e nella storia, e dispensarci dal farlo risuonare nella sua assoluta verità evangelica? Va bene la sua penetrazione e configurazione umanitaria, etica, sociale e spirituale, ma non fino al punto di surrogare e vanificare la sua irriducibile realtà di fede, che arriva a noi solo di riflesso e in  qualche eco.  Quando Gesù rende lode al Padre perché ha rivelato ai piccoli il mistero del Regno, non è perché ne ha facilitato la comprensione con artifici di parole, ma perché li ha promossi a coglierne la rivelazione. Battezzare le tradizioni umane nate dalla fede cristiana può assicurare una sopravvivenza della fede, ma in realtà non fa che annacquare la Parola di Dio, che non è incatenata (cfr. 2Tm 2,9). Anzi, va accolta “non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio, che opera in voi che credete” (1Ts 2,13): si faccia di me secondo la tua Parola!

 

Ci sono due registri in base ai quali si può intendere e vivere l’avvento: o in senso cronologico di scadenza a cui si va incontro; o in senso escatologico come ciò che ci viene incontro e avviene di noi. Non spaventiamoci delle parole – appunto avvento escatologico – perché non è altro che quanto chiediamo nella prima parte del “Padre nostro”, ciò che dovrebbe innervare una spiritualità di fede cristiana e nel cui ambito si situa la nostra esistenza, fatta di pane quotidiano, di relazioni umane pacificate, di prove che portino alla liberazione dal male: che è la nostra storia di ogni giorno!

 

Tradizionalmente si parla di ”cammino di avvento”, e per la verità se c’è una parola usata ed abusata in questo periodo è proprio quella di “cammino”, come a dire che siamo orientati verso qualcosa d’importante, verso speranze, traguardi, conquiste e soluzioni opera delle nostre mani. Ma questo nostro protagonismo, anche celebrativo, ci nasconde  il fatto che quanto è decisivo non è tanto quello che possiamo realizzare nell’immediato, ma ciò che avviene, perché Dio è sì “Colui che è”, ma soprattutto “Colui che è che era e che viene” (Ap 4,8): è Lui a colmare le distanze venendo incontro a noi!

 

È qualcosa che ci riporta a prima dell’ormai ricorrente distinzione credenti-non credenti come categorie già definite, nonostante correttivi e aggiustamenti mentali: un prima in cui non c’è un sistema di appartenenza e di separazione tra grano e zizzania, e tutti ci ritroviamo indistintamente a ridosso del Regno che viene. Che viene comunque, lo si sappia o meno, lo si riconosca o meno, lo si accolga o meno. Siamo coinvolti per il semplice fatto che siamo al mondo.

 

L’orizzonte ultimo in cui veniamo a trovarci è perciò quello di un messianismo originario, senza appropriazioni preventive: un’attesa di salvezza e di pienezza che è nelle cose prima ancora che nei cuori (cfr. Rm 8). Non possiamo permetterci di “celebrare l’Avvento” restringendo gli orizzonti a nostra misura, e non possiamo neanche comportarci a compartimenti stagni, come se, ad esempio, la “salvaguardia del creato” fosse un capitolo a parte da tutto il resto. E se ci affanniamo a raccogliere e rimettere assieme i cocci di un mondo in frantumi, bisognerebbe tornare a pensarlo nella sua unità radicale.

 

Se abbiamo cercato di dire come disporci nei confronti dell’Avvento in riferimento al Messia che viene – quasi in intima comunicazione di spirito – è solo per sapere come meglio disporci all’ascolto della Scrittura di questo periodo liturgico per ravvivare la nostra attesa messianica, in un mondo in cui il Figlio dell’uomo vorrebbe trovare fede al suo ritorno (cfr. Lc 18,8), e cioè povertà di spirito e apertura al Regno ormai vicino: in ultima analisi un “credere al vangelo” che sia tale senza mezzi termini.

 

Il messaggio ricevuto e trasmesso dal profeta Isaia ci prospetta quanto dovrebbe accadere “alla fine dei giorni”: che tutte le genti affluiscano sul monte del tempio del Signore, e a questo proposito possiamo ricordare la promessa di Gesù, che presenta se stesso come nuovo tempio: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me»” (Gv 12,32); che i molti popoli conosceranno la vie del Dio di Giacobbe e cammineranno per i suoi sentieri, dove c’è la “sapienza della croce” e quanto ci è detto dalla samaritana: “So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa”; si lascia inoltre intravedere un giudice fra le genti e arbitro fra le nazioni, al punto che  grazie a lui le spade  si  trasformeranno in aratri e le lance in falci, fino a cancellare del tutto l’arte della guerra.

 

Tutto questo non è sogno, immaginazione o poesia, ma è quanto è in potere del Messia, e quanto in realtà ha operato Cristo ed è compiuto in lui. Ma dove e come risulta? Non per aggirare l’ostacolo insormontabile, ma per fare verità, c’è da dire che non dobbiamo aspettare le “fine dei giorni” perché questo avvenga, ma la fine dei giorni avviene se e quando ciò avviene: quando cioè, pur rimanendo dentro il tempo cronologico, noi entriamo con la fede nell’ordine escatologico della realtà. Si dirà che questo è difficile e arduo proporlo a credere. Ma non si può negare che è qui la sostanza della fede, “piccolo seme” che è alla radice dei rami, delle foglie e dei frutti del grande albero rifugio degli uccelli dall’aria.

 

Diciamoci francamente che noi cerchiamo i frutti senza curarci dell’albero; accettiamo la fede nei suoi rivestimenti e adattamenti, ma abbiamo paura della nuda fede, che di fatto rimane sommersa. Con tutto il rispetto per la fede dei singoli credenti, si deve dire che ufficialmente questa fede viene presentata e proposta a credere in qualcuno dei suoi infiniti rivestimenti cultuali, culturali e devozionali, ma senza più un significato proprio, come se il sale avesse perso il sapore: è quando la Parola di Dio viene contraffatta e falsificata (cfr. 2Cor 4,2), nell’intento di renderla plausibile e fruibile.

 

Tutto questo discorso anticipa in qualche modo quanto Gesù stesso esemplifica nei fatti, quando ci dice che “come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”: come allora, noi possiamo tranquillamente continuare a condurre la vita di sempre e di tutti nelle vicende e vicissitudini nel corso dei tempi. Ma dobbiamo sapere che al tempo stesso ha luogo tutta un’altra vicenda di ordine del tutto diverso, senza però che noi ci accorgiamo di nulla, per ritrovarci inaspettatamente travolti dal “diluvio universale”, invocato anche ai nostri giorni dal vignettista di un giornale con la scritta “urge diluvio”! Solo chi entra nell’Arca dell’alleanza, e quindi in un tempo fuori del tempo, può trovare scampo. Queste due modalità di esistenza continuano a coesistere – “uno (e una) verrà portato via e l’altro lasciato”. Il giorno di Noè è anche il giorno in cui il Signore verrà, e farsi trovare pronti richiede di aver fatto prima il passaggio da un mondo all’altro. E la vera conversione è prima di tutto questa: ”credere al vangelo”

 

E se vogliamo fare questo passo, ci vengono incontro e ci fanno da guida le parole della lettera ai Romani, che vanno solo rilette con attenzione: ci invitano ad essere “consapevoli del momento”! Ci vengono da quel mondo di cui Paolo è viva testimonianza e nel quale si vive rivestiti del “Signore nostro Gesù Cristo”. È il caso di ricordare la veste bianca indossata nel battesimo, segno della nuova dignità, da portare senza macchia per la vita eterna. Volendo ridurre tutto ad una formula, si deve dire che la dignità “cristiana” non può essere giocata su un solo registro, né quello temporale e terreno, né quello spirituale ed eterno: né sono ammessi facili compromessi, ma i due versanti devono trovare una giusta corrispondenza per quello che effettivamente sono, “come in cielo così in terra!”. È questa la via che ci si apre davanti, e sulla quale muovere i nostri passi. (ABS)


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