27 marzo 2022 -  IV DOMENICA DI QUARESIMA - LAETARE (ANNO C)

 

 

Bartolomé Esteban Murillo: Il ritorno del figliol prodigo (1667-70)

Washington, National Gallery

 

 

 

PRIMA LETTURA (Giosuè 5,9-12)

 

In quei giorni, il Signore disse a Giosuè: «Oggi ho allontanato da voi l’infamia dell’Egitto».

Gli Israeliti rimasero accampati a Gàlgala e celebrarono la Pasqua al quattordici del mese, alla sera, nelle steppe di Gerico.

Il giorno dopo la Pasqua mangiarono i prodotti della terra, àzzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno.

E a partire dal giorno seguente, come ebbero mangiato i prodotti della terra, la manna cessò. Gli Israeliti non ebbero più manna; quell’anno mangiarono i frutti della terra di Canaan.



SALMO RESPONSORIALE (Salmo 33)


Rit. Gustate e vedete com’è buono il Signore.

 

Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

 

SECONDA LETTURA (2Corinzi 5,17-21)

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.

Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.

In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.

Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio.



VANGELO (Luca 15,1-3.11-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

 


In altre parole…

 

È il momento felice di svolta per il popolo accampato nelle steppe di Gerico, dove può celebrare la Pasqua con i prodotti della terra, senza più avere bisogno della manna dal cielo: ma è esperienza e storia di popolo, che ci sollecita ad uscire dalla prospettiva individualistica a cui siamo legati anche non volendo. Cha capacità abbiamo, in effetti, di vivere con coscienza messianica, profetica e sacerdotale dentro il nostro mondo, al di là della buona volontà e dell’impegno dei singoli, che si ritrovano insieme solo grazie ad una sovrastruttura che li sovrasta e li emargina?

 

Si tratta in ogni caso di cancellare l’infamia dell’Egitto e di dare inizio ad una vita e ad una storia nuova proprio dentro  le situazioni più difficili che non mancano, e tutto in prima persona come popolo di Dio: qualcosa che rimane implicito nei testi liturgici e nella comunicazione verbale, ma che deve essere portato in primo piano, se vogliamo che la Pasqua non rimanga evento a proprio uso e consumo, ma abbia il valore che essa ha nella storia degli uomini. E se noi oggi ci rifacciamo alla prima pasqua nella terra promessa, altri dovrebbero potersi rifare alla nostra pasqua!

 

Rimaniamo tutti commossi e affascinati dalla parabola del figliol prodigo, che non ha mancato di avere interpretazioni pittoriche in tutti i tempi. Ma si sbaglierebbe a pensare che Gesù l’abbia raccontata al solo scopo di esortare ad una conversione personale col ritorno alla casa del padre: egli la racconta a farisei e scribi che mormoravano di lui, perché accoglieva pubblicani e peccatori che andavano da lui per ascoltarlo, allo scopo di far capire la incondizionata misericordia del Padre verso quanti si sono allontanati da lui ma poi trovano la via del ritorno, un Padre costretto all’impotenza verso quanti si ritengono a posto e magari rivendicano da lui qualcosa di cui non sanno usufruire liberamente come figli.

 

In questo senso la parabola rimanda alla nostra condizione umana di sempre nei confronti  di un Padre lasciato nella sua casa nell’attesa del nostro ritorno. E questo dopo che la nostra rivendicazione di libertà ci ha portati a sperimentare la condizione di schiavi e di miseria, ma anche di ritorno in se stessi prima che alla casa lontana. Attraverso le vicissitudini della vita condotta in piena autonomia e sufficienza, riemerge il ricordo e la nostalgia dell’amore di un padre, che se da una parte era apparso opprimente ora era sentito necessario come l’aria. Sta di fatto che solo attraverso una esperienza di rottura e di allontanamento si arriva a riscoprire la presenza liberante di un padre dopo che era stata vissuta come troppo limitativa.

 

È quanto porterà la chiesa intera a cantare nella veglia pasquale “o felice colpa”, mentre Paolo arriva a dire che “laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” (Rm 5,20). È il paradosso della speranza cristiana! Forse perciò è possibile una lettura cristologica della parabola, se teniamo presente quanto ci dice ancora san Paolo in  Filippesi 2,6-7, quando ci esorta ad avere in noi “lo stesso sentimento che è stato anche in Cristo Gesù, il quale, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente, ma svuotò se stesso, prendendo forma di servo, divenendo simile agli uomini”. È con questa consapevolezza di essere simile agli uomini che Gesù in qualche modo presenta se stesso quando ci parla del figliol prodigo, perché anche noi possiamo avere lo stesso sentimento.

 

Nella sua replica alle mormorazioni di Farisei e di Scribi egli fa capire che mentre i pubblicani e i peccatori lo cercano e lo ascoltano, e quindi possono riconoscersi nel figlio accolto con gioia dal padre, essi sono piuttosto simili al fratello maggiore, che si condanna con le sue stesse parole quando stabilisce questo confronto: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. È quanto avviene anche tra il fariseo e il pubblicano al tempio, per marcare la differenza tra chi si ritiene giusto e giustificato per la conformità a qualche ordine prestabilito di osservanze e chi invece si riconosce peccatore e si rimette con fiducia alla bontà di un padre.

 

Le parole che il padre rivolge al figlio osservante, quando lamenta il diverso trattamento, prefigurano il significato cristologico della parabola: “Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. Qualcosa che apre alla speranza per tutti e che trova una sua traduzione nella riflessione di san Paolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio”. Per cui davvero “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove”. Quanto tutto questo è espresso e trasmesso dalla fede dalla nostra chiesa storica, impegnata a darsi vesti nuove (come avviene per il prodigo nella immagine del Murillo) per essere credibile nel mondo?

 

È questo, in sostanza, il senso della “vita cristiana” prima di ogni altra versione derivata: questo essere e sentirsi “nuova creatura” per agire in coerenza. È dentro il nuovo orizzonte di vita che è Cristo che tutto questo avviene ad opera di Dio “che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo”. Prima quindi di preoccuparci di come essere cristiani agli occhi degli altri, non sarebbe male tenere presente come lo siamo e lo diventiamo da sempre. L’unica cosa di cui farsi carico dovrebbe essere che, se Dio ha riconciliato il mondo a sé mendiate Cristo, è questo il “ministero della riconciliazione” - o la “parola della riconciliazione” - affidato a noi: è la testimonianza viva e la predicazione aperta di questa avvenuta riconciliazione del mondo con Dio, di un mondo riconciliato e  non condannato.

 

Bisognerebbe davvero ritrovare la consapevolezza, la convinzione, il coraggio, la “parresia” di essere semplici ambasciatori di Dio, per supplicare tutti e ciascuno a lasciarsi riconciliare con lui, a non lasciar cadere nel vuoto la sua iniziativa di salvezza nella storia, e ritrovare insieme la strada di ritorno nella casa sempre aperta. Starebbe qui l’unica vera ragion d’essere di una chiesa e di ogni chiesa nel mondo! Non avremmo però ridotto l’opera di Dio a psicologismo, moralismo, pietismo, ritualismo, celebrativismo rassicuranti, che ci fanno ritrovare dalla parte del fariseo piuttosto che da quella del pubblicano al tempio? (cfr. Lc 18,9-14). (ABS)


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