16 gennaio 2022 - II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO C)
 

Giotto: Nozze di Cana (1303-05)

Padova, Cappella degli Scrovegni

 

 

PRIMA LETTURA (Isaia 62,1-5)

Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.


SALMO RESPONSORIALE (Salmo 95)


Rit. Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.

 

Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.

Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine.

 

SECONDA LETTURA (1Corinzi 12,4-11)

Fratelli, vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti.

A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune: a uno infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato il linguaggio di sapienza; a un altro invece, dallo stesso Spirito, il linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, la fede; a un altro, nell’unico Spirito, il dono delle guarigioni; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di discernere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro l’interpretazione delle lingue.

Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole.



VANGELO (Giovanni 2,1-12)

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.

Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose:

«Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo.

Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.

Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».

Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

 

In altre parole…

Vivo questo appuntamento come comunicazione più che come commento vero e proprio: in primo piano c’è sempre ciascuno di voi, con cui sentirsi uniti nell’ascolto della Parola di Dio e del Signore. Possiamo dire che è il nostro “camminare insieme” senza particolari pretese? Per quanto in diaspora, ci ritroviamo situati nella stessa condizione di chi nutre la speranza di partecipare alla nascita di un nuovo Popolo di Dio per i nostri tempi, fino a poter dire: “Mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 136,6).

 

Troppo spesso si sente parlare di “amore per la chiesa” come attaccamento di appartenenza, come docilità, come obbedienza e sottomissione ad un certo sistema, invece che come ambizione di incarnare in noi i disegni di Dio sulla umanità, perché questo vuol dire essere chiesa. E perché anche per noi potrebbe presentarsi in questo senso il momento in cui ricerca, impegno, sofferenze e speranze lasciano intravedere il suo compimento. Ed allora potremmo e dovremmo fare nostre come in un cantico le parole del profeta Isaia “Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada”. Non si può parlare di chiesa senza sentirsi chiamati in causa!

 

Non si tratta insomma di artifici spirituali o strumentali, ma è la ritrovata consapevolezza di essere in cammino nella storia, per ricevere quel “nome nuovo” con cui essere chiamati e che “la bocca del Signore indicherà”. Qualcosa di grande: non a caso si parla di “corona nella mano del Signore”, di diadema regale nella palma di Dio.  Sion non sarà più detta “Abbandonata” e “Devastata” ma si sentirà chiamare “Mia Gioia”, perché essa avrà uno sposo, e sarà la delizia del suo Signore, perché “come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te”. È con questo spirito e questa passione nel cuore che dovremmo tornare a parlare della chiesa nostra madre, ad occhi aperti.

 

Per sottrarsi alla schiavitù del tempo, delle leggi, delle tradizioni umane, delle convenzioni e delle convenienze che lamentiamo nella chiesa, c’è senz’altro la denuncia profetica, l’impegno di liberazione nella verità, ma in primo luogo c’è questo traboccare della grazia di Dio nella sua inesauribile iniziativa di formarsi un Popolo, che manifesti al mondo la sua giustizia e la sua gloria: che sia il Popolo della nuova ed eterna Alleanza. Bisognerebbe davvero che questo Popolo fosse come un sol uomo per interloquire con il suo Dio e per parlare di Lui agli uomini. Non è né bigottismo né utopia, ma realismo della fede.

 

Sappiamo bene, infatti, quanto ha fatto e fa il Signore Gesù nel suo agire tra gli uomini. E quando l’evangelista Giovanni, nella sua prima apparizione pubblica, ce lo presenta a Cana ad un banchetto di nozze, non possiamo non pensare un po’ arditamente alla gioia dello sposo per la sua sposa. Dopo che i commensali hanno assaggiato l’acqua diventata vino, Giovanni annota che “questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”. Quindi qualcosa più che semplice miracolo. Come siano andate le cose ha semplicemente questo significato e questa finalità: di segno della sua gloria perché si creda in lui!

 

Gesù accetta l’invito ad una festa di nozze dove va con i primi discepoli e dove c’è la madre di lui: erano feste di giorni a carattere sociale, ed è la prima volta che egli si trova in contesto pubblico, forse già con una sua rinomanza. La madre gli fa semplicemente presente, forse al suo arrivo dopo di lei, che era venuto a mancare il vino per la festa, così come in altra circostanza i discepoli gli faranno presente che sarebbe stato meglio congedare la folla che lo seguiva per non farla morire di fame in luogo deserto, quando appunto avverrà la moltiplicazione dei pani.

 

In tutti e due i casi si scontrano visioni e valutazioni diverse di uno stato di necessità: e mentre a tutti, compresa la madre, preme la soluzione immediata del problema, a Gesù interessa portare tutti ad avere un’ottica diversa. Quella che lo porta alla libertà di prendere l’iniziativa, non tanto o non solo per venire incontro alle comuni attese, quanto per indurre tutti ad uno sguardo diverso sulle situazioni e sulla sua persona. Anche quando sembra che il risultato materiale sia lo stesso. Il modo in cui replica alla sommessa preoccupazione della madre lascia intendere che sa bene lui cosa fare e quale è la sua ora per intervenire, e non vuole dare adito a fraintendimenti sul suo modo di agire o sulla sua “ora”: “Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora”.

 

Una risposta simile Maria se l’era sentita dare quando con Giuseppe lo ritrova nel Tempio tra di Dottori, e capisce subito che si muovono su presupposti e piani diversi, anche se all’atto pratico convergenti. Forte di questo è lei a forzare le cose e portare anche alla soluzione pratica del problema, quando chiede ai servitori la stessa disponibilità di fede che lei aveva: “Qualsiasi cosa vi dica, fatela”. È la sua stessa fede prestata a quegli uomini e donne, che alla fine quasi costringe Gesù a far scattare in anticipo la sua ora, dando il primo segno di quello che sarà il segno supremo del suo amore e quindi della sua gloria come di Unigenito del Padre.

 

 Ad orientare il suo comportamento non è tanto la volontà di assecondare il desiderio altrui, né di dare prova di sé o dare sfogo al suo sentimento di compassione o di altruismo, cose che di fatto avvengono; quello che gli sta a cuore è suscitare la ricerca insieme a lui delle “cose del Padre suo”, compenetrarsi nel volere del Padre per la realizzazione del suo Regno. Egli non disdegna la partecipazione piena alle situazioni umane e ne soffre in totale solidarietà, ma si preoccupa di far risaltare la loro dimensione o risoluzione intrinseca di grazia o di kairòs, la loro potenzialità di gloria.

 

Una considerazione che potremmo permetterci a margine è che, mentre i vangeli sinottici danno rilievo al battesimo di Gesù come momento rivelativo, Giovanni dà per compiuto questo evento, per offrirci come contesto di presentazione il racconto delle nozze di Cana. È dunque qui che bisogna iniziare a comprendere il suo modo di essere tra gli uomini: quasi in incognito e in modo del tutto marginale, al tempo stesso in cui i gesti che compie inducono a cogliere in lui il portatore di grazia e verità e a credergli come colui che narra le cose di Dio. E qui appunto il contesto nuziale non manca di risonanze, quasi a voler prospettare il suo ruolo nella Nuova ed eterna Alleanza o nel banchetto di nozze del Regno di Dio.

 

Quando Paolo, nel noto passo della 1Corinti, parla di diversi carismi, diversi ministeri, diverse attività, è senz’altro per evidenziare la varietà e la ricchezza dei doni interni alla chiesa, ma è soprattutto per sottolineare che “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole”: e cioè che uno solo è lo Spirito, uno solo il Signore, uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. È la dimensione sostanziale, unitaria e dinamica, della fede come opera di Dio (Gv 6,29), irriducibile alle sue molteplici espressioni. Ed è quanto dobbiamo mettere in conto e contemplare del “mistero della chiesa” o del Popolo di Dio in cammino nella storia.

 

Di fatto abbiamo creduto di rinnovare la fede della chiesa guardando più alla sua credibilità umana, prima che alla sostanza del credere come “relazione di grazia”. Si potrebbe anche dire - ma non mancherà occasione di tornarci sopra, come già altre volte ripetuto - che ci preoccupiamo di una chiesa fattore di unità del genere umano, dando per scontato che essa sia primariamente “segno e strumento di intima unione con Dio”. Di qui il conflitto tra “chiesa mistero” e “chiesa storica”, che dovrebbero invece essere le due facce della stessa medaglia. Non basta neanche che queste due dimensioni si sviluppino al massimo separatamente o come sacralità o come laicità: non basta essere solo tutto vino o solo tutta acqua, ma acqua che diventa vino. Possiamo ricordare le parole della liturgia al momento di preparazione del calice: “L’acqua unita al vino sia segno della nostra unione con colui che ha voluto assumere la nostra natura umana”. È la natura teandrica e sacramentale della vita stessa della chiesa.  (ABS)


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